31.8.19

Festival del Cinema di Venezia 2019 - Giorno 2 - 31 Agosto ( Ad Astra di Gray, Baumbach, Martone più 4 film fuori concorso)


AD ASTRA

di James Gray


CONCORSO


Filippo Tassinari
In un recente futuro, una tempesta energetica minaccia la sicurezza della terra. L’astronauta Roy, figlio d’arte, verrà inviato in missione per cercare di scoprirne la causa e scongiurare il pericolo: il suo compito sarà quello di contattare il padre disperso 30 anni prima in una missione al largo di Nettuno.
Film di genere che non disdegna l’utilizzo di effetti speciali d’impatto e che percorre lo stesso binario psicologico visto con i precedenti Gravity e First Man: il viaggio ai confini dello spazio per risolvere un dramma interiore. 

Voto: 5 e ½

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Riccardo Simoncini

Se si guarda alla selezione di Venezia degli ultimi anni, non si può non notare con interesse come tornino, con frequenza, i film nello spazio e della posizione di rilievo che questi assumono nella mostra nostrana. Verrebbe da chiedersi, dunque, al giorno d'oggi, quale sia il significato di continuare a produrre tali film. Siamo distanti dall'epoca in cui il cinema era un potente strumento di propaganda ed alimentava, spiegandone le potenzialità, il sogno della Luna. Ora quel sogno si è avverato, certo, ma la Luna non è lo spazio. L'universo è infatti immenso e con esso il sogno dell'uomo di scoprirne i limiti ed i confini. Così, anche il cinema deve spingersi oltre e raccontare non più le storie di chi deve farcela, ma di chi ce l'ha già fatta. Sta dunque avvenendo una trasformazione: da un racconto "verticale", di ascesa verso la meta, che dall'altitudine zero del mare porta a km e km in altezza nello spazio, ad un cinema "orizzontale", piano, livellato in questo senso. Qui il disagio e le difficoltà non sono più derivate dalla distanza che ci separa dalla Luna, ma al contrario dalla distanza che ci separa dalla Terra. Vivere nello spazio, più che vivere per raggiungerlo quello spazio. James Gray in “Ad Astra” racconta proprio di questo, rappresentando un futuro distopico dove molti pianeti e satelliti, come Luna e Marte, sono già ormai colonizzati ed umanizzati. Sì, perché quell’uomo divoratore di mondi e conoscenza, modella a sua immagine e somiglianza quei luoghi che invade, al pari di un dio. La natura dell’uomo antropocentrico impone su quei pianeti le sue regole, i suoi meccanismi sociali e di potere, arrivando così a contaminare i terreni del cosmo con guerre, business e turismo. È un mondo futuro, non troppo lontano dal nostro, dove l’uomo, come si diceva, è già nello spazio e lì vi ha creato la sua casa. Ma l’essere umano non si accontenta facilmente, perché non è mai colma la sua sete di conoscenza e così egli vuole spingersi oltre. Oltre alla Luna, oltre Marte. Ma non basterà nemmeno quello. E bisognerà andare ancora oltre, superando i confini della razionalità, cercando disperatamente qualcosa che non ha volto e non ha nome, né tantomeno fatti o prove a suo sostegno. Ma in tali situazioni, è facile perdere la fiducia. E così si rimarrà soli. Eroi solitari, che hanno osato spingersi oltre, come nel film gli astronauti Roy (Brad Pitt) e il padre Clifford (Tommy Lee Jones), protagonisti assoluti della vicenda. L’opera che ne risulta è di vera e propria epica fantascientifica, che punta in maniera predominante su un’estetica decisa ed ambiziosa, resa possibile dall’eccelsa fotografia di Hoyte van Hoytema e dalle musiche di Max Richter. Ma il problema del film sta proprio qui: nel volere concedere troppo spazio allo stupore, sacrificando purtroppo gran parte della narrazione.



MARRIAGE STORY

di Noah Baumbach



CONCORSO

Filippo Tassinari

Storia di un matrimonio, quello tra Nicole e Charlie, che va in pezzi, incrinandosi lentamente, e di una famiglia, che prova a rimanere unita.
Raccontato attraverso intensi e serrati dialoghi, non perdendo però mai una scanzonata leggerezza che allevia momenti più drammatici. Scarlett Johansson, Adam Driver e Laura Dern in stato di grazia. 

