31.3.22

Recensione: "The Pyramid" (2013 - Autori Vari) - Gli Abomini di serie Z - 36 - Su Prime

 



Finalmente, dovendo far "debuttare" la casa nova del fratello, torno a vedere un Abominio.
E, sorprendente, troviamo addirittura su Prime un film amatoriale che, per qualche motivo, ce sembrava de conosce.
E sì, è quello che pensavamo, un film fatto -  in parte - anche da ragazzi umbri a 5 minuti da noi (eh, come non ripensare a In The Market...).
The Pyramid è un film horror antologico (4 episodi) con buona volontà, qualche cosa più che discreta (soprattutto gli effetti speciali) ma tanti tanti motivi per diventare uno scult.
Se amate i film fatti male che omaggiano un vecchio modo di far horror, allora The Pyramid deve esse una vostra visione quasi obbligatoria.
In compagnia però, da soli faticherete ad arrivà alla fine.
Di sicuro The Pyramid entrerà nella storia per avere i primi zombie (anzi, infetti) che prendono a pizze e calci le persone

Quanto mi mancavano i film brutti...
Vado per la prima volta alla casa nuova di mio fratello e, ovviamente, non si può non fare un revival dei vecchi tempi, quelli dove la visione dei film brutti era un appuntamento al quale era impossibile resistere.
La sorpresa è stato entrare su Prime e trovarci davanti questo titolo che, anche se non ricordavamo perchè, ci sembrava familiare, già sentito.
Poi capiremo perchè, visto che uno dei 4 registi (o forse 5, non ricordo) è un ragazzo umbro come noi e, anni fa, sia di lui che del film ci aveva parlato qualche amico comune (non ricordo se ce ne parlò bene o male).
Non solo, troverò nel film anche una mia grande amica (ciao Romi!), il che ha reso la situazione ancora più surreale (veramente, abbiamo scelto il film a caso senza sapere niente).

Dico subito che The Pyramid è, almeno sulla carta, una interessante operazione, ovvero quella di fare un horror antologico, a episodi, vecchio stampo, debitore al cinema del terrore degli anni 90.
I mezzi sono praticamente inesistenti e, in quest'ottica, risultano davvero convincenti e assolutamente sopra la media gli effetti speciali, fatti o da un vero professionista o da qualche giovane talentuoso.
I tagli, le frattaglie, i corpi, anche qualche trucco, è assolutamente credibile, specie per un'operazione così piccola.
I problemi sono assolutamente altrove.
Il primo grande problema è la scrittura.




The Pyramid è veramente non scritto e, quando scritto, scritto male.
A coppie (1-2 3-4) gli episodi sono praticamente identici tra loro tanto da confondersi nella mente già il giorno successivo.
Vero che il collante che li lega un pò...legava loro le mani (la presenza di una piramide in miniatura che rende pazzo - o infetto, o demone - chiunque la possiede) ma per chi si aspetta, un pò alla Creepshow, 4 belle idee, una diversa dall'altra, per 4 episodi originali me dispiace, zero assoluto.
Non c'è un solo secondo che non sappia non solo di già visto (sull'horror quasi tutto è già visto) ma di non già visto dumilacinquecento volte.
L'oggetto maledetto, quello che lo prende che impazzisce, i demoni che magnano il corpo, poi gli zombie (non se capisce come se passa dalle allucinazioni de atmosfere demoniache agli zombie, magari la piramide nel frattempo ha cambiato potere), ai cacciatori de zombie.
Non manca, come in tutti i film dell'orrore amatoriali, la ripresa alla Raimi in soggettiva sul bosco (e sticazzi, alla fine è sempre piacevole eh).
Il ritmo è disastroso, The Pyramid è lentissimo, non prende realmente mai e ce se annoia praticamente sempre.
Io credo che il momento migliore, quello che se lo prendi da solo te fa pure dì "cavolo, un bel horrorino fatto in casa" è il finale del primo episodio, quello diretto da Visani (e ambientato a Deruta, l'abbiamo riconosciuta). Le visioni, lui sventrato e mangiato, quel buio assoluto, funzionano, davvero.
Per il resto a parte qualche inquadratura (la sopracitata soggettiva nel bosco, l'incipit de Pestilence e me pare anche un bello scorcio sull'ultimo episodio) è veramente difficile restare svegli, e pe n'horror non è il massimo eh.

I momenti più scult:

- Il venditore del primo episodio (best character), il frego che arriva e vole comprà la piramide e glie dà tipo 200 euri e questo li butta in terra come a dire "ahahah, sticazzi degli euri, sto diffondendo il Male, cazzi tuoi e del mondo ora!"

- La possessione della mano del frego, scena epica

- Le infinite inquadrature alla piramide de Visani. Credo di averle contate 35, e in un corto di 20 minuti credo sia un record

(del secondo episodio non me ricordo niente, solo che la ragazza è la meglio attrice del film - pure bella - e ci sono gran bei disegni - l'altro protagonista è un fumettista - . Vi giuro che a distanza di due giorni non ricordo nemmeno come finisce. Anzi sì! me so ricordato ora mentre scrivevo e me stavo sforzando, finisce nel bosco, ma non ricordo però che fine fa lei)


- Il ritrovamento della Piramide del terzo episodio. Cioè, 4 ragazzi che trovano sto oggetto e stanno lì stupiti a guardallo come avessero trovato il tesoro dei pirati.

- La scena, tipo Goku, dell'ondata de energia che li colpisce

(poi vedo che nei miei appunti ho scritto "montaggio!!!!!!!!!!" con 11 punti esclamativi ma non ricordo perchè. Ma se ne ho messi 11 ce deve esse na cosa veramente rimarchevole riguardo il montaffio. Accidenti a me non ho scritto subito)

- Nell'ultimo episodio il sermone del prete, che chiameremo Fracazzo da Velletri. Un discorso sull'Apocalisse con 7-8 persone che ascoltano lì annoiate, probabilmente persone che passavano lì durante le riprese

- Ma ecco il vero capolavoro, per me, di tutto The Pyramid, ovvero lo zombie più corpulento. Intanto è truccato malissimo (in un film in cui i trucchi, come ho detto, sono più che buoni) ma quello che succede è una cosa che in nessuno stato del mondo, in nessuna epoca del mondo, si è mai vista nel mondo degli zombie.
I CALCI
Cioè, questo è un infetto, alla 28 giorni dopo, digrigna i denti, se move come gli infetti, se sbraccia, fa le facce.
E poi che fa? scende (è sopra un camioncino), dà na pigna a uno e lo prende a calci.
Un essere animalesco, ormai non più umano, che prende a pizze e calci un umano, è qualcosa de troppo bello, che mai dimenticherò.

