20.9.23

Recensione" Io Capitano" - Al Cinema 2023

 

L'ultimo film di Garrone (regista e autore che adoro) è forse una spanna sotto alle sue opere più grandi (L'imbalsamatore, Gomorra, Reality, Dogman) ma è comunque l'ennesimo gran film di una carriera invidiabile.
La storia di Seydou e Moussa, due giovani senegalesi col sogno di arrivare in Italia, in Europa.
Ne nasce un road movie che attraverso bus, jeep, lunghissime camminate nel deserto e un'ultima traversata in barcone deve portare questi due ragazzi, e tutti i migranti insieme a loro, a questo sogno europeo che molte volte si rivela soltanto una chimera.
Una prima parte non del tutto convincente per fotografia, per montaggio e per racconto, fa da base ad una seconda molto più drammatica.
Eppure "Io Capitano" sembra un film che rifugge il completo realismo per diventare qualcosa di più simbolico.
E Seydou, questo giovane straordinario ragazzo, diventa una specie di Cristo che, attraverso l'empatia e l'amore per gli altri, può far aggrappare l'intera umanità alla speranza


Quando ho visto Seydou urlare continuamente a pieni polmoni "Io capitano! Io capitano! Io capitano! Io capitano!" ho pensato che il film dovesse fermarsi in quel momento, perchè una stessa identica scena ha una potenza diversissima in base a dove viene inserita.
E una sequenza finale, da sempre - parlando di potenza - ne ha una tutta sua che tutte le povere sequenze inserite prima di lei possono solo sognarsi.
Come la fine di una canzone, come la fine di una storia, come la fine di una vita, l'ultima cosa che ci rimane resterà sempre, nel bene o nel male, indimenticabile.
L'urlo di Seydou è, "tardellianamente", senza freni, senza misura, l'urlo più grande che quel meraviglioso ragazzo potrà emettere in vita.
Eppure è un urlo afono per noi spettatori, completamente sovrastato dalle eliche degli elicotteri della guardia costiera (e, curiosità, quell'elicottero è nell'intero film l'unica "presenza" non africana).
Un primissimo piano straordinario in cui l'audio che non senti (l'urlo) è mille volte più potente di quello che ti assorda (le eliche).


Seydou è vestito con la maglia del Barcellona come sono vestiti con maglie di squadre di calcio tantissimi suoi compatrioti e amici.
Queste shirt con tanto di sponsor miliardari indossate da poveri cristi possessori di nulla è uno di quei contrasti tristi e meravigliosi che, in qualche modo, possono rendere belli i film e le nostre vite.
Eppure, se ci pensate, in questo film in cui sia i nostri protagonisti sia gran parte degli immigrati sul barcone sono sempre vestiti con maglie da calcio, ecco, quel "Io Capitano" urlato nel finale si contorna anche di un significato metaforico sportivo, come se Seydouy fosse veramente il capitano di un'unica squadra, dando a quella parola un duplice ambito ma uno stesso significato, io sono colui che li guida, io sono quello che si mette davanti a tutti e parla a nome di tutti (come nel calcio fanno i capitani con gli arbitri).
Quando, in teoria, il suo ruolo di conduzione della barca doveva impaurirlo e tenerlo nascosto, ecco che nel finale Seydou diventa veramente capitano, ma non tanto perchè ha portato tutta quella gente fin là ma perchè li ha sostenuti moralmente, perchè li ha protetti, perchè ha lottato per loro, perchè ha dato loro speranza.
Seydoux è entrato in quella barca come impreparato e impaurito conducente e ne è uscito come capitano, come leader e, soprattutto, come simbolo.
Ecco, simbolo perchè io credo che questo gran bel film di Garrone (in ogni caso una spanna sotto ai suoi 3/4 capolavori migliori) vada letto soprattutto in maniera simbolica.
Vero, è raccontato in maniera ultrarealistica (anche se montaggio e fotografia remano contro al realismo, ne parleremo) ma alla fine Io Capitano - un pò come fu per quell'immenso film che è Reality o come è successo anche in Dogman (vedi finale) - è l'ennesimo Garrone in cui il racconto di una "storia vera" riesce in qualche modo ad ergersi (o abbassarsi?) a simbolica.
Il canaro che in un finale quasi onirico offre al popolo l'enorme corpo del pugile è in qualche modo simbolo dell'oppresso che uccide l'oppressore, del suddito che uccide il Re e vuole mostrarlo agli altri sudditi, per essere amato.
E pure in Reality il nostro protagonista, in modo più o meno esplicito, finiva in un mondo "tutto suo" apparentemente molto legato alla realtà ma alla fine sradicato da essa.
E come in Dogman anche lì il finale sembrava quasi una reificazione della sua pazzia con quella risata e l'inquadratura che se ne andava fuori dalla casa, fuori dalla città.
Lassù.

12.9.23

Festival del Cinema di Venezia 2023 - Recensione di ben 23 (VENTITRE') film - A cura di Francesca, Enrico e Tommaso

 


Nuovo record sul buio, 23 mini-medie recensioni tutte insieme :)
Quest'anno "avevo" 3 ragazzi a vedere film a Venezia.
Per problemi organizzativi miei o di recensioni tardive loro (non sono professionisti e hanno fatto tutto in ritagli di tempo) abbiamo deciso di fare un "mega unico grande postone" adesso, con tutte i loro pezzi.
In realtà a me piace molto questa impostazione, anche perchè trovare tutto in un luogo unico è davvero comodo.
Vero è che a 2/3 giorni dalla chiusura della Mostra questi post sembrano già anacronistici ma ricordiamo sempre che questo blog esiste per parlare di film, non di attualità o premi, di cui ce ne siamo sempre fregati.
Quindi vi lascio alle recensioni (tantissime!) di Enrico, a quelle di Tommaso e all'unica (però vedi che occhio? quella del vincitore) di Francesca.
Non posso leggerle perchè non ho visto nulla ma son sicuro saranno davvero interessanti e ben scritte.
Ah, visto il numero diversissimo di contributi di ognuno ho pensato di alternare i 3 nell'impaginazione (grazie Gianluca, sempre)
Ah, potreste trovare anche lo stesso film raccontato da più persone eh, credo sia interessante come cosa.
Buona lettura!

ENRICO GASPARI


LUMBRENSUEÑO di José Pablo Escamilla (Messico)


Ah, Venezia, la Mostra del Cinema. L’aria di mare e di novità. La stanchezza che si mischia all’eccitazione febbrile. Le stroncature, che, come dice Ego in Ratatouille, “sono uno spasso da scrivere e da leggere”. Cominciamo proprio così, oggetto, questo film messicano. Mentre entravo in sala leggermente affannato, ho catturato qualche stralcio di introduzione della presentatrice, che diceva come questo film fosse prodotto a basso budget proprio dalla Biennale, e creato da un collettivo di registi. Già mi sono scesi i sudori freddi, ma forse era solo la corsa per raggiungere il posto, non essere prevenuto, mi sono detto. Poi, il film comincia, introdotto dal solito montaggio animato. (E questo non c’entra niente, ma da quanti anni è che non lo cambiano? Il logo viene giustamente rinnovato ogni anno, e poi al film vero e proprio trovi sempre lo stesso motivo, che sarà lì ormai da quando la Coppa Mussolini era ancora un premio.) Insomma, comincia l’avventura. Ed ecco flash, luci sfocate, scritte ad effetto, per accompagnarci. Non giriamoci tanto intorno, il film è brutto. Anzi, più che altro noioso e pretenzioso (nonostante attori anche bravi, come il protagonista e la sua sorella filmica), magari non ai livelli di The Maiden, l’anno scorso. Persino la trama ha qualche similitudine, se così vogliamo chiamare la vita di questo ragazzo in un fast food messicano, e come la cambia dover affrontare un lutto. Questo porta ad un primo stralcio del film profondamente inconcludente, dove si vaga qua e là senza un punto. Un secondo, dove immagino dovremmo sentire il dramma per il suo amico complottista, quello che per tutto il film fa cose e spara discorsi senza capo né coda. Quasi mi aspettavo che ad un certo punto saltasse su, gridasse “LIBERATI!”, e armato di un cappello di stagnola andasse ad unire le forze su Facebook al complottista di Piove. Terza e ultima una mezz’oretta di elaborazione, dove devo essermi addormentato più volte, data l’alzataccia per venire a Venezia. Nel mezzo, continui stralci, come ho già detto, di frasone che compaiono sullo schermo, e sembrano le robe fintamente profonde e nichiliste che scrivevo io in terza media per sentirmi importante. Insomma, cominciamo bene.