Voto: 7
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Riccardo Simoncini

Scoprire cos'è l'amore attraverso la sua decostruzione e negazione. Come se, per capire com'è fatta una casa, iniziassimo a demolirla per vederne lo scheletro, i pilastri portanti, i mattoni che la costituiscono. Come se, per scoprire com'è fatta la Terra, cominciassimo a scavare, in profondità, rimuovendo strato dopo strato le parti che la compongono. Noah Baumbach in Marriage Story compie proprio quest'operazione: decostruisce, studia l'amore attraverso la sua negazione, il suo opposto. Come se per rispondere alla domanda: "Cos'è l'amore?" dovessimo prima trovare risposta alla domanda "Cosa è l'assenza di amore?". Una storia che sta per finire culmina con la separazione dei protagonisti: Nicole e Charlie, interpretati da Scarlett Johansson e Adam Driver in stato di grazia e al di fuori di scherma. Il non-amore è solitudine. Separazione. Così, per negazione, al contrario, l'amore è condivisione. Tanto emblematiche sono per questo le due locandine del film: due come i protagonisti, divisi, separati, ognuno con una sua visione del mondo e della vita. E trovare l'amore, per quei due protagonisti, significa trovare incontri, incroci (ma anche scontri) in quelle due visioni. Quelle due locandine devono, cioè, incontrarsi, riflettersi e completarsi. E lo stesso deve avvenire con quelle due visioni mostrate all’incipit del film, dove ognuna delle parti racconta nel bene e nel male l’altro. Un matrimonio può andare in frantumi, una famiglia non deve farlo. Perché nell'idea di matrimonio è implicito un significato civile, giuridico, vincolato a leggi e procedure, e per questo la sua negazione e disgregazione avviene nel divorzio, non per forza nella negazione d'amore. Il matrimonio si basa sul concreto, sul formale, sui documenti e sulle clausole, la famiglia si fonda invece su concetti più astratti, intimi e personali. Per questo motivo, se si dovesse raccontare semplicemente un matrimonio, il punto di vista sarebbe facilmente oggettivabile: con assoluta certezza, si potrebbe stabilire giuridicamente se quel matrimonio esiste oppure no. Più difficile sarebbe stabilire l'esistenza o l'assenza, invece, dell'amore, della famiglia, di quella condivisione di cui si accennava all'inizio. Per questo Marriage Story risulta così geniale: per la sua volontà di soffermarsi sulla soggettività dietro ad un matrimonio, rappresentando equamente due facce distinte della stessa medaglia. Due facce che all’inizio urlano e non si ascoltano, si parlano ma non si capiscono, ma che comunque profondamente si conoscono e attraverso ciò potranno rincontrarsi. Come ha dichiarato Noah Baumbach a proposito: "i film sono un antidoto al divorzio. Un mondo non di separazione, ma di amore". E noi siamo follemente innamorati.

30.8.19

Festival del Cinema di Venezia 2019 - Giorno 1 - 30 Agosto



LA VERITE'

di Kore-eda Hirokazu




CONCORSO
Filippo Tassinari

In seguito alla pubblicazione delle sue memorie, Fabienne, famosa attrice francese in avanzata età, riceve la visita della figlia Lumir, che fa ritorno da New York con tutta la famiglia. La biografia dell'attrice è il pretesto per far scontrare verità negate tra le due donne.
Il regista giapponese si cimenta per la prima volta in un film non girato in terra natale e con un cast euro/americano di prim'ordine: Juliette Binoche, Ethan Hawke e una eccezionale Catherine Denueve. Nonostante le difficoltà insite nel riuscire a bilanciare una pellicola lontana dalle atmosfere care a Kore-eda, il film non perde mai di grazia e delicatezza, suscitando una piacevole riflessione sulla figura femminile.

Voto: 6 e ½
PELIKANBLUT (pelican blood)

di Katrin Gebbe




ORIZZONTI

Filippo Tassinari Wiebke è una addestratrice di cavalli per la polizia e vive nel suo maneggio con la figlia adottiva Nicolina. Dopo lunga attesa riesce ad ottenere l'adozione di una seconda figlia, Raya di 5 anni. L'ingresso dell'ultima arrivata risulterà decisamente più problematico di quanto Wiebke si attendesse. Secondo lungometraggio per la regista di Tore tantz in cui il fulcro di tutto è la figura della donna/madre: una donna che non genera, ma che protegge i suoi piccoli e che non necessita delle figure maschili. Il film assume i tratti del dramma psicologico per poi prendere alcune deviazioni verso l'horror e il mistico, con richiami forti ad alcuni classici del genere.