- Non se capisce perchè i due cacciatori hanno le maschere (me sembra da scimmia), belle eh ma non se ne capisce l'utilità visto che avendocele addosso ce vedono solo mille volte peggio (sono arcieri) e de sicuro non servono a non fasse riconosce dagli zombie, semmai il contrario

- L'epilogo, veramente top, dove il venditore disotterra la Piramide (a tal proposito, la Piramide c'era stata presentata come un qualcosa forgiato dall'alba dei tempi e colpevole de tutti i mali del mondo (Hitler etc...). E come disinneschi il più grande simbolo del Male di tutti i tempi?
Lo sotterri.
Giustamente il venditore va lì, lo riprende ed è contento perchè il Male non finirà

The Pyramid, te se vole bene

24.3.22

Recensione: "Licorice Pizza"

 

Paul Thomas Anderson torna con un film ad "altezza nostra", abbandonando le sue immense cattedrali alle quali ci aveva abituato.
E lo fa con un film "da covid", un film piccolo e che ci fa star bene.
Ne viene fuori un'opera molto meno ambiziosa di quelle a cui ci aveva abituato ma non meno bella, forse perchè più accessibile.
Nella Los Angeles del 1973 la storia di un dolce, strano ed irresistibile rapporto, quello tra il 15enne Gary e la 25enne Alana.
Si prendono, si lasciano, si cercano, si staccano, in una serie di vicissitudini raccontate sempre con grandissima leggerezza da Anderson.
Non è una dolce storia d'amore ma, semmai, la possibile genesi - nel finale - di una storia d'amore.
Un film che è un abbraccio e che ha il merito di averci regalato il debutto di una straordinaria Alana Haim e quello di un figlio d'arte, Cooper Hoffman, figlio dell'immenso Philip Seymour.

Non è andata così ma per me è andata così.
Paul Thomas Anderson ha lavorato con tuo padre, l'immenso Philip Seymour Hoffman, per tutta la sua carriera.
Sydney, il bellissimo Ubriaco d'amore, il gigantesco Magnolia, il cult Boogie Nights fino ad arrivare a The Master dove, finalmente, l'ha tolto dal ruolo di irresistibile personaggio secondario e  messo quasi al centro di tutto.
E magari era suo amico, e magari t'ha visto crescere, e magari durante la lavorazione di The Master te eri lì in mezzo a loro, frugoletto di 9 anni.
Poi tuo padre ha deciso di andarsene ma PTA ha voluto che, in qualche modo, lui ci fosse ancora.
E ha preso te, come fossi un altro frazionista di una staffetta lunga una vita, con una sorta di commovente passaggio di testimone.
E te nel film sei un giovane che non ce la fa a non stare in un palcoscenico, che sia quello televisivo, quello di un teatro o quello della vita.
Eppure in questa locandina qua sopra te sei là dietro, in secondo piano, lasciando il palco a lei.
E' una locandina che fa a pugni col tuo personaggio, un personaggio che in secondo piano mai riuscirebbe a stare.
E così in questa locandina io non vedo te, io vedo tuo padre, uno che era il più grande ma se ne è sempre stato lì, 4 passi indietro, seminascosto, forse impaurito dalle luci della ribalta.
L'antidivo per eccellenza, ma talmente grande che dal suo angolino emanava una luce così forte che faceva risplendere l'intero film e i suoi colleghi in primo piano.
Che bello che tu abbia iniziato con PTA, chè non solo è, per me, il più grande regista vivente (non il mio favorito, il più grande) ma anche uno che ha camminato fianco a fianco con tuo padre.
Buona fortuna Cooper.

Io gli ultimi film di Anderson non li ho capiti fino in fondo.
Erano troppo più grandi di me, talmente maestosi per regia, costruzione, sottotesti e complessità che ne percepivo sì l'imponenza, ma senza riuscire a farli del tutto miei.
E invece adesso, con Licorice Pizza, Anderson sembra tornato all'altezza di noi comuni mortali, regalandoci un film dove non c'è niente da capire, dove l'architettura è piccola e forse nemmeno conta così tanto.
Un film per farci star bene, "da covid", una di quelle opere perfetta figlia di questi due anni. 
Facciamo un film più piccolo, facciamo un film per darci cose belle, facciamo un bellissimo palazzo visto che, per adesso, le cattedrali non possiamo costruirle.
Non che Licorice Pizza non sia curato - è curatissimo - ma ha una costruzione semplice, una regia essenziale, dei sottotesti importanti ma non complessi.
E' un film piccolo e immediato.
L'ho amato.


In realtà, a differenza del solito, mi è capitato di leggere molti pareri in giro ed ho sempre sentito parlare, riguardo Licorice Pizza, di tenera storia d'amore, di dolce storia d'amore, in ogni caso di storia d'amore.
Ecco, è proprio qui semmai che Licorice Pizza offre qualche sottotesto non evidente a tutti.
Perchè no, quella che ci viene raccontata non è (ancora) una storia d'amore, tutt'altro.
Il personaggio di Alana - una grandiosa Alana Haim, ci torneremo - è fortemente negativo in questo, dolce ma fortemente negativo.
E' una ragazza che sta lì seduta alla stazione cercando solo di saltare sul treno giusto.
E lo fa continuamente.
Prima prova con l'amico di Gary, Lance, attore in erba già famoso ma più appetibile di Gary stesso.
Andrà tutto a puttane nella divertentissima scena di famiglia.
Poi ci proverà spudoratamente con il "vecchio" attore di successo Jack Holden (un ottimo Penn in un ruolo alla James Dean se James Dean non fosse morto giovane).
Anche qui "annuserà" la possibilità di instaurare una relazione con un uomo di successo ma tutto durerà il tempo di una notte, con Holden che la fa cadere dalla moto come una zavorra, fregandosene completamente di lei.
Poi vedrà un altro ottimo treno nell'aspirante sindaco Wachs.
Anche stavolta, per arrivare al suo intento, se ne fregherà di Gary (come le precedenti due), inizierà a crederci per poi scoprire di essere stata usata dallo stesso Wachs per coprire la sua omosessualità.
Questo è tutto fuorchè amore.
Alana non sta sbagliando, Alana è una ragazza che vuole uscire da una certa condizione e fa di tutto per riuscirci.
Non è fidanzata di Gary, alla fine non sta tradendo nessuno, ma è evidente come metta sempre prima sè stessa, di come se ne freghi del suo "amico" per inseguire invece relazioni che potrebbero renderla famosa.
Non è un caso che già con lo stesso Gary lei, a teatro, si presenti orgogliosa agli altri spettatori dicendo di essere la sua accompagnatrice.
Questa è Alana, una giovane in disperata ricerca di un posto al sole.
Questo suo modo di fare le farà prendere solo cazzotti in faccia però.