DOGMAN di Luc Besson (Francia)



Con una certa sorpresa, ho ritrovato al Festival (in concorso pure!) Luc Besson, uno dei miei registi preferiti ancora in attività. E con un titolo che agli italiani non può non rimandare a Garrone, presente anche lui in concorso e, credo non a caso, nei ringraziamenti di questo film. La storia comincia in una notte americana, quando la polizia ferma per strada un furgone. Quasi un inizio alla Prisoners, con la pioggia, questo travestito sanguinante e di cui non vediamo il volto alla guida, nessun documento ma un furgone pieno di cani. Il resto è un lungo flashback alla stazione, dove il nostro “uomo cane” racconta la sua tragica e strana storia alla dottoressa chiamata lì per capire chi è. Insomma, intrigante, nelle premesse come nello sviluppo, anche se a titolo assolutamente personale, mi è sembrata una pellicola, come dire, poco “bessoniana”. Non che il francese volesse fare Joker piuttosto che un film suo, come hanno sostenuto tanti. Uno dei pregi maggiori qui, è la mancanza di quella complicità morale con un protagonista che amorale lo è totalmente, che affossava un film come quello di Phillips. Besson è interessato solo a raccontarti una storia, quella di un uomo particolare, che ha fatto grandi cose e terribili cose. Non da solo ovviamente, ma circondato dai più fedeli amici dell’uomo. E non me ne voglia un Caleb Landry Jones coraggiosissimo, spesso sopra le righe ma a suo modo sontuoso, sono loro le vere star del film. I canidi di tutte le razze e dimensioni, le loro espressioni (far recitare un cane è difficile, anche se poi non come con un cane di attore), la loro presenza intimidatoria o consolatoria, la loro intelligenza, chiaramente assistita dietro le quinte dai non meno importanti addestratori. Ecco, questo è il Besson che ci piace, che lavora alla vecchia maniera con la terra e con il fango, senza la faciloneria degli effetti speciali; che è sfrontato e senza paura, come nella scena del drag show sulle note di Sweet Dreams, dove affronta il camp e lo trasforma in lirica, similmente a come aveva fatto in Valerian nell’analoga scena del club mutaforma. D’altronde, credo che Besson sia l’unico regista al mondo in cui la quota “citazioni ai classici” (stavolta con Shakespeare) sia altrettanto consistente di quella “sparatorie ignoranti”… Messo da parte tutto questo, sembra comunque una Carica dei 101 - quello sì, rivisto recentemente, un signor film coi nostri amici animali – in salsa signori della droga più che una vera opera bessoniana. E non aiutano certi difetti oggettivi, come i suddetti criminali, tremendamente sopra le righe e stereotipati, pura carne da macello. Lo sono pure il padre e il fratello nei flashback d’infanzia, protagonisti della scena del fucile, un incredibile pasticcio di continuità: viene sparato un colpo che sarà all’altezza dei piedi (tanto che lì si crea un buco nella rete della gabbia), lui che vola all’indietro come se lo avessero colpito in pancia, e il colpo vero e proprio che si scopre essere… al dito. Mentre la scheggia che lo paralizza, nella schiena. Insomma, un disastro, come lo è il personaggio della dottoressa, totalmente inutile, noiosa, senza un’espressione che sia una diversa da quella che si tiene in faccia tutto il film. Però c’è anche tanto di bello, i cani, le scene e i personaggi del club, tutte divertenti e ispirate, il ritmo che non cala mai, l’originalità di una sceneggiatura autentica, scritta di suo pugno da Besson. Nonostante sentimenti contrastanti, alla fine, davvero non si riesce a voler male a questo film.


SER SER SALHI di Lkhagvadulam Purev-Ochir (Mongolia)




La City of Wind del titolo inglese di questo film è Ulan Bator, la capitale della Mongolia, paese immensamente affascinante, e che, credo per la prima volta, al Festival, posso scoprire in un esemplare della sua filmografia. E mi è andata bene, perché Ser Ser Salhi è un bel, forse ottimo film. La storia segue Ze, un ragazzo dei quartieri yurta della metropoli, già questo un dettaglio particolare. Il mio occhio occidentale, che tra l’altro in Asia non è mai stato, si intriga davanti ad un posto così legato alla propria Storia, a quella tradizione nomadica che ha distinto il ceppo mongolo nei secoli, e che ancora non può rinunciare alle tende, nemmeno all’epoca degli appartamenti automatizzati. Uno di quelli che sogna anche il nostro protagonista, giovane, studente di una città viva e per molti versi orientata al futuro, sebbene abiti in un simile quartiere con la sua famiglia e faccia, a richiesta, il lavoro più arcano che esista, lo sciamano. È durante una di queste consulenze che incontra una ragazza, Maralaa. Sebbene malata, e prossima ad una delicata operazione, lei non crede minimamente agli appoggi del “corpo spirituale”. Diversamente da lui, che fa lo sciamano non per soldi o spinto dalla famiglia (almeno, non principalmente), ma sente fin da piccolo questa connessione ultraterrena. Eppure, dopo che l’intervento riesce, i due si ritrovano e cominciano effettivamente a legare. Molto interessante l’atteggiamento dei genitori in questo, defilato, sebbene non assente, e certamente amorevole. Ma d’altronde questo è un efficace spaccato di famiglia, dove spicca la sorella, che per prima aveva sentito la ribellione adolescenziale, la voglia di scappare di casa, l’ansia della sua età che il fratello doveva calmare con lo scacciapensieri. Ad un certo punto tocca a Ze, innamorato, provare la felicità mondana, sentire allentato il legame coll’antenato, ed è lei, tornata a casa dopo essere rimasta incinta, che si dimostra adulta e prende in mano la situazione (e lo scacciapensieri). Nemmeno Maralaa rimane schiacciata, anzi è un gran ritratto di gioventù inquieta, senza amici perché scostante, infelicemente tesa tra la madre, più credente, che cerca di rifarsi una vita a Ulan Bator, e il padre trasferitosi in Corea, che le manca profondamente. Insomma, è chiaro come questo film voglia raccontare il conflitto tra la modernità e le tradizioni, e come esse vengano accolte o respinte dai giovani mongoli. Il maggiore successo della pellicola, comunque, è accontentarsi largamente di essere una semplice, ma per nulla semplicistica, storia d’amore tra ragazzi, raccontata con grazia, poche pretese, e due interpreti dolcissimi. Per quanto mi riguarda, specie visto l’andazzo della Mostra, un successo.