Voto: 6
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Riccardo Simoncini

Il sangue del pellicano. Quello che, secondo la simbologia cristiana, la madre di questo uccello acquatico usa e dona per nutrire i figli morti e cercare di riportarli in vita. Un'immagine religiosa così cruda (e crudele) per rappresentare, secondo la religione, la totale abnegazione nell'amore verso i figli. Un amore estremo e straziante che risalta con forza fin dal titolo e che diventa metafora di quell'amore immondo che prova la protagonista Wiebke per le sue figlie adottive. L'uso, però, di immagine così violenta e destabilizzante non è casuale, perché Pelican Blood non è il classico dramma familiare, né tantomeno una commedia dove tutto è perfetto, ma tende invece (sopratutto verso il finale) verso quella corrente di horror autoriale che caratterizza molto cinema contemporaneo (primo fra tutti Ari Aster, il cui Hereditary presenta molti in comune). La famiglia di Wiebke non è di sicuro perfetta ed inizia a non esserlo da quando giunge in casa la seconda delle sue figlie adottive, Raya, che comincia ad essere aggressiva con tutti, anche nei confronti della sua stessa piccola famiglia. La bambina, infatti, è violenta, agitata, isterica ed inizia poco per volta a compiere azioni strane e pericolose, che contrastano ogni tentativo di integrazione nella famiglia e diffondono paura in chiunque venga a contatto con lei. Wiebke però ama le sue figlie, tanto, tantissimo, fin troppo. Ma come fare quindi a gestire (e contenere) il problema? Come riuscire a sopportare e resistere a quella violenza senza venire meno alla sua morale da genitore? La regista Katrin Gebbe ci aveva già illuminato con la sua disturbante opera prima Tore Tantz, il racconto di un ragazzo biondo, bellissimo (Tore appunto) che viveva dedicandosi agli altri attraverso la sua fede per Gesù (in maniera di nuovo estrema) e che per una concatenazione di eventi veniva ad esserne poco per volta travolto violentemente. I personaggi di Gebbe vivono sempre dilemmi: quello del fedele, del credente in Tore Tantz, quello della madre qui in Pelican Blood, condizioni accomunate da una morale ossessiva, da delle regole non giuridiche dettate dall’amore: per Gesù nel primo, per i figli nel secondo. Credere (ed avere fede) fino all’estremo in qualcosa che si sente profondamente come proprio, fino a renderlo ossessione. Crederci a tal punto da sacrificarsi in funzione di esso: sacrificare il proprio tempo, ma anche proprio il corpo, come il pellicano del titolo. Insomma un credo sfrenato, ossessivo, ostinato, difficile da capire e comprendere così come succedeva con la fede di Tore nel primo film. Ma nonostante tutti gli sforzi, la piccola Raya rimane riluttante, chiusa in un meccanismo di difesa e sopravvivenza che per alcuni è disturbo psicologico, per altri è una strana e maligna entità. Wiebke sacrifica tutto per essere madre, persino il suo lavoro come addestratrice di cavalli. Con questi ultimi è più facile stabilire un rapporto, trovare la fiducia, creare un’intesa, diventando complici nell’affrontare gli ostacoli. I cavalli sono, però, semplici animali, mentre gli uomini (e i bambini) possono a volte diventare mostri, difficili da addomesticare.

29.8.19

Recensione: "Il Signor Diavolo"


L'ultimo film di Avati, Il Signor Diavolo, è un...signor film, un ritorno ad un nostro cinema di genere che fu e, soprattutto, un "ritorno a sè stesso" per Pupi.
Film al tempo stesso di gran classe e apparente approssimazione (ripeto, apparente), un grande racconto di credenze popolari, di gente timorata di Dio e del suo Nemico.
Volti straordinari in un'opera che ti prende ma il cui finale (che purtroppo avevo previsto troppo presto) arriva in modo troppo affrettato.
Che bello però vedere quest'horror così "grezzo" e affascinante, molto d'atmosfera, che gioca con lo spettatore.
Incredibile come somigli tantissimo a un film che in realtà non gli somiglia per niente, un cult degli anni 90.
Con The Nest una grande doppietta italiana nell'horror.
Anche se la sensazione che poteva essere ancora più grande non mi si leva dalla testa

ATTENZIONE, SPOILER SIN DALLE PRIMISSIME RIGHE

"La beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è convincere il mondo che lui non esiste"