Dall'altra parte c'è Gary, un 15enne con uno spirito d'iniziativa pazzesca, uno che ha un'idea e la mette in pratica, poi ne ha un'altra e fa lo stesso.
Sicuro di sè, spavaldo, coraggiosissimo.
Ma amabile, amabilissimo.
Forse all'inizio per lui scatta davvero un forte sentimento per Alana (la scena delle telefonate abortite è bellissima) ma dopo essersi sentito "tradito" (quando lei va col suo migliore amico) le sue aspettative si abbassano e, anzi, è lui il primo a tradire "veramente" questa loro buffa "non coppia", baciandosi con una sua coetanea allo show room.
Ecco quindi che il rapporto tra i due diventa un prendersi e lasciarsi, un pensare l'uno all'altro ma al tempo stesso anche  - e soprattutto - a sè stessi, niente di più che un rapporto adolescenziale, vero, bello, strano, immaturo.

23.3.22

Quello che può accadere in vetta - la mia sui casi Osaka e Barty

 


Nemmeno 15 minuti fa ho saputo del ritiro, a soli 25 anni, della tennista numero 1 al mondo, la Barty.
Senza nemmeno accorgermene mi sono ritrovato al pc a "dover" scrivere queste righe, ricordando anche un altro caso - diverso ma non troppo- che riguarda una recentissima numero 1 del mondo WTA, la Osaka.
A volte si pensa che raggiungere la vetta sia tutto, che rappresenti la felicità.
Non ci può essere visione più superficiale.
Ho provato a dire perchè.

E' di pochissimi minuti fa la notizia che la numero 1 del tennis mondiale, la magnifica - tennisticamente - Ashleigh Barty - ha dato addio al tennis.
A soli 25 anni.
Da numero 1 incontrastata.
La Barty non giocava a tennis, la Barty era il tennis, un pò quello che potremmo dire per Federer.
Non che per questi campioni la forma fisica e mentale non siano importanti (resteranno sempre conditio sine qua non di questo sport) ma per loro giocare a tennis è(era) qualcosa di così naturale che viene quasi automatico personificare questo magnifico sport con loro.
Federer e la Barty sono il tennis.
Ma mentre il primo a 40 anni e passa è ancora lì a provare a non salutarci per sempre (cosa che comunque avverrà quasi sicuramente dopo Wimbledon) la giovanissima australiana ha detto già basta, ad una età dove, di solito, si iniziano ad ottenere i primi risultati importanti (o almeno nel tennis femminile degli ultimi 20 anni che è sempre meno quello delle bambine prodigio degli anni 90).
Ma l'addio della Barty ci porta inevitabilmente alla memoria la crisi irreversibile della Osaka.
Perchè?
Perchè hanno una cosa in comune che sembra scema ma invece è forse il sintomo più importante su cui fare la diagnosi, ovvero essere state numero 1 del mondo.
Per chi segue poco il tennis dico subito che queste due giovanissime ragazze (una 24, l'altra 25) in condizioni normali (ovvero serenità mentale della Osaka e non addio della Barty) sarebbero state numero 1 e 2 del mondo per i prossimi 10 anni (a meno di qualche esplosione là sotto di una giovane - cosa mai scontata, vedete le difficoltà che sta avendo la Raducanu -).
Sono, per farla semplice, troppo più forti delle altre.
Troppo più potente la Osaka, troppo più tennis la Barty.
Eppure entrambe sono andate in grandissima crisi una volta raggiunta la vetta.
Sono due crisi al tempo stesso diversissime ma con qualche punto in comune.
La Osaka ha avuto il coraggio di dirlo pubblicamente, soffre di depressione.
Le veniva l'ansia e la tachicardia nel dovere fare conferenze stampa, nel dover dare risposte a domande sempre uguali, nel dover dare conto a sue sconfitte, a sue debolezze.
Una ragazza poco più che ventenne che soffre di depressione e "ansia sociale" non riusciva più a reggere tutto quel peso, davanti un'opinione pubblica e dei media che le stavano addosso 24 ore.
La Osaka iniziò a disertare conferenze stampa, a prendere multe.
Il suo era un grido d'aiuto che la miope organizzazione del tennis non capì e, invece di aiutarla, pensava solo a punirla.
Tanto che la Osaka ad un certo punto si ritirò, dopo aver vinto il primo turno, dal Roland Garros 2021 perchè non voleva che il suo "caso" fagocitasse tutto il resto, cercando al tempo stesso una sua serenità quella del torneo.
Da lì Naomi (anzi, già da prima) non riuscirà più a giocare con continuità, a reggere la pressione, a vincere.
Completamente un'altra atleta.
Tante persone fanno fatica a capire come una giovane di 22 anni, numero 1 del mondo di uno degli sport più importanti, piena di soldi e di fama possa soffrire di depressione.
Il caso della Osaka ha portato alla luce, grazie al suo coraggio, il segreto di Pulcinella, ovvero che la depressione se ne frega del successo in vita (la vita di fuori) ma ha delle dinamiche, dei percorsi e delle caratteristiche molto più profonde.
Anzi, molto spesso accade che proprio raggiungere la vetta acuisce quelle difficoltà, quei vuoti, quelle paure.
Proprio l'altro ieri ho visto Licorice Pizza e ho trovato dentro il figlio di Philip Seymour Hoffman. Ne parlerò in recensione ma come non ricordare quella scomparsa?
Attore al vertice, considerato uno dei più grandi della sua generazione.
Eppure quel mal di vivere.
Come lui decine, centinaia, di attori, imprenditori, sportivi, uomini di successo, tutti morti suicidi o scomparsi vittime della depressione.
Bisognerebbe capire che la serenità interiore (meno intensa ma più importante della felicità) molto spesso non dipende dal successo di fuori.
Certo le soddisfazioni, la stima, i risultati, gli obbiettivi raggiunti nella vita "emersa" sono importantissimi, e quasi sempre forieri di felicità e infelicità.
Specie in quelle persone che hanno la fortuna o sfortuna di vivere il proprio Io con superficialità, l'incapacità intellettuale o semplicemente la non voglia di guardarsi nel profondo.
Ma una persona depressa può essere depressa malgrado qualsiasi cosa, e ripeto qualsiasi cosa, le accada.
Certo vivere una vita piena, raggiungere risultati, avere mille persone accanto, fare mille cose sono spesso una cura eccezionale, ma resta il fatto che se tutte ste cose non ti tolgono il macigno che hai dentro non solo servono a poco ma, anzi, possono rendere quel macigno ancora più grande.