AGGRO DR1FT di Harmony Korine (USA)



Una provocazione di Harmony Korine. Qualcuno si sarebbe aspettato qualcosa di diverso, da un regista col curriculum simile? Credo piuttosto che chi è entrato nelle sale che davano Aggro, si aspettasse un film provocazione, e se certamente il secondo attributo è giustificato, il primo mi lascia perplesso. Di solito i film si vedono, non si subiscono, almeno non del tutto, parzialmente casomai. Qui lo spettatore può anche rimanersene fuori dalla sala, perché il suo coinvolgimento è totalmente sacrificato. E intendiamoci, all’inizio è anche affascinante questo radicalismo, la rappresentazione perversa di un mondo dove tutto è bruttezza e orrore, dove il killer protagonista ha letteralmente un demone in sé, che gli sussurra, anzi urla, perché niente è sottile o delicato qui, vomita cattiveria e orrore. Ma dopo dieci minuti, diventa unicamente punizione. È come quando ti mettevano, appunto, in punizione alle elementari (almeno a me è successo le ultime volte lì, non so se lo facciano ancora): volta le spalle alla classe e guarda il muro. Non imparerai nulla, anzi sarai faccia a faccia col nulla stesso. Qui però non puoi nemmeno goderti il silenzio e la tranquillità che esistevano persino in esperienze simili: sei assordato da un sonoro opprimente, pungolato agli occhi da un regista che ha creduto bene girare un’ora e venti di infrarossi, mortificato da una storia che potrebbe aver scritto uno di quei ragazzini americani che va a sparare nelle scuole – il protagonista che si definisce “il più grande assassino del mondo”, roba di un infantile unico – dove tutte le donne sono puttane e tutti gli uomini demoni violenti e scamiciati. Aggro Dr1ft qualcuno ha anche avuto il coraggio di definirlo geniale; per quanto mi riguarda geniale forse Korine lo è, che da quando ha scoperto le spiagge, i passamontagna e probabilmente la droga della California costiera in Spring Breakers, “racconta” solo quello facendosi anche ricamare sopra dai critici. Beh, contento lui, contenti voi, contenti tutti.


TOMMASO FERRERO

LA BÊTE di Bertrand Bonello (Francia, Canada)



Una bestia ti sta inseguendo, quando ti troverà qualcosa di terribile accadrà. “Ficata”, penso subito, “che premessa bomba”. Eppure, la bestia non arriva mai a mordere, come La Bête non arriva mai ad un punto fermo che ci faccia dire “Oh, ste due ore e trenta davanti a uno schermo sono proprio state un buon uso del mio tempo”. Resta un grande amaro in bocca di aver visto un film che poteva essere, ma non è stato, un “potrebbe emozionarmi”, ma non ha emozionato. Insomma, La Bête è un film elegantissimo, capace di ottimi picchi visivi, di un montaggio sperimentale, ma non fastidioso, e di giocare con il significato del tempo sullo schermo in maniera egregia. Tutto questo è ottimo, se non fosse che poi ci propone una lettura di una storia d’amore sciapa, non del tutto riuscita, che arriva e non arriva allo stesso tempo. Perché di amore, infine, parla, una coppia di innamorati costretta o benedetta, dal dovere di rincontrarsi a ogni reincarnazione, ma che non possono mai consumare e portare a termine il loro amore. Amore e morte, rassegnazione e lotta e un futuro in cui i grandi sentimenti umani, perché scomodi, vanno eliminati tramite una lunga e complessa terapia. Peccato che siano gli stessi sentimenti che il film non riesce ad innescare nello spettatore, quindi, forse, “missione riuscita”? Comunque, Lea Seydoux e George McKay sono due interpreti davvero eccezionali.

25.8.23

Recensione: "Oppenheimer" - Al Cinema 2023

 

La mia sull'ultimo, portentoso, film di Nolan

Riflettendo sui fatti
Sui modi e sui tempi
C'è da finire matti a pensare che un attimo solo bastò
Adesso lo so
E non è che rimpianga
Nemmeno una volta
E non è la coscienza che brucia, è l'assenza che il buio portò
E che un giorno riavrò
Non c'era nemmeno un segnale
O il tempo di avere terrore
Soltanto l'odore bruciato di plastica
E un cielo che ha sbagliato colore
E la luce che cambia, che cresce che esplode
E la rabbia che sale e col sangue corrode
E intanto intuire o persino sapere
Che niente e nessuno
Potrà mai spiegarmi perché
Ma tornando al presente,
C'è un rumore costante
Una nota stridente che ancora la mente scordare non può
È il regalo che ho avuto,
Da quel giorno per me il mondo è muto
E non chiedo un aiuto, anzi evito meglio di dire di no
A chi cerca in quello che so
Non c'era nemmeno un segnale
O il tempo di avere terrore
Soltanto l'odore bruciato di plastica
E un cielo che ha sbagliato colore
E macine immense che gettavano terra
E il vento, il fuoco, le feste, la guerra
E intanto intuire, o perfino sapere
Che niente e nessuno potrà mai spiegarmi perché


Era il 1996 quando Daniele Silvestri fece uscire questo straordinario pezzo.
Un pezzo che in poche parole racchiudeva tutto il racchiudibile riguardo la bomba atomica.
Quello che ci ha lasciato, le domande alle quali non risponderemo mai, le sensazioni che hanno dovuto vivere le persone che se la videro buttare addosso - con quel cielo che cambiò colore in un istante, senza nemmeno lasciare il tempo di avere terrore - e la coscienza sporca "collettiva" che questo evento - forse uno dei più grandi eventi della storia dell'Uomo - ha inevitabilmente lasciato.
E ora arriva Nolan, questo immenso regista che gira quasi soltanto film straordinari che hanno però la rara capacità di non restarmi nel cuore negli anni successivi, dicevo, e ora arriva Nolan e ci racconta la genesi di quell'arma di distruzione, e lo fa attraverso le ossessioni, le idee e la coscienza dell'uomo che, più di tutti, contribuì alla creazione della bomba atomica, Oppenheimer.

Questo film aveva tutte le caratteristiche per non piacermi.
Innanzitutto è un biopic, genere che non amo (anche se biopic di quelli "corti", che raccontano pochi anni di un'esistenza), ha come tema predominante la scienza (materia che, volendo, può anche affascinarmi ma che, come tutte le cose che non capisco, mi scivola poi addosso), è lunghissimo (3 ore) e parlatissimo (io che solitamente - ma con eccezioni - amo i film fatti di silenzi).
E infatti la prima ora tutti questi difetti (anzi, non difetti, semplicemente cose che non amo io) si sono fatti sentire, eccome.
Il film mi stava sembrando una di quelle cose a La Teoria del Tutto o The Imitation Game, biopic scientifici con una sceneggiatura lineare e quasi "televisiva", film che raccontano esistenze di scienziati attraverso le loro ossessioni, i loro sogni, i loro rapporti interpersonali, annoiandomi non poco.
Ricordo ad un certo punto di aver notato che erano passati solo 35 minuti, e il pensare di dovermene stare altre due ore e mezza a vedere qualcosa di così lontano da me mi sembrava terribile.
Poi, una scintilla.


Il primo dialogo tra Oppenheimer e Groves (Damon).
Arguto, cinico, "importante".
Da lì, con la nascita del progetto Manhattan, con la costruzione di Los Alamos e tutto quello che verrà poi "Oppenheimer" (il film) mi ha piano piano conquistato riuscendo in un qualcosa che forse ha a che fare con le caratteristiche di quelli che poi vengono chiamati capolavori, ovvero che più durano più vorresti non finissero mai.

E così io che dopo mezz'ora volevo uscire sono poi uscito dopo 3 ore volendo restare.