Questa frase è nell'indimenticabile finale de I Soliti Sospetti.
Ecco, direi che la coincidenza è abbastanza inquietante.
A metà film, infatti, avevo intuito il "colpo di scena" (testimone il mio amico Federico) e gli avevo anche detto - a Federico dico - che - sempre nel caso il finale mi avesse dato ragione - potevamo considerare Il Signor Diavolo come una "copia completamente diversa" di quel gran film degli anni 90.
Stessa identica struttura, ovvero un film che si basa sulla confessione davanti alle autorità di quello che, vedremo nel finale, è invece il "diavolo" (metaforico o no).
Se ci pensate il film, pur non avendo mezza scena in comune, è identico, ovvero il racconto-punto di vista di qualcuno che in realtà sta mentendo (del resto il Diavolo ne sa sempre una più di noi ed è menzognero, per questo era intuibile il tutto).
In questo senso potremmo abbinare Spacey che comincia a camminare senza zoppia alle fauci che intravediamo nella bocca di Carlo nell'ultima inquadratura.
Ma la coincidenza è appunto incredibile perchè proprio il film che più mi ha ricordato la struttura di quello di Avati cita proprio il Diavolo nella sua ultima battuta.
Ora, in questa assurda vicenda che è stata la visione in sala del film le coincidenze non finiscono qua.
A circa metà film iniziano a comparire nello schermo delle strane strisce rosse, velocissime.
Vi giuro che pensavo fosse un trucco grafico di Avati, qualcosa che ricordasse appunto la presenza incombente del Diavolo nella pellicola.
Quando però la cosa è andata avanti per 10 minuti abbiamo capito che col cazzo era Avati, ma un problema della copia.
Siamo andati a protestare, hanno bloccato tutto e fatto ripartire il film.
Tempo 3 minuti non solo il problema si è ripresentato ma è andata anche peggio.
Una mia amica, Valentina, ha immortalato la cosa, sperando che mi si carichi il video.


Seconda interruzione e poi il film, dopo 20 minuti, parte per la terza volta.
Un'ora e 25 di film durate 2 ore e 15.
Ovvio che ci fosse lo zampino del Diavolo.
Non finisce qua.
Il film finisce col protagonista richiuso per sempre nell'oscurità. Beh, anche noi restiamo nel buio più completo, le luci non si accendono, usciamo con le luci dei cellulari
Ora, un film sul Diavolo che ricorda I soliti sospetti e la frase sul diavolo, che viene bloccato per due volte per inquietanti problemi rosso fuoco e che ci lascia nell'oscurità alla fine.
Io sono una persona razionale ma a volte davanti queste cose vacillo.


Il Signor Diavolo è un...signor film.
Forse potenzialmente anche più bello poteva essere.
E' un'opera dall'anima profondamente retrò, al tempo stesso un ritorno ad un nostro cinema che fu ma anche, più intimamente, una specie di auto-citazione e affermazione di Avati, di quello che era.
Un horror di provincia, di credenze, di maledizioni, di gente povera dai pensieri semplici quanto radicati, un genere affrontato da Pupi più e più volte.
Trovo quasi commovente che un regista così "anziano" negli anni non sia quasi mai uscito da questo suo provincialismo, da questo suo attaccamento alle radici e al racconto di tradizioni e piccole storie.

28.8.19

Il Buio in Sala al festival di Venezia


E' vero, sono almeno 2 o 3 anni che grazie a Riccardo Simoncini (non mi ricordo se anche altri) siamo riusciti in questo blog a fare un reportage finale della Biennale del Cinema.
Quest'anno però la cosa sarà molto più organizzata e, quello che più conta, "live", nel senso che OGNI GIORNO riusciremo a parlarvi dei film del festival.
Non grazie a me ovviamente (ho il raduno) ma grazie a due "inviati", tutti e due bravissimi.
Sono il giovane sopracitato Riccardo Simoncini e il meno giovane (praticamente mio coetaneo) Filippo Tassinari.
Credo riusciremo a rendervi conto di praticamente tutti i film in concorso e in più magari anche di qualche chicca off dalla competizione.
Per questo vi consiglio di seguire giornalmente il blog o la pagina fb dello stesso, noi ci saremo

un abbraccio

27.8.19

Recensione: "Colossal"


Dopo tanti anni dallo splendido Timecrimes ritrovo Nacho Vigalondo.
E lo ritrovo in un film dal soggetto pazzesco.
Una ragazza americana capisce che i suoi comportamenti generano un gigantesco mostro a Seul, in Korea, un mostro che semina distruzioni e morte.
Un'idea bellissima che avrebbe potuto portare a delle riflessioni esistenziali di altissimo livello e a metafore formidabili.
E invece Colossal è molto interessante nelle tematiche che offre (film sulla responsabilità), intrattiene e non stanca, ma sembra un possibile grandissima occasione mancata.
Peccato

presenti spoiler

Dopo tanti anni mi ritrovo per caso in tv un film di quel Vigalondo la cui opera prima, Timecrimes (Los Cronocrimenes), mi fece innamorare perdutamente.
In realtà in questo lungo periodo mi ero "accorto" che avesse girato almeno altri due film ma, chissà perchè, non mi ero mai preso la briga di cercarli.
La tv ha ovviato alla mia pigrizia.
Colossal, per quanto mi riguarda, è una di quelle conferme dette a denti stretti, uno di quei casi in cui un regista che avevi amato nel primo incontro ti regala ancora una cosa bella ma, diciamocelo, te avresti voluto di più.
Il fatto che poi rende questa sensazione ancora un pochino più "triste" è che come idea e soggetto Vigalondo aveva tirato fori qualcosa di grandioso, una tela geniale in cui poter pennellare l'intera vita umana.
E invece, lo vedremo, la metafora (e il film con lei) regge ma non arriva a quelle profondità che un'idea del genere poteva raggiungere.