Se una ragazza che soffre di depressione come la Osaka arriva in vetta, se ha tutto, se tutti la vogliono, se diventa milionaria, se raggiunge sportivamente tutti i suoi sogni, e se malgrado questo sente che "dentro" non riesce comunque ad uscire dalla fossa, allora tutti quei risultati avranno quasi un effetto boomerang, dirsi "ho tutto ma sto ancora male" acuirà ancora più il suo malessere, vuoi perchè scoprirà che quelle che pensava potessero essere delle cure non lo sono state, vuoi perchè adesso non solo è una ragazza depressa ma è una ragazza depressa che deve stare tutti i giorni sotto gli occhi di tutti, vuoi perchè farà fatica a capire "ma allora di cosa ho bisogno per guarire?".
Diventare numeri 1 del mondo in queste condizioni, vedere che le luci dei riflettori non riescono comunque ad illuminare il buio dell'anima, può avere solo un effetto negativo.
Ma c'è anche un'altra motivazione per cui diventare i primi al mondo può causare effetti negativi, ed è quello successo alla Barty.
Il tennis è uno sport di motivazioni (poi, come tutti gli sport individuali, questa frase diventa ancora più forte, tu sei artefice dei tuoi successi, da solo, per questo le motivazioni sono tutto, non puoi sperare nella squadra), di obiettivi da raggiungere (per alcuni sono andare nei primi 100 del mondo, per altri nei primi 10, per pochissimi diventare numero 1, per altri ancora vincere un dato torneo).
La Barty aveva alcuni sogni.
Vincere Wimbledon.
Vincere i "suoi" Australian Open (è australiana).
Diventare numero 1 del mono (oddio, questo non so se sia stato un suo sogno dichiarato ma credo faccia parte dell'ordine delle cose).
Li ha raggiunti tutti e 3.
E se non hai la mentalità del cannibale, dei record, di far soldi, di vincere, vincere e vincere 10, 100, 1000 volte (Nadal, Djokovic etc...), allora quando raggiungi quegli obiettivi le motivazioni crollano.
Mi fa pensare al finale di OldBoy quando Woo-Jin si spara un colpo in testa dopo aver raggiunto il suo obiettivo

"E ora che altro posso desiderare?"

Niente, appunto.
La Barty è arrivata in vetta, anche con relativamente poca fatica (è numero 1 al mondo da 3 anni giocando un quarto delle altre), si è accorta che non ha più fame, che è già sazia, che in quello sport (che è solo una fase della sua vita) ha raggiunto tutto quello che voleva raggiungere.
E allora ha detto basta.


Perchè allenarsi ore e ore al giorno per giocare qualche torneo ogni tanto se le motivazioni non ci sono più?
(tra l'altro secondo me la Barty si ritira in un tennis femminile quasi privo di super campionesse, probabilmente se fosse stato più competitivo avrebbe avuto anche più stimoli, anche se questo sembra un paradoss vista la facilità con cui sarebbe stata ancora per tantissimo numero 1 del mondo).

Un'altra volta qualcuno arrivato in vetta e a cui quella vetta ha fatto male.
Ma se per la Osaka essersi trovata in vetta l'ha fatta sentire "nuda e debole" (come era già) ma sotto gli occhi di tutti per la Barty raggiungere la vetta ha significato invece il completo appagamento, il dirsi "ma ora che ho raggiunto l'Everest chi me lo fa fare di trovare le forze per scalare ancora montagne?".
Sembrano due casi completamente diversi eppure, se ci pensate, hanno un grandissimo punto in comune.
Ovvero quello che raggiungere il massimo, in entrambi i casi, non ha avuto un effetto benefico, non è stato lo stimolo per essere ancora più forti, non è stato un luogo privilegiato per guardare gli altri dall'alto in basso e godere di questo privilegio.
Ma è stato lo scoprire che i risultati non sono tutto.
Che se non stai bene dentro possono farti comunque male.
Che una volta raggiunti possono essere subito sostituiti da altri obbiettivi.
Che in un mondo sempre più competitivo quelli che guardano a chi vince e chi perde sono persone che non valgono granchè.
Perchè c'è solo un luogo dove si vince e si perde.
Ed è sotto la nostra pelle

17.3.22

Extra Sci-Fi Festival Verona - Prima Edizione - di Enrico G.





Post davvero bello di Enrico G., il ragazzo che solitamente cura per il blog la rubrica degli anime.
Si è tenuta la prima edizione di un nuovo festival, a Verona, l'Extra sci-fi Festival.
Enrico ha praticamente visto tutti i film e li ha ottimamente recensiti (potrebbe anche essere l'unico luogo in rete dove troverete tutti i film del festival, o sicuramente uno dei pochissimi).
Non solo, Enrico ha anche intervistato uno degli organizzatori, un redattore del mitico sito I 400 calci.
Vi lascio alla presentazione, all'intervista e poi alle recensioni di tutti i film


L’Extra sci-fi è un festival nuovo di zecca, tenutosi nella sua prima edizione tra il 4 e il 13 marzo 2022 a Verona, con tutta una serie di eventi incentrati sul genere fantascientifico. Il suo cuore però è stato decisamente il Cinema Teatro Nuovo di San Michele Extra (il nome non è casuale), dove per due fine settimana si sono tenute svariate proiezioni: 1 pellicola cult introduttiva, 6 lungometraggi e 4 corti in lingua originale, che essendo un locale ho avuto il piacere prima di vedere in gran parte, e poi scriverne (senza spoiler), anche per fare pubblicità a questo esperimento tirato su praticamente da soli appassionati della mia amata città. Ma perché dovrei introdurvelo io, quando potrebbe farlo un organizzatore in persona? Per questa speciale occasione infatti mi sono improvvisato reporter, grazie mille quindi a Marco Triolo aka George Rohmer, redattore dei 400 Calci che mi ha gentilmente assecondato in questa intervista, a cui vi lascio senza indugi.


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- Questa è una prima edizione, com’è che nasce un festival dal nulla, praticamente senza sponsor, per passione?

- L’idea iniziale era di Emanuele (Del Medico, organizzatore, ndr), anche lui appassionato di cinema di genere, di cinema di fantascienza, lettore dei 400 Calci… alla Sobilla, dove c’è stata la presentazione del volume di Zattera, vicino a piazza Santa Toscana, si trova questo circolo dove lui faceva parte del direttivo, avevamo fatto le presentazioni dei libri di 400 Calci ad esempio, ci ha invitati lui anni fa. Per cui quando gli è venuta questa idea lui mi ha tirato dentro, voleva vedere se era possibile una partnership coi 400 Calci, che poi come vedi c’è stata, c’è anche il logo. Allora, la sua idea era quella di fare un festival di fantascienza a Verona e partire dal Trieste Science+Fiction, perché lui da fan del cinema di fantascienza è andato più volte là a vedere i film del festival e gli è venuta questa idea di portarne un pezzo qua. Quindi semplicemente abbiamo contattato Trieste, io poi conoscevo uno degli organizzatori, per cui li abbiamo sentiti, si sono dimostrati subito interessati, abbiamo avuto diversi incontri su Zoom per definire le cose; ad un certo punto gli abbiamo chiesto se erano interessati a darci proprio il loro marchio, fare una cosa ufficiale, proprio una costola del festival, e da lì abbiamo iniziato a selezionare i film, che di fatto sono una selezione della loro selezione.