Oppenheimer diventa così un gigantesco film sulla coscienza, sulla morale, sulla "post coscienza" (ovvero quella che può arrivare solo dopo), sul pragmatismo.
Un'opera in cui c'è un continuo scontro tra teoria e pratica, tra quello che in teoria può essere, quello che in teoria dovrà essere e quello poi che in pratica sarà.
E la Bomba Atomica, in questo, rappresenta il non plus ultra, anni di studi, l'unione delle menti più brillanti al mondo, milioni di soldi spesi, miliardi di calcoli per poi arrivare a quella detonazione, detonazione che può funzionare nella maniera in cui si credeva, che può non funzionare o che addirittura può funzionare ancora "meglio" del previsto, tanto da distruggerci tutti (altro grande dialogo in tal senso tra Murphy e Damon).
Chiunque vede il film - se non ipocrita - non può non considerare i dubbi etici e morali che aveva Oppenheimer (e con lui tutta l'America) come dubbi leciti, non banali, "mostruosamente" e inumanamente sensati persino (ogni tanto quando incontro film così ripenso al finale di Snowpiercer, a quel terribile creatore tiranno e assassino che, però, fece davvero in modo che l'umanità esistesse ancora).
E viene un brivido nel dirlo ma il dilemma di fondo del film, ovvero quello che forse solo attraverso il lancio della bomba atomica si poteva costruire un mondo senza bombe atomiche, è un dilemma schifosamente "giusto", un dilemma che portò ad una scelta che nessuno di noi potrà contestare sine dubio, visto che nessuno di noi saprà mai se quello che è successo è stato, davvero, il minore dei mali.
In questo senso è perfetta e magistrale la metafora dei due scorpioni in un vasetto.
Entrambi possono uccidere l'altro sapendo che, facendolo, possono morire essi stessi.
E' in questo clima di incertezza che si muove il film e il nostro personaggio, alla continua ricerca di una scelta "giusta" ma, al contempo, pieno di quell' "ebrezza" che ogni scienziato porta con sè nel vedere sviluppate e realizzate le proprie teorie.

14.8.23

3 x 1 - Recensioni: "Lasciami Entrare" - "Mediterranean Fever" (Cinema 2023 - 10) - "My heart can't beat unless you tell it to" (Su Prime)

Proseguo questo mio recupero dei film visti in questo periodo.
Stavolta ne metto 3 insieme.
Il primo è un cult incredibile, Lasciami Entrare, inutile presentarlo.
Il secondo è un gran bel film visto al cinema, Mediterranean Fever, la storia di una strana (ed improvvisata) amicizia tra due vicini di casa ad Haifa.
Opera che "sfiora" la questione Palestinese ma che, tra ironia e una drammaticità sempre più forte man mano che il film va avanti, sembra parlare di qualcos'altro e ci riserverà alla fine un colpo di scena, totalmente inaspettato e davvero molto emozionante.
Il terzo è un film con uno dei titoli più belli di sempre ("Il mio cuore non può battere finchè non gli dici di farlo").
Vi giuro che solo per caso finisce in questo post dove c'è anche Lasciami Entrare, forse il film che più me lo ha ricordato.
La storia di 3 fratelli di cui uno, il più giovane, è sempre morente.
Per continuare a vivere ha bisogno di un qualcosa che solo i due fratelli possono procurargli...
Un film drammatico nel mood che consiglio anche a chi non ama trame a tinte leggermente horror.
Uno di quei film che un giorno definivamo "da Guardaroba", anche non certo bello come la maggior parte di quelli che mettevo in quel gruppo (ovviamente a giudizio mio eh).
Attenzione però perchè MHCBUYTIT (acronimo assurdo) potrebbe parlare anche solo di una cosa assolutamente reale, umana, senza alcuna connotazione soprannaturale.
Non dico altro, semmai lo trovate su Prime



Il più famoso del "lotto" è senz'altro Lasciami Entrare, "horror" che ha fatto la piccola storia del genere.
Film svedese (di cui è stato fatto un ottimo remake americano, Blood Story) che ha fatto innamorare tantissimi di noi per la sua location (un paesino svedese pieno di neve), i suoi due indimenticabili protagonisti (due bambini che uniscono in modo dolcissimo le loro solitudini) e una serie di sequenze che non se ne vanno via dalla testa (il massacro in piscina, la donna che brucia, lui che vede "lei" in bagno).
Senza ombra di dubbio è uno dei film sui "vampiri" più originali che siano mai stati girati, almeno negli ultimi 30 anni.
Lasciami Entrare, pur avendo molte sequenze spietate e violente, riesce nell'impresa di restare nel nostro immaginario come un film emozionante, tenero, fragile ma potente come fragili ma potenti sono i due bambini protagonisti.
Ho amato molto la sua reticenza (chi è lei? chi è l'uomo che l'accompagna?), capace di dare un alone di mistero ancora più grande.
Splendidi i due giovani attori, la fotografia e l'atmosfera, in questo film che sa anche raccontare temi importantissimi come il bullismo, la solitudine, la "malattia", il sentirsi inadeguati e l'impossibilità di fuggire dalla propria Natura (pensiamo a La rana e lo scorpione ad esempio, a lei che, per quanto non voglia, non può non agire in base a quello che in realtà è) in un modo magistrale, senza alcuna retorica.
Uno di quei film che, senza ombra di dubbio, possiamo definire "del cuore"


Piccolo e veramente atipico buddy movie che racconta l'impossibile amicizia (i due sono uno opposto all'altro, in tutto) tra due palestinesi ad Haifa.
Waleed è triste, spento, un romanziere fermo ormai ad una eterna pagina bianca, sia del suo nuovo romanzo che della sua vita.
Jalal, il nuovo vicino, è invece esuberante, sfrontato, vitale, e persino maleducato nella sua arroganza.
I due sembrano persone incompatibili ma Waleed, forse, vede in quel nuovo vicino una piccola fiammella di vita, un'invidia "positiva" che potrebbe salvarlo.
Probabilmente la cosa più bella che ricorderò di questo film è il suo diventare sempre più cupo e malinconico.
Parte come commedia nera che scherza sulla depressione, sulla questione palestinese, sui clichè israeliani, su tutto, qualcosa che può ricordare alcune cose dei Coen.
Eppure più il film va avanti, più l'amicizia tra i due si cementa, più paradossalmente Waleed "vive", più viene fuori l'anima completamente nera del film, un film che racconta di una depressione "perfetta", probabilmente non sradicabile.
Waleed ha moglie, figli, un amico, nuove attività, eppure, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, più si va avanti più si convince che l'unica soluzione alla propria vita è la morte.
Davvero forte la scena di Waleed che mette a letto i figli per l'ultima volta e quel suo successivo pianto notturno (se ricordo bene anche Jilal, in montaggio alternato, piange la stessa notte).
E per questo chiederà proprio a Jilal una cosa terribile (che porterà ad una straordinaria ed emozionante parte finale, nel bosco).
"Un codardo ha paura della vita" viene detto ad un certo punto, a ricordare l'eterno dilemma se lasciare l'esistenza sia un atto di coraggio o uno di codardia.
Ma, più che altro, visto anche il sorprendente finale, Mediterranean Fever sembra raccontare di quei "mali" reali ma mascherati e di quelli invece "fittizi" ma esageratamente manifestati (pensiamo al figlio di Waleed che si inventa sempre di star male per non fare ginnastica).
Chi alla fine infatti tra Waleed, triste e spento, e Jalal, vitale ed esuberante, stava veramente peggio?
Chi aveva più motivi per uccidersi?
Chi era il vero codardo e chi il vero coraggioso?
Chi, come la parabola che viene raccontata, è il somaro che stanco della fatica un giorno decide di suicidarsi?
Il film ci insegna che molto spesso la depressione, o la voglia di farla finita, si annidano proprio in chi, fuori, mostra tutt'altro.
Film di scrittura, di sceneggiatura, quasi tutto incentrato sui dialoghi e le personalità dei suoi protagonisti.
Molto humor sì, ma anche tanta sofferenza. 
E tragedia.