Gloria è una giovane donna abbastanza disastrata e disastrosa.
Beve troppo, è tremendamente immatura, persino bugiarda patologica (si può parlar male una volta ogni 100 di una donna vero?).
Voglio dire, mente al ragazzo, si comporta come una quindicenne (terribile la scena di quegli amici che stavano aspettando per entrare in casa di appena lui fosse andato via), si dimentica che la madre dell'amico di infanzia è morta, va a letto con un altro ragazzo ma dopo 3 giorni torna col suo.
E mi fermo qua.
Il suo ragazzo Tim, ovviamente, non ce la fa più e senza rabbia e cattiveria prende la decisione migliore in questi casi, allontanarsi (non fuggire, allontanarsi).
Gloria va allora a vivere nella casa d'infanzia, molto lontano.
Lì incontra Oscar, suo amico da bambina.
Intanto a Seul, in Korea, un mostro simil Godzilla appare e scompare giornalmente, seminando morte e distruzione.
Gloria capisce che quel megamostro dall'altra parte del globo non è altro che sè stessa.

Soggetto formidabile, un film di genere che avrebbe potuto portare a delle riflessioni altissime e forse persino portate in un modo "nuovo", anche perchè non so se mai qualcuno avesse pensato a questo binomio "mostri personali - mostri giganti".
Ma è proprio qui (oltre ad altri problemini) che Colossal non sfrutta il suo potenziale, in questa possibile formidabile metafora esistenziale che, invece, rischia di rivelarsi alla fine poco più che il risultato di un accadimento fortuito.


Già che ci siamo affrontiamoli i problemi "secondari" del film.
Innanzitutto ha un prologo dannatamente lungo, passa troppo prima che il film cominci per davvero o si arrivi ad un eventuale secondo atto.
Il personaggio della Hathaway è interessante (e lei sempre brava e bella) ed è incredibile come ricalchi proprio un suo vecchio personaggio - ancora più riuscito -, quello di "Rachel sta per sposarsi".

22.8.19

Il 6 settembre Umberto Maria Giardini suonerà al raduno, il post "atto d'amore" (e presentazione di alcuni dei suoi brani più belli) di un mio grande amico


Ho deciso di non scrivere nulla riguardo il concerto di Umberto al raduno.
Semmai parlerò a voce là.
Lascio quindi la parola al mio grande amico Federico

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2006, fine mattina di un mese imprecisato. Italia, Umbria, Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia. La lezione di estetica è appena terminata. Bella, brutta, insignificante, appassionata, edificante, chissà... Giuseppe è un ragazzo più grande di me ed è mio "compagno di panca" e quello che si suol dire "un conoscente".


Qualche parola scambiata più o meno fortuitamente e adesso frequentiamo le lezioni insieme. Siamo soliti, dopo la lezione, andare alla ricerca di una buona pizza per le vie della nostra Perugia. Giuseppe è un formidabile mangiatore e per questo uno scopritore seriale di buon cibo. Inoltre mi piace la sua compagnia che trovo sana e genuina. E' un "lettore forte" e soprattutto un appassionato di cinema, non un esperto, un vero e proprio appassionato. Ed è meglio così. Ma non c'è solo la letteratura e il cinema, parliamo tranquillamente di un po' di tutto. 

Quel giorno non posso però, devo scappare. Sì, certo che mi piacerebbe ma non posso proprio.

- Ho fretta! 
- Cosa dovrai fare di così importante? 

- Devo assolutamente comprare un cd. Sta per chiudere il negozio. 
- Che cd? 
- Dai lascia perdere, lasciami andare che ho fretta ti dico! 
- (Parolaccia, probabilmente) 
- ... 
- Ma dimmi almeno che cantante è! Cosa ti costa? 
- Mi costa il tempo che sto perdendo! Tanto non lo conosci! 
- (seconda probabile parolaccia!) 
- Moltheni! Moltheni! Si chiama Moltheni! 
- Ma sei impazzito? E' assurdo! Clamoroso! Certo che lo conosco! 
- ...

Riportate tutto il dialogo al dialetto perugino e saprete grosso modo com'è cominciata la storia. 
Sono passati tredici anni e da allora non abbiamo mai smesso di conoscerci.