- In questa selezione vi hanno dato una certa libertà di scelta?
- Sì, poi noi ci siamo dati dei paletti, abbiamo cercato robe che non fossero proprio le più diffuse: ovviamente abbiamo fatto tre film dell’ultima edizione di novembre, era più facile che non fossero usciti, mentre quelli più vecchi, i pomeridiani presi dalle edizioni precedenti, alcuni erano effettivamente già usciti sulle piattaforme streaming… magari non al cinema, ma giravano già, anche da scaricare illegalmente. L’eccezione è stato un po’ Extra Ordinary, il film da cui è partito tutto, si è cominciato subito a parlare di quello lì, di quanto era figo, aveva vinto dei premi, nel 2019 mi pare, Emanuele lo voleva fare assolutamente, quindi è il film da cui è partito un po’ tutto. Quello si trovava, ma non è stato distribuito in Italia… Per quanto riguarda fare tutto questo senza gente che ti dà budget, siamo un gruppo di persone che ha già organizzato altri eventi, sapevamo come muoverci, avevamo un po’ di sponsor che ci hanno dato una mano economicamente.

- E proprio a Verona perché? Avete trovato disponibilità al cinema?
- Emanuele non è veronese ma vive qua, per il resto siamo tutti veronesi, quindi l’idea era proprio quella di farlo qui… il cinema è stato tirato dentro da subito, fin dalle prime riunioni, anzi mi sa che la prima l’abbiamo fatta proprio qui. Era già parte del progetto, poiché il Cinema Nuovo fa da sempre rassegne, quindi era il posto adatto.

- Stavo pensando, guardando il film introduttivo, La Cosa, quello è film in un certo senso d’intrattenimento ma dal contenuto molto politico, e che all’epoca non sarebbe stato presentato in nessun festival; oggi lo introduce. È anche un tentativo, questo Extra sci-fi, di unire lo spettatore che cerca l’intrattenimento a quello da festival?
- Guarda, non so se lo definirei così, anche perché col coinvolgimento dei 400 Calci, noi come sito non riteniamo che il cinema di genere debba presentarsi in maniera più elevata per ottenere riconoscimento (…) il punto dei 400 Calci è che il cinema di genere, l’action, l’horror, eccetera, ha la stessa dignità del cinema d’autore. Cioè, il cinema d’autore è un’espressione fondamentalmente inventata: ci sono autori che hanno lavorato solo di generi, Kubrick ha fatto solo film di genere. Cinema d’autore è un po’ un cappello, diciamo, comodo, per includere tutti quei film che non sai bene come definirli, hanno certi tratti caratteristici ma non sono di genere. Quindi per me, ma anche per gli altri, non è che un film debba essere confezionato in un certo modo per poter ottenere pari dignità rispetto al cinema alto: per me comunque, il cinema è tutto su un unico livello. C’è un’espressione di Edgar Wright, segnata anche nel nostro primo libro, che “non esistono film belli o brutti, ma solo film noiosi o non noiosi”. Quindi no, non ci interessava unire pubblici, semplicemente siamo appassionati di fantascienza, volevamo proporre fantascienza. La fantascienza parla da sé, a seconda della sensibilità un autore può farla smaccatamente pulp, edulcorata, più d’autore come “The trouble with being born”, l’importante, ciò che divide la vera fantascienza da quella solo di messa in scena è che la fantascienza deve parlare dell’oggi.

- E del domani, possibilmente.
- Usa il domani per parlare dell’oggi, o comunque delle prospettive che abbiamo, tendenzialmente da sempre parla della società umana attraverso l’uso di metafore. La saga di Transformers è fantascienza visivamente, per le caratteristiche superficiali, ma in realtà non lo è nel senso che non fa un discorso, sono robot che si picchiano, altro tipo di cinema.

- La fantascienza è il contenuto e non il vestito insomma?
- Esatto, delle volte la fantascienza, come nel film di oggi pomeriggio (The trouble with being born, film tedesco che mi sono perso ma so essere attualmente recuperabile su Mubi, ndr), è qualcosa che non ha effetti visivi praticamente, ma il concetto comunque è fantascientifico. Abbiamo fatto questo sperando di intercettare un pubblico che questo tipo di cinema l’apprezza, e mi pare sia andata proprio così.

- A proposito di questo, mi hai detto di essere abbastanza soddisfatto di questa esperienza. C’è qualcosa, immaginando puntiate a tornare il prossimo anno, che sperate, che volete cambiare, aspettative?
- Forse rivedremo alcune cose, non sappiamo se fare esattamente come quest’anno, con un film introduttivo nel weekend e le proiezioni quello dopo, o spalmare su due fine settimana le proiezioni, comunque vedremo, l’idea è ovviamente sì, di tornare con un’altra edizione.

- Come ultima domanda, per selezionarli avrai immagino visionato tutti i film, hai un preferito, qualcuno che ti ha particolarmente colpito?
- Beh, Extra Ordinary, che poi è quello meno fantascientifico di tutti, e mi è piaciuto molto anche Lapsis, perché quel tipo di cinema lì mi piace, più cerebrale, magari più difficile ad una prima visione, ma che si fa rivedere. Poi c’è un discorso politico, è un film molto interessante, di quel genere, come Primer, basato su idee difficili ma che ti restano.

Ancora grazie a Marco per avermi concesso questa interessante chiacchierata, ora passiamo alle mie, come sempre, soggettive opinioni sulla selezione.

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Sins of a werewolf



Corto irlandese, curiosa scelta come introduzione al festival, specie appaiato al cult di John Carpenter, forse per la presenza della “creatura”, in questo caso un lupo mannaro. Un licantropo chiamato Banshee (un po’ ridondante no? E poi chiamato da chi?) infesta la parrocchia di un giovane prete, che dopo esserne stato vittima (leggasi: viene morso sulle chiappe) inizia a sua volta a mietere vittime col chiaro di luna, fino all’intervento delle prostitute più linde e pulite mai viste su grande schermo. Ora, Sins of a werewolf è pure simpatico a tratti - migliore battuta del film, dopo che il prete-licantropo ha letteralmente staccato un pene a morsi: “Oh mio Dio, sono omosessuale?” - ma veramente troppo incasinato, considerato pure che dura appena una ventina di minuti. Perché il licantropo dopo aver colpito, ovviamente in una scena montata malissimo per nascondere il pupazzone, non si vedrà mai più? Cosa ci facevano tre prostitute in mezzo alla brughiera di notte? Perché sprecare un’idea carina in “attacchi” alla chiesa all’acqua di rose? Ma soprattutto, perché mi faccio queste domande e non dedico invece più tempo alla Cosa?