"Ma che bella giornata, non so se bere una tazza di thè o impiccarmi"
In questa frase di Cechov (citata nel film) c'è tutto il film stesso, la sua ironia nera e quel filo sottilissimo nascosto spesso nelle trame delle nostre esistenze, essere continuamente ad un cm dall'amare la vita e dal volersene andar via.

Uno di quei titoli che anni fa avrei definito "da Guardaroba", anche se "My heart can't beat unless you tell it to" resta forse una spanna sotto ai film che condividevo in quel gruppo (ovviamente giudizi personali).
Opera profondamente malinconica, "triste", violentissima nelle vicende mostrate ma incredibilmente tenera nelle sensazioni che lascia, MHCBUYTIT è uno di quei film che mentre lo vedi ti dà l'idea di un'opera prima (e infatti lo è, scoperto ora).
Perchè intimo, girato con niente, con pochi attori e tutti in stato di grazia e con un qualcosa da dire.
E' la storia di una famiglia di 3 fratelli di cui uno, il più giovane, è perennemente morente.
Per vivere ha bisogno di solo una cosa, sangue.
E, per questo, i fratelli sono costretti ad uccidere, per tenerlo in vita.
Come vedete il richiamo a Lasciami Entrare è fortissimo anche se, se possibile, MHCBUYTIT è ancora più "reticente" del capolavoro svedese nel raccontarci le cose.
Tanto che, pur avendo tutte le caratteristiche di un film "di vampiri", il regista - in maniera geniale - non ci dà mai un singolo elemento certo per esser sicuri di questo ma, anzi, a pensarci bene questo film potrebbe raccontare solo la vicenda di un particolare caso di Porfiria.
Ci sono tutti gli elementi, l'anemia (una volta per curarla i famigliari davano il sangue al malato) la stanchezza, la spossatezza, la fotosensibilità alla luce de Sole.
E, visto il mood del film e il suo non dirci mai niente, non mi stupirebbe che il regista abbia giocato con questa ambiguità (anche perchè, se ci pensate, come sarebbe possibile avere un solo fratello vampiro su tre?).
Del resto, da sempre, la Porfiria, e non solo per gioco ma con elementi medici concreti, è stata accostata al vampirismo.
Il film, però, va oltre, e racconta di solitudini "perfette" (struggente il giovane ragazzo, così incredibilmente solo e voglioso anche solo di vedere di notte qualche ragazzo là fuori), di dipendenze famigliari (io sono dipendente da un mio congiunto come lui, del resto, dovrà passare la vita a curarmi ed accudirmi), di vite non vissute (tutti e 3 i fratelli alla fine vivono una vita forzata, senza sogni e svaghi) e del relativo disperato bisogno di uscire da quella condizione (ma a costo che muoia qualcuno).
Il tutto raccontato con una fotografia sempre sull'ocra o su pastelli marroncini (stupende sia le luci che le locations in questo senso, basti vedere il poster), con 3 attori in stato di grazia e un grande senso estetico.
Insomma, un capolavoro?
No, c'è qualcosa che manca, e faccio anche fatica a capire cosa.
Forse per questo suo essere un pò sempre uguale a sè stesso, forse per alcune scene incomprensibili (quell'Eduardo per ben DUE volte può scappare senza problemi e invece si getta a morire), o forse perchè, pur non calando mai, non arriva mai il momento in cui il film spicca il volo.
Però gli elementi bellissimi - e tanti già li ho detti - si sprecano.
E ci rimarrà nel cuore questo ragazzo triste che non ha mai visto fuori di casa (quasi alla Dogtooth), che non ha mai conosciuto nessuno a parte i fratelli, che non ha mai visto la luce del sole, che vive in casa in un eterno Natale che, però, oltre all'albero e a regali improvvisati, è un Natale di devastante tristezza.
Le scene violente non mancano ma il film, pur parlando di assassini, riesce talmente bene a raccontarci i suoi protagonisti da non riuscire a farceli odiare, anzi...
E finisce nel modo più giusto, con almeno uno dei tre fratelli che decide di provare a ricominciare a vivere.
Con quell'ultimo dialogo, un dialogo in cui entrambi accettano l'inevitabile, uno di lasciarsi andare e uno di lasciare andare.
L'esistenza di tutti e 3 era segnata ma adesso, almeno uno, può trovare il coraggio di cominciarne una nuova.
Partendo da quel mare.

11.8.23

Recensione: "Il Prodigio" - Su Netflix


 Questi due mesi e mezzo che non ho recensito film nel blog (a parte Animali Selvatici) credo di averne visti comunque una quindicina, più o meno belli (nessun capolavoro ma la media è più che discreta).
Voglio provare a riportarli tutti qua, alternando tra alcuni di cui parlerò ampiamente (perchè li ricordo meglio o perchè magari li ho rivisti) ad altri che metterò invece in post "collettivi" di 3/4 film.
Comincio con uno dei più belli, Il Prodigio, un film di Netflix molto poco netflixiano.
Ambientato nella seconda metà dell'800 in un piccolissimo paesino irlandese racconta la storia di un presunto "prodigio" (come titolo),
Una bambina di 11 anni non mangia da 4 mesi, ma sta benissimo.
La famiglia e la comunità credono sia un miracolo, qualcosa a che fare con la Fede, ma per fugare ogni dubbio viene chiamata da Londra un'infermiera (una grande Florence Pugh) che deve "visitare" la bambina per capire se c'è una spiegazione razionale e scientifica.
Ne nasce quindi un film sull'eterno conflitto tra Fede e Scienza, sì, ma anche su tanti altri temi, come il castigo, le ferite incancellabili, la maternità, il desiderio di essere amati ed amare.
Davvero un bel titolo che non si fa mancare nemmeno una piccola ma emozionante e suggestiva cornice metacinematografica

Diretto da un regista cileno di cui si non avevo mai visto nulla ma comunque abbastanza "famoso" (Sebastian Lelio, di cui si dice molto bene di "Gloria" e de "Una donna fantastica") "Il Prodigio" è uno di quei film Netflix poco netflixiani, quelli che cerchiamo di continuo senza trovarne quasi mai.
Ambientato nella seconda metà del 1800 racconta la storia di un'infermiera (la grande Florence Pugh) mandata in uno sperduto villaggetto irlandese dove sta avvenendo una cosa misteriosissima (il Prodigio del titolo), ovvero il completo digiuno di cibo di una 11enne.
Digiuno di mesi e mesi che, però, sembra non arrecare il minimo danno fisico alla bambina.
La famiglia crede che sia una cosa "divina" e per questo la comunità chiama l'infermiera, per avere anche un parere scientifico che possa o sconfessare o confermare l'eventuale prodigio inspiegabile.