Dal 1999 ha pubblicato sotto il nome d'arte Moltheni, fino al 2010, anno della fine del progetto, non dell'artista. 

Dopo una breve parentesi con i Pineda, rinasce infatti a nuova vita musicale nel 2012, araba fenice vestita col suo nome reale. 
Moltheni oggi è Umberto Maria Giardini, UMG. 
Aldilà dei cenni bio\discografici, facilmente rintracciabili su wikipedia o nelle decine di recensioni presenti nell'universo internettiano, chi scrive è e resta interessato alla personalissima (giacché priva di qualsiasi competenza) descrizione della pura e semplice dimensione cantautorale. 
Mi piace la musica, Amo la musica del fu Moltheni e di Umberto Maria Giardini. 
Ho scoperto questo cantautore grazie a quelli che sono gli amici di una vita. Come in un rituale, condividiamo da anni ormai i primi ascolti, le prime impressioni e le prime emozioni di ogni nuovo album, di ogni nuovo brano, di ogni nuova singola nota. E' una esperienza epifanica, nuova e bellissima, approcciare il lavoro di un artista che nel tempo è stato in grado di rinnovarsi ed evolversi nella scrittura e nel suono, restando sempre figlio del proprio audace temperamento. 
Certo, l'argomento arte possiede senz'altro gli sconfinati confini invisibili del cosmo e tutto il relativismo vacuo della soggettività. E la musica, in particolare, in quel susseguirsi di note prive di significato, pare esserne la conferma. 
Non è ozioso parlare e soprattutto scrivere di musica in questi tempi dove tutto scorre velocissimo? 
Forse sì, ma come scrisse qualcuno "niente è più necessario del superfluo". 
Superfluo... 
Eppure sappiamo che la musica ha un effetto portentoso sull'essere umano e miliardi di persone lo sperimentano, magari anche consapevolmente, ogni giorno. 
Lunga parte di questa sperimentazione, chi scrive la prova con la musica di Umg. 
E se esiste una singola parola che possa esprimere il concetto, questa potrebbe essere EUFONIA. 
Eufonia: l'effetto piacevole prodotto da un suono o dall'accostamento di più suoni che si incontrano. 
Suoni e parole, parole e suoni. Parole che sono suoni. Suoni che sono parole.

In sostanza: perchè ci piace la musica di Umg?




La musica di UMG è inconfondibile: allieta e trascina, culla e ipnotizza, turba e si apre, ferisce, confonde e ammalia, medica, si fa immagine sensibile, visiva, paesaggistica; è sempre in simbiosi con la voce perchè l'ha partorita, ne è Madre. 

La voce di UMG è inconfondibile: eterea accarezza, placa, risveglia, graffia, turba, si innalza, si lamenta, si perde, si estende, ammorbidisce, diventa ruvida, esplode; è sempre in simbiosi con la musica perchè da essa nasce, ne è Figlia. 
In diverse interviste Umg ha infatti dichiarato di avere come consuetudine una particolare tecnica di scrittura del testo, inversa alla maggior parte dei cantautori: le parole nascono dalla musica e non viceversa. 
E' la musica quindi a generare\evocare la parola e da questa inversione di causa-effetto scaturisce probabilmente una potente e magica comunione perchè la parola, posandosi aderisce, diventa essa stessa strumento musicale, essa stessa suono, essa stessa musica. 
Da qui forse il segreto di una spiccata e raffinata sensibilità di paroliere e musicista (musicofilo, varrebbe la pena di dire oggi..) che contraddistingue tutta la produzione del Nostro, che, nel corso di una carriera ormai ventennale, ha raggiunto vette di una bellezza a dir poco vertiginosa. 
Una carriera in cui è facile rintracciare in ogni dove una facoltà di immaginazione musicale illimitata, degna di un vero e proprio sinesteta. 
Se il connubio tra musica e testo genera un prodotto finale armonioso, concentrandosi solo sul secondo elemento il discorso si fa più ostico. 
La scrittura quasi mai segue una narrativa facile: si produce spesso per immagini, flash, diapositive, e i nessi che ne scaturiscono non sempre sono facilmente assimilabili alla logica. 
Le parole difficilmente assecondano, spesso disilludono, a volte scuotono, rimandano simbolicamente. 
Il linguaggio si permea a volte di un ermetismo spigoloso e sembra chiudersi a qualsiasi ermeneutica; le metafore sono ardite; gli accostamenti azzardati spiazzano e conducono dove non vorresti, dove sembra non esserci scampo, dove la materialità diventa melliflua e mobile e nel passato si fondono i piani della geometria spaziale e le corrispondenze cromatiche. 
Il tutto però, è fondamentale evidenziarlo, lontanissimo dal naif o dal nonsense che troppo spesso invade il nostro tempo. 
E' in realtà, quella di Umg, una visione chiarissima e intima, è la soglia che l'artista ci fa attraversare per renderci fruitori delle proprie emozioni, dei propri pensieri, del proprio materiale onirico, delle visioni psichedeliche, della versicolore immaginazione, con una paradossale quanto potente presa diretta sulla realtà. 
Una scrittura autentica, un riconoscibile e dunque originale marchio di fabbrica. 
Il tutto, allietando le orecchie e tanto basta!