La Cosa



So bene di essere l’ultimo arrivato su questo grande film, ma dopo averlo finalmente visto sul grande schermo, in lingua inglese, non posso esimermi: sono passati quarant’anni da quando il capolavoro assoluto di John Carpenter ha cambiato l’horror, in barba a chi l’osteggiò ai tempi, e va festeggiato per quanto trite possano essere le celebrazioni. Questa visione è stato il traino per partecipare al festival vero e proprio, poiché La Cosa è il mio film di paura preferito di tutti i tempi, ed è qui, lontano dalle mie solite dietrologie, che vorrei riportarlo: alla paura. Spogliato dal suo contesto politico, molto forte come in tutto il cinema di Carpenter, spogliato dalla disastrosa concorrenza con E.T., spogliato di tutto, rimane un film che ancora oggi incute timore, spaventa. La Cosa fa uscire dalla sala scoraggiati e paranoidi, come dovrebbe fare ogni buon horror. Molto è pura costruzione, senza i giustamente celebrati effetti speciali prostetici, forse i più efficaci mai visti nel cinema tutto, puro sfruttamento delle normali paure di tutti, l’ignoto, l’isolamento, la sensazione di non potersi fidare del proprio prossimo. Ci sono pochi bagliori di speranza, qualche sorriso a denti stretti, più che altro per la presenza di Kurt Russell, perché, beh, lui è Kurt Russell appunto, l’unico di cui lo spettatore veramente si fida, l’attore feticcio del regista qui nel ruolo dell’ennesimo antieroe in una lotta disperata. Ancora non si contano i brividi, quando partono le note cupe di Morricone, quando le pance si aprono e il sangue grida, quando un cane apparentemente innocuo è inseguito da un norvegese che urla come impazzito, quando c’è quel finale. Solo uno dei due emette fiato, in quella eterna notte antartica. Ti fa veramente interrogare, nel caldo della sala, chi siede veramente in fianco a te.


The exit plan



Corto anglo-australiano, e si sente dalle affascinanti voci senili ma dignitose, strascicate ma impeccabilmente inglesi, con una premessa molto interessante e un grande problema. Il “piano di congedo” è una legge di un futuro dalle risorse limitate, secondo il quale gli over 80 senza parenti che badino a loro devono lasciare spazio alle nuove generazioni “ritirandosi”, ovvero morire. Idea davvero interessante, che urla “fatemi diventare un lungometraggio!”, si presenta persino col classico testo all’inizio, svolge tutte le premesse con diligenza, e in 15 minuti deve frettolosamente chiudere su sfondo a nero. Peccato, davvero peccato, perché questo confronto psicologico - e poi fisico, in un momento che mi ha fatto genuinamente saltare sulla poltrona – tra la vecchietta bianca senza tempo da perdere e il giovane burocrate nero odioso ma non cattivo già rimandava una versione futuristica a pelli invertite della scarcerazione di Red, nell’indimenticabile Le Ali della Libertà. Solo che invece di un Morgan Freeman mostruoso che parla di parole inventate dai politici per creare un lavoro, abbiamo una svolta finale bella ma caduta dalle nuvole. Se è vero che al cinema il meno è più, questa è l’eccezione che conferma la regola.


Flashback



Questa era una delle visioni che m’intrigava e mi respingeva più allo stesso tempo dell’Extra sci-fi: basta guardare la locandina, o leggere una sinossi, e sembra di essere tornati in sala negli anni ’90. Può essere nel bene, può essere nel male, qui è… nel mezzo.

14.3.22

Recensione: "Belfast"

 

Una grande delusione, ahimè,
Un film che non mi ha mai preso, nè emotivamente nè intellettualmente nè visivamente.
Nemmeno lo scoprire a fine proiezione quanto questo film fosse personale e intimo (racconta i 9 anni di Branagh a Belfast) ha migliorato la mia percezione.
Un'opera leggera e drammatica che però, mischiando le due cose, riesce a funzionar poco in entrambi gli aspetti.
Quella che doveva essere una storia fortemente drammatica (la guerriglia urbana tra protestanti e cattolici del 1969) risulta alla fine poco convincente, annacquata, senza pathos.
Un film sul ricordo, un omaggio, un qualcosa che aveva tutte le carte in regola per poter essere grande.
Ma che a me purtroppo non è arrivato

 A fine proiezione ci siam detti "E se fosse completamente autobiografico?".
Ecco, sapete che io quando vado a vedere film non voglio saper nulla, nè delle cose "dentro" al film (trama etc..) nè di quelle intorno ad esso.
 In questo caso non avrei nemmeno saputo /o capito) che "Belfast" raccontasse l'infanzia di Branagh, Branagh che, lo ammetto, non sapevo nemmeno fosse Nordirlandese.
Quando a fine film c'è venuta in mente questa intuizione (peraltro abbastanza prevedibile) abbiamo controllato su Wiki e sì, Belfast racconta i 9 anni di Branagh.
La scoperta di quanto questo film sia così intimo e personale (una specie quindi di "E' stata la mano di Di"o sorrentiniana - solo per restare ai tempi recentissimi -  anche se io lo paragonerei piuttosto - specie per il b/n - a "Roma", film per quanto mi riguardo due spanne superiore) di solito accresce il valore del film, o almeno il mio valore del film.
Sapere che quello che ho visto è stato realmente vissuto, sapere che c'era un'urgenza del racconto, sapere di quanto l'autore tenga - non solo cinematograficamente - a quel film di solito me li rende ancora più belli.
Eppure stavolta - caso rarissimo - scoprire che tutto quello che avevo visto riguardasse Branagh in prima persona (e quindi che quelli - credo- fossero i suoi genitori reali, quelli i nonni reali, quelli i luoghi reali etc..) non mi ha cambiato niente.
Perchè a me sto film non è piaciuto, non è piaciuto quasi per niente.
Non mi ha emozionato mai, nè cinematograficamente, nè intellettualmente nè nel cuore, benchè, per soggetto, dovesse farlo in tutti gli aspetti.