Il film, quindi, sarà tra le altre cose una di quelle opere che raccontano dell'eterna lotta tra Scienza e Fede (non a caso la bambina viene seguita per 8 ore alternate tra Elizabeth - l'infermiera -  e una suora), argomento che mi affascina sempre molto.
L'incipit è straordinario, uno dei più belli di questi ultimi tempi.
Siamo dentro a un teatro di posa, in un vero e proprio set cinematografico.
Una voce fuori campo ci invita a "credere alle storie" e l'inquadratura ci porta lentamente dentro una baracca costruita come set.
La ripresa arriva lentamente sul volto della Pugh e, magicamente, ci troviamo così dentro al "vero" film.
Un metacinema davvero eccezionale.
Da subito il film ci conquisterà con le sue location, quell'alberghetto verde scrostato che sembra quello di Spider di Cronenberg, i campi infiniti dove i nostri protagonisti camminano più volte, la casa isolata nella brughiera e il suo interno, con questi due piani - il sopra e il sotto -  che diventeranno quasi due luoghi completamente separati (sotto c'è la famiglia, le chiacchiere, le credenze, i segreti, il paese, sopra la nuda e intima verità della bambina).
Il Prodigio è un film bello, molto bello, fotografato splendidamente, recitato splendidamente e capace di mantenere il suo mistero in maniera molto trattenuta, senza mai prendere connotati da thriller.
E' la storia, alla fine, di una donna che (ri)cerca una figlia e di una figlia che avrebbe bisogno di una nuova madre (ormai i film sulla maternità  non si contano più).
Religione, Fede, colpa ed espiazione, delitti e castighi, vecchi fantasmi, segreti inconfessabili, ferite mai rimarginate, tutto si mixa in una sceneggiatura apparentemente "semplice" ma granitica (è tratto da un romanzo del resto) nella quale tutte queste tematiche vengono fuori senza che nessuna venga mai urlata.
Le luci sono bellissime (come spesso accade in film che raccontano epoche di buio e candele), le inquadrature perfette (molto geometriche, da quadri, con la Pugh inquadrata decine di volte in assoluta frontalità) e, specie nel finale, non mancano anche molte scene emozionanti, come il "risveglio" di Anna ad una nuova vita - bellissimo e simbolico -, come l'incendio in cui vengono bruciati i passati di entrambe (personificati dalla Bibbia e dalle scarpette della bimba morta prestissimo), come Nan che vede dalla finestra l'arrivo di Elizabeth o quella cena finale in cui Nan (Anna) per la prima volta (nel film) tocca cibo.
A proposito di cibo ho amato moltissimo una cosa forse non evidentissima ad una visione superficiale, ovvero l'incredibile numero di volte che vediamo Elizabeth mangiare (5 o 6). Sono tutte scene "minime", di raccordo, ma è davvero suggestivo questo confronto, opposto al digiuno di Anna.


Nell'ultima mezz'ora il film si svelerà, regalandoci "dolci" (nel senso di leggermente prevedibili) colpi di scena, che in fin dei conti lo spiegano tutto (come sopravviveva Anna, perchè l'hanno costretta a quel supplizio, l'incesto del passato).
Ed è davvero potente questo concetto di "nuova vita" (attraverso anche un nuovo nome) che, se volete, può essere declinato in mille modi.
Come se ogni vita perduta, vessata, rubata, imposta, ad un certo punto possa essere cancellata, con un click, per ricominciarne un'altra.
Parliamo di una vera e propria "morte" per rinascere diversi da prima (ovviamente questo è possibile solo nel caso che la nuova vita sia opposta alla precedente, piena d'amore, affetto, considerazione, libertà).
Ecco, se c'è un difetto nel film forse è proprio non aver premuto ancora di più su uno dei suoi più grandi pregi, ovvero quella cornice metacinematografica che lo apre e lo chiude.
Sarebbe stato perfetto o semplicemente così (ovvero con il metacinema solo in apertura o chiusura) oppure inserendo all'interno dell'opera molti altri momenti di questo tipo.
Si fa fatica a capire infatti perchè, a parte incipit ed epilogo, avremo solo un altro intervento "esterno" durante il film.
In ogni caso epilogo bellissimo, esattamente speculare all'incipit.
E quel "dentro-fuori" l'ho trovato davvero straordinario perchè carico di almeno tre significati.
Il "dentro fuori" dell'illusione ottica dell'uccellino in gabbia, quello - per analogia - di Anna e della sua situazione di "prigionia" e quello del finale, questo uscire ed entrare nella finzione cinematografica.
30 secondi finali bellissimi, degna conclusione di questo titolo

8

6.8.23

Recensione: "Barbie" - di Isabella Carbonara


 
Come dicevo (sui social) per una questione strettamente filmica ed estetica non vedrò mai Barbie (come il 90% dei film che escono, del resto).
Però quando ho saputo che Ginevra (mia figlia) l'andava a vedere le ho chiesto se aveva voglia di recensirlo per me (anche in vista di un futuro "lascito" del blog :) ).
Sta maledetta (spero si capisca l'affetto nascosto nell'aggettivo) mi ha detto di no ma, alla faccia sua, mi ha detto invece sì Isabella, la sua amica del cuore.
Questa è quindi la recensione di Barbie di una 16enne, al suo "debutto" nel parlare di un film.
Credo sia bello educare i giovanissimi alla scrittura e vedere punti di vista così particolari (quelli di una adolescente) per un film così "chiacchierato".
Oh, quindi se commentate ricordate la sua età, ricordate che è la prima volta che scrive (e secondo me l'ha fatto alla grandissima) e aiutatemi a convincere Ginevra a farlo anche lei ogni tanto.
Sta maledetta (2)

Barbie, un film attesissimo da molti e giudicato (troppo presto) da altrettanti perché facilmente classificato come banale o addirittura per bambini. Posso garantire che non è nessuna delle due cose. Il film porta infatti con sé un sacco di principi sani per la società odierna, mandando un messaggio femminista in maniera leggera e soprattutto realistica.

Bisogna dire che le barbie (che si chiamano tutte così anche se sono barbie diverse e vivono a Barbieland) sanno di essere state create per aiutare le bambine a crescere sicure di sé in modo che da adulte si realizzino e vivano in un mondo dove le donne non si sentano mai a disagio. L’ambientazione del film alterna il mondo di Barbie (la bambola protagonista che ha vita propria) e quello reale e quando Barbie, che inizialmente rappresenta l’ideale di donna emancipata che riesce a fare tutto ciò che vuole senza però maltrattare mai nessuno ed è indipendente, felice e “perfettamente perfetta”, quando dicevo è costretta a recarsi nel nostro mondo, rimane incredibilmente delusa.

Infatti quando Barbie e Ken arrivano a Los Angeles rimangono sostanzialmente sconvolti dal patriarcato che è innegabilmente presente nella nostra società. 
Cito testuali parole “No; lo applichiamo ( il patriarcato), è che ora lo nascondiamo meglio”. La cosa che però più sconvolge la protagonista è che le ragazze la odino in quanto sia l’emblema del consumismo e di standard femminili irraggiungibili che fanno sentire insicure e sbagliate le donne sin da bambine.


Il vero motivo per cui ho apprezzato il film è che il messaggio femminista che manda non è che le donne siano forti e sappiano fare tutto da sole perfettamente sempre e comunque ma che nel provare a farlo sbagliano e si sentano fragili e perse come può accadere anche a un uomo (come accade a Ken). Infatti lo spettacolo trasmette un messaggio favorevole alla parità dei sessi e condanna anche i danni che il patriarcato arreca agli uomini che spesso si sentono in dovere di mostrarsi forti e senza sentimenti che li rendano deboli. Per questo per me si parla di femminismo “realistico”.
 Il fatto che le donne magari non riescano a risolvere tutti i loro problemi subito ma possano provare a migliorare la loro situazione passo dopo passo viene sottolineato quando una madre e sua figlia adolescente decidono di tornare ad aiutare barbie nel suo mondo dopo che Ken aveva instaurato il patriarcato a barbieland.