E allora proviamo a scrivere su quello che a parole è indescrivibile, sulle canzoni.
In ordine sparso, come direbbe qualcuno.


MONDODOWN "Dormi che domani il mio burro piegherà il tuo acciaio" è la possibile vendetta dopo un amore finito. Ma in fondo, "merita pena colui o colei che lascia". Brillante intramontabile, graffiante episodio moltheniano.

L'AMORE ACQUATICO, contenuta ne "I segreti del corallo", concreta e dolce onomatopea che ravviva l'ascoltatore con rovesci di godurie rinfrescanti, "cascate ripide" di sonorità lenitive. Chitarre di Acqua limpida, la si può sentire sulla pelle.




Un esempio di memoria fonografica, uno scrutare con l'occhio della mente è VITA RUBINA, traccia che apre "I segreti del corallo". La vita di un individuo, il vissuto, concreta astrazione d'eccellenza, si antropomorfizza, diventa persona in grado di provare collera per quel che non si è voluto fare e dire, diventa specchio riflesso dell'io e inesorabilmente, a mo' di vendetta lo precipita nel passato, in un gorgo di immagini emblematiche, perso in una spirale fotografica che risucchia i sensi. E la musica accompagna incessante l'ipnosi verso la liberatoria confessione finale. Si potrebbe scomodare Schopenauer: "la musica non esprime che la quintessenza della vita e dei suoi avvenimenti" 





E noi ascoltatori non possiamo che attingere, rimestare e abbeverarci dei suoni e delle parole, e ripensarle e rielaborarle e riplasmarle attraverso il nostro vissuto, riuscendo nuovi.

Antri di cielo, turbinii emozionali, vedute interiori, pennellate melodiose, fiamme disperate che sanno di colpa, che bruciano campi e allora lasciamoci bruciare di un altro fuoco, nel lutto collettivo, nella natura che si ribella quando lassù splendono le Pleiadi, nell'individuale consolazione sessuale che forse non basterà: è "PLEIADI IN UN CIELO PERFETTO", stella splendente incastonata nel firmamento di Forma Mentis.

PREGANDO GLI ALBERI IN UN OTTOBRE DA NON DIMENTICARE è la degna quasi-chiusura dell'album Protestantesima. Un inno alla scrittura che consola e redime e insieme una celebrazione della Natura che acquieta i sensi. Molteplici le frasi manifesto. "L'inchiostro allaga, condanna chi non paga, nell'obiettivo di una bontà che filtri la verità"; "Povero l'uomo moderno, che cerca virtù, laddove la ruota in discesa temeraria corre di più"; "Alunno io, materia tu. La penna scrive, la mente trotta e ride"




Non mancano poi gli episodi mitologici da cui Umg attinge, e\o mitopoietici, in cui c'è un'elaborazione personale che si fa mito. La liquida SIBILLA; la norrena SAGA dove l'io si prefigura le porte del Valhalla, il fascino di un paradiso prefetto, bramando valchirie, navi, chili d'oro e cavalli, ruotando vicino a pianeti di fuoco. Epica.

IL VASO DI PANDORA Una volta sollevato il coperchio, Milano si mostra così com'è: denaro e cocaina. E allora, è preferibile il fango rispetto ad un attico. Un climax vocale\sonoro stratosferico canta il distacco da una città profondamente amata, fino alla disillusione del "chi se ne frega". Punta di diamante di Protestantesima.




TUTTO E' ANTICRISTO Reminiscenza forse di un film di Trier. Se ci si abbandona all'abbraccio del suono e della parola, magari in solitudine, magari ad occhi chiusi, la tenacia della scrittura musicale scolpirà nella memoria emozionale indimenticabili vedute. Maestria artigianale, con una coda strumentale di sconfinata bellezza. Chiude il quasi omonimo Ep. Un gioiello raro.




Ne LE COLPE DELL'ADOLESCENZA odori di fili d'erba tra parafanghi, la vergogna che si antropomorfizza davanti ad un tè, così come la paura di fronte al tocco del corpo femminile, il sapore di una lingua che sapeva (o sa ancora?) di caramella mou. Il livello del dolore è cambiato, ma restano gli stessi identici desideri di quando si era diciannovenni. Scrittura di una poesia sublime e voce che si fa soave.