Belfast è stata un'ora e mezza di quasi pura noia e meno male che per una volta scrivo a soli 2 giorni di distanza perchè se mi fossi messo alla scrivania - come ultimamente capita spesso - a una settimana dalla visione non mi sarei ricordato niente, visto il pochissimo, ahimè, che il film mi ha lasciato.
E' vero, c'è il bianco e nero che fa sempre figo, che a livello fotografico funziona sempre (anche se io non ho visto nemmeno tutta sta magnificenza fotografica o tecnica, lo dico) ma per il resto questo è un film a metà strada tra troppe cose e troppe sensazioni.
E' a tratti leggero, altre drammatico, altre documentaristico da affresco storico, tutte sfumature che potevano elevarlo ma che qui, mischiate insieme, mi hanno dato una sensazione strana, ovvero quella di non convincermi in nessuno aspetto.
Quando doveva esser leggero e ironico non ho quasi mai riso (ci sono un paio di battute brillanti ma, che ne so, in questo contesto non mi sono arrivate), quando doveva esser drammatico non ho mai percepito quella drammaticità, quella minaccia, quel pericolo. 
Quando doveva insegnarmi cose su quel periodo mi è sembrato abbastanza didascalico e semplicistico.
Diciamoci la verità, a stringere stringere in effetti quel periodo storico è abbastanza poco complesso, ci sono i protestanti che non sopportano nel "loro" territorio la presenza di cattolici. E per questo fanno guerriglie e raid.
Insomma, di certo per capire il film e il contesto non c'era bisogno di saggisti o storici ma, non so, la situazione mi è sembrata raccontata con poca complessità.
E malgrado questa semplicità a volte mi son comunque perso a capire chi erano i protestanti, chi i cattolici, chi tra i primi era più liberale e chi lo era meno.
Poco male, questo film è il racconto di una piccola parte di vita (pochi mesi?) di un bambino di 9 anni di Belfast.
Della sua famiglia protestante ma piena di buoni valori.
Delle difficoltà di continuare a vivere in una città sotto assedio, non serena, con pochissime opportunità lavorative e un futuro sempre più nero.
L'incipit a colori con quei droni è bellissimo, e geniale l'idea di catapultarci nel bianco e nero del 1969 solo guardando dietro quel muro.
Già che ci sono dico che ho amato molto anche vedere spezzoni a colori dentro al film, spezzoni che riguardano solo scene di film o di teatro che i protagonisti vedono nella diegesi.
La mia interpretazione è che mentre tutto il film è in bianco e nero perchè racconta fatti incontestabilmente del passato, le immagini dei film o degli spettacoli teatrali sono invece a colori perchè "senza tempo", perchè l'arte travalica il concetto del passato, vedere un film o uno spettacolo teatrale è sempre un eterno presente, a prescindere dall'epoca dello spettatore.
Ma torniamo a noi.
Siamo quindi nel 1969 e la macchina da presa si aggira per le strade come fosse un abitante.
Belli i vicoli, belli i muri, bella l'atmosfera tipicamente british.
Poi Buddy, il bambino, vede qualcosa.
C'è una panoramica a 360 gradi che gli gira intorno più volte per poi fermarsi.
Il film cambia, siamo dentro un raid.
Ecco, se fino a questo punto ero abbastanza ben disposto e contento dei primi minuti già il primo raid e alcuni movimenti di macchina mi hanno fatto capire che No Giuseppe, non lo stai vivendo come dovrebbe esser vissuto".
Non ho percepito il pericolo, l'angoscia, la minaccia, il film mi aveva definitivamente NON preso con sè.
E purtroppo sarà così per tutto il resto, fino alla fine.
Non mi ha preso la tenera storia d'amore tra Buddy e la compagna di classe (con quel discorso di stare nella stessa fila di banco reiterato e francamente pesante), non mi ha preso la storia della famiglia di Buddy (tra l'altro perchè non dedicare almeno una sequenza - almeno per farci capire quanto quella cosa inficiasse nella serenità della stesa famiglia - alla faccenda delle scommesse clandestine? ci sono 3-4 accenni qua e là ma non ci viene mai mostrata "da dentro" e come vera malattia).
Non mi ha preso la questione cattolici-protestanti perchè era a metà tra la sua parte drammatica (i raid) e battute da stand up comedy tra i due tipi di approccio religioso.
E purtroppo qualsiasi scena mi ritrovavo davanti non mi dava pathos.
Anche la figura della cuginetta (una specie di Lucignolo di collodiana memoria) era carino ma anche le sue scene non mi hanno coinvolto.
Quando poi mi ritrovo i due ragazzini in mezzo ai guerriglieri (sulla carta momento più alto per emozione) non so, non sono riuscito ad avvertire la drammaticità manco stavolta.
Quando poi il padre e il "villain" si trovano faccia a faccia con dietro a ognuno di loro l'esercito veramente mi son cadute le braccia, era una scena "epica" in un film che non aveva fatto niente per sembrar tale.


E io continuo a scrive sta recensione dove più sequenze racconto più esprimo malcontento, nemmeno ha senso la cosa.
Però Caltriona Balfe (un'attrice che non conoscevo e che sembra una Jennifer Lawrence 45enne) è tanta tanta roba (non mi riferisco al fatto che sia una bellissima donna) e, a dir la verità, a livello recitativo mi son piaciuti davvero tutti.
Bella la figura della nonna di Judi Dench. Ecco, forse quel suo primissimo piano finale sono gli unici secondi di piccola emozione che ho provato durante il film.
Un film ben girato, personale, ma secondo me non troppo coraggioso, nè a livello formale nè di racconto.
Però, ecco, quel paragone tra la Luna (l'allunaggio era proprio di quei mesi) e il sogno di andare in un paese lontanissimo dove ricominciare (come Australia o Canada) era davvero bello.
E lasciare quello che amiamo per ricominciare è sempre qualcosa di dolorosissimo.
Ma, spesso, l'unica salvezza possibile

6



3.3.22

Recensione: "Piccolo Corpo"

 

Opera prima, magnifica, di una giovane regista friulana, Piccolo Corpo è il racconto di una madre, della sua bimba nata morta e di un lungo viaggio verso un santuario dove, si dice, può avvenire un miracolo.
Quel miracolo è un unico respiro, un unico respiro per ricevere un nome, un nome e un battesimo per non restare confinati per sempre in un limbo.
E il limbo, la condizione di mezzo, è il trait d'union di tutto il film, tra vita e morte, tra realismo e favola, tra passato e presente, tra mare e terra, tra identità sessuale.
Un film di rara grazia e mai retorico, anzi, forte come forte è la sua protagonista.
Ancora, l'ennesimo, grandissimo film italiano.

Presenti spoiler dopo seconda immagine.