Ora posso finalmente parlare della cosa che più ho amato del film: Barbie, banalmente, viene richiamata nel mondo reale perché la sua proprietaria ha seri problemi. Ma si scopre che la vera persona che ha bisogno di lei non è l’adolescente cresciuta che ha un brutto rapporto con la madre, bensì la stessa madre della ragazza. Cosa piuttosto pungente in quanto spesso sono i genitori a rimpiangere il tempo in cui potevano giocare con i loro figli quanto volevano e avere tutto il tempo del mondo assieme a loro.  In effetti i problemi di Barbie iniziano quando ha dei pensieri riguardo alla morte che sono dettati da un “collegamento” mentale con questa madre, consapevole che un giorno potrebbe non esserci più per sua figlia.

Questa vicinanza ai pensieri di un’adulta rende la visione del film perfetta per gli stessi adulti, che un tempo sono stati i bambini e le bambine che hanno giocato con Barbie, perché li colpisce nel profondo del cuore facendogli sentire il peso del tempo che passa e percepire una piacevole nostalgia quasi commovente. Ovviamente il tutto è arricchito dal fatto che la ricostruzione del mondo di Barbie è perfetta, ogni cosa che si vede è stata effettivamente prodotta, ogni singola bambola del film è stata lanciata realmente sul mercato. Un altro motivo per cui Barbie non è assolutamente per bambini è che la protagonista alla fine si trova in una situazione che è paragonabile a quella delle ragazze appena uscite dal liceo o dall’università e che non sanno cosa fare della propria vita, non sanno che strada prendere e si sentono perse. Alla fine del film infatti Barbie ha risolto la situazione a Barbieland, ma ancora non si sente nel posto giusto.

 


A questo punto Barbie diventa del tutto umana grazie all’intervento di Ruth. Chi è Ruth? Beh semplicemente “una vecchietta con problemi di evasione fiscale” che ha inventato Barbie e che le dà la consapevolezza che può fare ciò che vuole della sua vita dicendole “Non ho più potere su di te di quando non ne abbia su mia figlia. Noi mamme restiamo ferme cosicchè voltandovi possiate vedere quanta strada avete percorso.”. Personalmente ho trovato l’intervento e l’omaggio a Ruth Marianna Handler commovente e veramente azzeccato. Anche perché, per chi non lo sapesse, Ruth aveva chiamato la sua creazione come sua figlia, Barbara.

Messa così sembra il film più pesante e politicamente impegnato del mondo ma in realtà è pieno di momenti comici che fanno scorrere quell’ora e quaranta davvero molto velocemente. Basta dire che Ken si interessa al patriarcato solo per i cavalli. Le coreografie, le canzoni e soprattutto le ambientazioni sono spettacolari e ti lasciano sognare specialmente se da piccolo eri solito giocare con le Barbie, maschio o femmina che tu sia.

 

 

24.7.23

Undicesimo Raduno de Il Buio in Sala - Per Chiara (ma anche con un'altra grande novità) - Perugia, Paciano e dintorni - 8 - 10 Settembre 2023

 


Eccoci arrivati alla presentazione dell'ennesimo raduno del Buio in Sala, arrivato ormai ad una incredibile undicesima edizione ("incredibile" è riferito a quanti ne abbiamo fatti, e io che pensavo non saremmo arrivati al terzo...).
Quest'anno si preannuncia un'edizione davvero bellissima, sia per una gigantesca (e sicuramente gradita) novità ma, soprattutto, per una dedica speciale che faremo.
Pochissimo tempo fa se ne è infatti andata in giovanissima età (e, per quanto ne so io, all'improvviso) l'amica Chiara Rigione, splendida ragazza immersa in mille iniziative nel mondo del cinema.
Chiara, oltre a creare e organizzare una marea di cose (su tutti lo spazio Kinetta, nella sua Benevento) era anche regista.
E allora ci vedremo cose sue, portate dai suoi amici, presenti anch'essi al raduno.
Sarà un momento bellissimo ed emozionante, incastonato in tutta l'atmosfera "matta" e scanzonata che di solito abbiamo normalmente.
Ma, ATTENZIONE, la novità assoluta di quest'anno è che per la prima volta non saremo più al mitico Supernova ma all'agriturismo di famiglia di Paciano, il Borgo Elenetta.
Vi assicuro che è davvero un luogo perfetto per organizzare eventi.
E, so che siete contenti, ha anche la piscina :)


Questo cambio di location porta però a delle scelte e situazioni diverse, anche per voi.
Quindi vi invito veramente a leggere bene, organizzarvi e chiedermi qualsiasi cosa.
In ogni caso, le domande:

 QUANDO


Il raduno si svolgerà da Venerdì 8 a Domenica 10 settembre 2023


DOVE

Il raduno si svolgerà tra Perugia, il posto che sceglieremo di visitare sabato e Paciano dove si terrà la serata principale, quella del sabato sera (all' Agriturismo Borgo Elenetta).


COSA


VENERDI'

Pranzo tutti insieme in luogo da decidere, ma probabilmente a Perugia oppure a Panicale, al locale dove lavoro (dipende quanti siamo)

Cena molto frugale (piadine, pizza o hamburger) e visione tutti insieme di un film in sala.
Ovviamente dove e cosa vedremo lo decideremo solo quando usciranno le programmazioni, pochi giorni prima

SABATO

Pranzo o a Perugia o -  lo decideremo insieme questi giorni - a un borgo nella zona tra Paciano e Città della Pieve.
Nel primo caso (se mangiamo a Perugia) potete poi tornare eventualmente in albergo (chi sta a Perugia) e poi ripartire la sera, nel secondo caso dopo pranzo e visita andremo direttamente all'agriturismo, sin dal pomeriggio.


LA SERATA

 dalle 20 in poi: Megacena a volontà come tutti gli anni con una decina di portate più carne alla griglia. Prezzo tra 20 e 25 euro, bevande comprese

Visione dei lavori di Chiara Rigione (corti o mediometraggi) e, in generale, qualcosa per ricordarla.
Non è escluso che ci siano anche altri corti con presenti registi.

Se riusciamo faremo anche, come sempre, il quiz di cinema a squadre

DOMENICA

Pranzo tutti insieme con i reduci rimasti, da decidersi dove

DOVE ALLOGGIARE

Due possibilità

AGRITURISMO BORGO ELENETTA A PACIANO

Ecco, gli anni scorsi era scomodo andare qua ma quest'anno, svolgendosi proprio lì il raduno, credo che sia molto intelligente per alcuni di voi soggiornare direttamente lì.
Credo che riusciremo a fare un prezzo di soli 25 euro a persona.
In teoria in quella data avremo 3 appartamenti liberi, per un totale di circa 10 persone.
In base alle richieste capiremo come dividervi (tra single, coppie, gruppetti di amici etc..).
Ovviamente è preferibile che stiate due notti a quel punto, ma vedremo.