LUCE "No che non verrò al mio funerale, credo piangerei come il temporale" Lugubre? Ma che cos'è questa frase se non un immenso inno alla vita? Una vita che sia circondata di luce. E che luce!... e che voce!

SECONDA MADRE Una delicata nostalgia poggiata sopra a suoni celesti: qui le note fanno l'amore. Ascoltarla, fermarsi e riflettere.




MEA CULPA Un intimo pianoforte incanta e sottolinea il desiderio di fuga da una realtà mal sopportata. Ma l'io lirico è carnefice e vittima di sé stesso, come tutti del resto. La melodia e la voce toccano lidi inesplorati di commozione. Un capolavoro. "Noi, l'antimateria della realtà, girati su di un fianco, restiamo a guardare".




FORMA MENTIS al pari delle sopracitate Mea Culpa e Vita rubina, tra le vette più alte. La densità delle emozioni si fa più rock, le parole più ruvide, la voce: una potenza di fuoco. Tagliata in due dalla chitarra di Viterbini, nella seconda parte vola. E' un lavoro enorme di poesia introspettiva, uno scavare profondo nei sotterranei della mente, negli anfratti dell'anima. E' ancora una volta un viaggio a ritroso, un fare i conti con sé stessi, con la propria forma mentis, con ciò che ognuno di noi ineluttabilmente è stato ed è. Desiderio di metanoia, di cambiamento radicale del modo di pensare di un intera vita. Uno sfogo possibilmente catartico, che porterà una pace, anche se per sfinimento. 




Impossibile citare anche solo una frase, un momento: tutto, tutto, tutto, profuma di capolavoro.

Tante altre rimaranno fuori da questa lista... 


Nel corso degli anni, insieme agli amici di sempre, si è provato più volte a fare una raccolta delle migliori canzoni: ad ogni aggiunta l'orizzonte si allontanava. 

Beh, naturalmente queste sono le parole di un fan, e si portano dietro tutta l'ingenuità e forse la stupidità che il termine possiede, vista anche l'età di chi scrive. 
Ma, insomma, ascoltare per credere!

Infine, dunque, la musica di UMG mi piace perchè mi piace! Lo direbbe un bambino, lo dice spesso il mio io bambino e non c'è niente di più giusto, puro e semplice.

21.8.19

Recensione: "The Nest - Il Nido"



De Feo, il pugliese De Feo, tira fuori un horror italiano alla internazionale migliore di quasi tutti quelli che internazionali lo sono del tutto.
Una favola gotica che gioca sempre sul genere e sul poter diventare più cose.
Benissimo girato, ancora meglio interpretato, The Nest è la prova di come si possano copiare i maestri creando però opere personali e molto intime.
Film dalla grande delicatezza, con un finale sorprendente.
Non un capolavoro ma forse la meglio cosa che vediamo nel genere in Italia da anni, almeno in sala.

presenti piccoli spoiler


Samuel suona il pianoforte davanti a tutti.
Ad un certo punto la macchina da presa finisce sul volto della madre.
Gli occhi sono lucidi.
Eppure quella madre l'avevamo già vista come una specie di orco, e un orco si confermerà anche per gran parte del film.
Uno spettatore attento poteva capire sin dall'inizio che dietro tutto quello che vedevamo in The Nest poteva, anzi, doveva (per dare un senso a tutto) esserci qualcos'altro.
Io di ipotesi ne ho fatte tante, alcune anche simili a quello che poi sarà il colpo di scena finale.
Ma c'è poco da fare, The Nest molto probabilmente vi stupirà.


Ora, dovrei cominciare con il solito discorso de "speriamo che il cinema di genere italiano riparta da qua" ma no, non lo faccio, troppe volte ormai c'ho sperato in passato.
Mi limito a dire che questo è forse il più bel horror italiano visto in sala da anni.
E, a differenza di altri nostri bei horror più pane e salame (specialmente per mancanza di fondi) qui De Feo è riuscito a fare un horror internazionale "à la americana" facendolo meglio del 90% degli americani. Un pò quello che successe con lo spagnolo The Orphanage (che in molti aspetti ricorda The Nest, e non solo nell'ambientazione e nelle suggestioni ma specialmente in quel rapporto madre-figlio tragico e intenso).
Dirò di più, De Feo è riuscito nel miracolo di fare un film horror "moderno" ma evitando non so come il giochino dei jumpscares, incredibile (io visto il trailer - comunque molto buono - ero convinto ne avesse a decine).