HOTEL SIGNA A PERUGIA (centro)

Come sempre avremo anche il Signa, con i suoi prezzi convenzionati.
Sta a voi capire (magari parlando con me) dove vi fa più comodo stare, dipende anche se avete macchina o no, se domenica mattina avete treni a Perugia e via dicendo


Per qualsiasi cosa contattatemi, sarà veramente un raduno splendido


18.7.23

Recensione: "Animali Selvatici" - Al Cinema 2023 - 10 -




Dopo quasi due mesi e mezzo torno a scrivere un film nel blog.
L'occasione giusta per provare a ripartire era questa, l'ultimo film di quel grande regista che è Mungiu.
"Animali Selvatici" è un film duro, "politico", un film che racconta di un paesino in Transilvania che diventa crogiolo di etnie, popoli e lingue.
Un film che parla di difesa delle identità, di paura e odio verso il diverso, di società maschiliste, di educazioni estreme, di bimbi che cessano di parlare.
E in tutta questa cornice realistica Mungiu, sottilmente, inserisce piccoli elementi misteriosi che rendono Animali Selvatici un film tutt'altro che immediato, un'opera da ragionarci sopra.
E poi c'è una scena, quella dell'assemblea, che è un miracolo



L'inquadratura ferma.
Siamo in una sala polivalente, c'è un'assemblea.
Nella stessa inquadratura non c'è spazio per nulla che non siano corpi e volti di esseri umani.
Del resto è questa la specialità di Mungiu, creare queste sequenze senza "respiro", senza spazi vuoti, senza vie di fuga, solo corpi, volti e voci che parlano.
E se è vero che solo in Animali Selvatici di questo tipo di composizione claustrofobica ne abbiamo almeno 4 esempi, è impossibile non ritornare con la memoria a quella che è LA scena per eccellenza del cinema di Mungiu, ovvero la cena in "4 mesi 3 settimane 2 giorni".
Ecco, se volete capire quello di cui sto parlando vedetela, recuperatela.
Ma torniamo all'assemblea.


Mungiu sceglie un taglio per cui vediamo in basso a destra, in mezzo primo piano, la maggior parte dei nostri protagonisti (Matthias, Csilla e la proprietaria del panificio) e sulla sinistra, in piano leggermente più largo, Ana, l'ex moglie di Matthias.
Tutti, ovviamente, sono immersi nella moltitudine delle persone presenti all'assemblea.
Partono così 10 minuti (o più?) di piano sequenza e di una scena pazzesca, quasi miracolosa.
Perchè siamo davanti ad una sequenza "multitasking" in cui lo spettatore malgrado - ed è qui il pazzesco paradosso - l'inquadratura sia ferma, NON può fisicamente seguire tutto quello che accade.
Perchè Mungiu ha creato una composizione con 3, 4, forse 5 differenti punti focali, un vero e proprio capolavoro.
Lo spettatore può focalizzarsi ogni volta in un punto diverso, accettando però (specie nel grande schermo ovviamente) di "perdere" per forza qualcosa.
Può scegliere se cercare di seguire la scena nell'insieme (senza soffermarsi quindi nei dettagli), può scegliere se porre la sua attenzione su Matthias e Csilla (specie nel tentativo di lui di prendere le mani di lei),  può scegliere (come ho fatto io) di guardare quasi soltanto Ana e il suo crescente disagio e disperazione nel vedere Matthias e Csilla.
Tutto questo mentre poi le persone parlano sempre, si alzano una per volta (anche qui lo spettatore deve scegliere se seguire chi parla o i nostri protagonisti).
Ne nasce qualcosa di assolutamente incredibile.
Le voci dell'assemblea che si mischiano a quelle "private" di Matthias e Csilla, le persone che si alzano, il volto - magnetico - della proprietaria del panificio sull'estrema destra, gli stessi Matthias e Csilla e il loro "gioco" di mani che si prendono e non si prendono e, soprattutto, l'incredibile piano di ascolto di Ana che guarda verso il suo ex marito 40 volte, spesso proprio verso le mani di lui che cercano quelle di lei, e comincia letteralmente a impazzire di dolore.
Io, come detto, mi sono soffermato su di lei prechè trovavo quella linea di sguardo di devastante bellezza. Mi sono perso i dialoghi dell'assemblea, mi sono perso le persone che parlavano e si alzavano, mi sono perso sicuramente anche qualche interazione tra Matthias e Csilla.
Ma non c'è niente da fare, è una scena immensa in cui è proprio la sensazione di perdersi le cose che la rende tale, qualcosa di rarissimo.


"Animali Selvatici" è l'ennesimo grande film di Mungiu, regista in grado di creare questi film al tempo stesso così realistici e secchi, ma anche capaci di avere venature da thriller e, in qualche caso, anche di "mistero", come se ci fosse qualcosa che lo spettatore deve capire o "trovare" (un pò quello che accade coi film di Fahradi, film che molto spesso vengono presi per lineari ed espliciti quando invece, quasi sempre, c'è sempre qualcosa di nascosto e misterioso).
Anzi, quest'ultimo è, se possibile, il film più sfaccettato di Mungiu, quello dove lo spettatore deve "lavorare" di più.
Il significante (quello che ci viene mostrato) è preciso, secco, realistico, ma il significato è tutt'altro che cristallino.
Sono almeno 3 i "campi" in cui lo spettatore deve lavorare.
Il primo è quello metaforico.
E' abbastanza evidente come tutto il film sia una metafora politica e sociale.
Ogni personaggio alla fine sembra un simbolo di qualcosa di più ampio.
Mungiu ci parla di difesa della propria identità e di nazionalismo (pensiamo ad esempio a tutte le scene di cultura "popolare" del film e a tutti i discorsi estremisti dei rumeni), di paura e rifiuto dello straniero, di immigrazione ma anche di emigrazione (i nativi che vanno a lavorare in Germania), di convivenza di diverse etnie nello stesso territorio (rumeni e ungheresi), senza farci mancare altri personaggi simbolici come il francese o qualche accenno alla madre Russia.
E fa tutto questo facendo precipitare lo spettatore in un vortice di lingue (rumeno classico, dialetti rumeni, ungherese, inglese, tedesco, francese, cingalese, se vogliamo anche l'italiano di Bella Ciao) che saturano lo stesso spettatore come le sopracitate scene di corpi e volti.
Ne nasce un film-paradosso in cui ci sembra di vivere in un mondo "unito", pieno di lingue diverse e di etnie diverse collassate tra loro, ma dove, invece, ognuna di queste lingue ed etnie ha un muro di cinta intorno.
Emblematica la scena di sesso tra Matthias e Csilla, scena in cui anche parlare d'amore ("ti amo") o di sesso viene fatto in 3 lingue diverse, rumeno, ungherese e inglese.
E Matthias non riesce a dire "ti amo" in rumeno perchè, in qualche modo, quella è la sua lingua, quella la verità senza filtri mentre le altre lingue che usa sono un mezzo per sentirsi meno autentici, lingue in cui possiamo dire di tutto con la sensazione - alibi di non essere del tutto noi stessi.
E tutto il film, tutti i suoi personaggi, sono un grande mix tra ultranazionalisti, "meticci" (Matthias è mezzo tedesco e mezzo rumeno, Csilla mezza ungherese e mezza rumena, e così altri personaggi) e veri e propri "stranieri" di cui aver disprezzo o "paura" (perchè pensare che il pane impastato dai cingalesi non sia puro deriva anche da una ignota paura dell'altro).
In questo senso è interessante notare come gli "Animali Selvatici" possano essere identificati sia nelle persone non del luogo, "selvagge", venute da fuori, sia negli stessi paesani, persone retrograde e violente incapaci di ragionamenti sensati (vedi assemblea) e abituati a delle leggi, appunto, più "animali" e selvagge.
E' come se per i personaggi del film gli animali selvatici fossero i cingalesi, mentre per noi spettatori siano invece gli stessi paesani.
Una questione di prospettive dentro e fuori la diegesi.
E se questo, come dicevamo, è il primo "campo" dove lo spettatore deve uscire dal realismo della pellicola per calarsi nella metafora, passiamo al secondo, al finale.

Finale incredibile, difficile, confuso.
Perchè, semplicemente, onirico.