Una spiaggia.
Un gruppo di donne canta una nenia che si perde nei tempi.
Una ragazza con un velo, il ventre gonfio pronto a dare una nuova vita.
C'è un piccolo rito di sangue, probabilmente propiziatorio.
La ragazza si disvela, in tutti i significati della parola, e si avvicina al mare.
Unisce il suo sangue all'acqua, recita un rito.
Siamo in un piano sequenza morbidissimo che quasi non te ne accorgi.
Siamo dietro di lei, poi davanti, poi dietro, in questa lenta passeggiata accompagnata da voci millenarie.
E' un incipit che basta masticare anche solo poco di cinema per capire che solo ad una cosa può portare, a qualcosa di tanto tanto bello.

Siamo in un'isola.
Le spiagge sono spoglie e non hanno una fine.
C'è già una sensazione che poi ci accompagnerà per tutto il resto del film, quella di essere in una terra di mezzo, in un tempo di mezzo (passato sì ma foss'anche un oggi crederemmo al film), in una narrazione di mezzo (a metà tra neorealismo e favola, come lo stupendo Re Granchio per capirsi).
Ma del resto il bagnasciuga dove staremo per tutta la prima parte del film è la terra di mezzo perfetta per antonomasia, una terra che ha finito d'esser mare ma ha ancora il mare dentro e una terra che ha finito d'esser terra perchè sta cominciando ad incontrare il mare.
E io non so quale sia il paradiso e quale l'inferno tra il mare e la terra ma questo bagnasciuga ricorda tanto un Limbo, una terra sospesa tra altre due.


Ed il Limbo è quella dimensione dove sarà costretta a stare per sempre la bimba nata morta di Agata, la ragazza disvelatasi poche righe fa e che adesso, tra pianti e sofferenze, vediamo distesa in un letto, dentro ad una capanna, con un fuoco che poco calore può dare quando nella stanza c'è il freddo della morte.
Questa bimba non ha nome, non ha nemmeno diritto ad averne uno chè, per averlo, bisogna almeno esalare un respiro, foss'anche uno soltanto.
Ma niente respiro, niente nome e, ahimè, niente battesimo.
Nessun Paradiso possibile quindi, nessun luogo aldilà di quest'isola dove Agata, la madre, un giorno potrà rivedere sua figlia.
Eppure, c'è forse una soluzione.
Si dice che lassù, in quelle montagne lontane da quest'isola, ci sia un santuario dove i bimbi nati morti tornano in vita giusto il tempo di fare un respiro, giusto il tempo di ricevere un nome.
Agata diseppellisce la poverissima bara dove è rinchiusa sua figlia, si prende quel Limbo di legno in spalla e parte per un viaggio in solitaria verso quel santuario, verso il Paradiso potremmo dire.

Piccolo Corpo è l'ennesimo gioiello di questi ultimi due anni di cinema italiano.
Al solito un cinema povero, ai confini spesso del naturalismo, legato a luoghi e tradizioni, un cinema che flirta quasi sempre col documentario ma con la voglia di raccontare storie, storie minime che diventano gigantesche, come fossero Miti greci.
E questa storia dei primi del Novecento (lo desumo dalla scena della lampadina), probabilmente legata a leggende del luogo (siamo in un Friuli restituitoci in maniera straordinaria) diventa così una storia universale e bellissima, apparentemente legata in maniera indissolubile alla religione ma, a ben pensarci, completamente e "solo" umana, un vero e proprio atto d'amore, disperato e bellissimo, che una madre fa per la propria figlia, l'unico atto d'amore possibile visto che tutti gli altri, quelli che avrebbe fatto se quest'ultima fosse in vita, le sono stati preclusi.
Gli altri non la capiscono, gli altri son quelli de "tanto ne farai un altro" ma solo Agata ha portato dentro al corpo quella vita, solo lei può amarla così tanto da capire che quella figlia non è un ruolo sociale - una figlia appunto - ma una vita unica ed insostituibile.
Tra l'altro - magari un giorno ci faccio una lista - è davvero particolare come in quest'ultimo anno il tema della maternità sia stato così presente (basti dire che Cannes e Venezia sono stati vinti da due film sul tema, ma ce ne sono tanti altri).
Ma è anche vero che sempre più donne (ah, la regista di Piccolo Corpo è una ragazza, Laura Samani, un viso dolce, buffo e sanamente folle, quasi da stand up comedian) riescono finalmente a fare film e il tema della maternità, di questa scelta al giorno d'oggi sempre più difficile e, di conseguenza, probabilmente più consapevole, diventa quasi automaticamente un'urgenza.

Buffo come questo film mi abbia riportato alla mente uno che nulla c'entra con Piccolo Corpo, Il Figlio di Saul.
Anche lì, però, si raccontava di un corpo morto, anche lì il nostro protagonista aveva come unico scopo nella vita dare serenità a quel corpo.
(già che ci sono in questa stramba e insensata trilogia su film che cercano di "salvare" corpi già morti aggiungerei il quasi sconosciuto e magnifico To Dust).
E' vero, tanto uno vive di spazi apertissimi e sguardo che va all'infinito - Piccolo Corpo - tanto l'altro, invece, già esteticamente - con quelle sfocature ai lati - ci dava un'atmosfera apnoica.
Senza che vada ad elencare altre macrodifferenze tra i due film (a che pro? sono completamente diversi) mi ha emozionato però questo scheletro comune e questa capacità di rendere queste loro "missioni", questa loro determinazione a salvare quei corpi già morti, qualcosa di universale e di bellissimo.
In ogni caso torniamo ad Agata, l'avevamo lasciata pronta a partire.
Lo farà con una zattera, zattera con la quale lascerà - a sensazione per la prima volta - l'isola in cui è nata.

2.3.22

Recensione: "Animatrix" - Anime e Core, la grande passione per l'animazione giapponese - 14 - di Enrico G-


 Dopo tantissimo tempo (e stavolta non è colpa mia!) torna la rubrica di Enrico sugli anime, una delle più specialistiche del blog.
Vi lascio alle sue righe di presentazione e poi alla, sempre puntualissima, recensione, probabilmente una delle più complete e competenti che troverete in rete su Animatrix

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Orologio indietro, primi anni 2000: un bambino guarda Shrek. In una scena divertentissima, c’è un Robin Hood molto più scemo di quel volpone già visto in un vecchio film della Disney. E poi c’è Fiona, la principessa, che salta e tira un calcio volante, ma tutto è strano, rallentato, l’immagine gira in tondo. Piccolo ricordo per inquadrare quel fenomeno Matrix, famigerato persino tra i bambini che non potevano vederlo perché un po’ troppo violento. Molto meno risaputo, e potenzialmente più temuto dai genitori, che dal 2003 Matrix esistesse anche a cartoni animati, tra l’altro quelli giapponesi da cui non sapevi mai cosa aspettarti.

Rispolveriamo il sorprendentemente misconosciuto Animatrix, un film antologia, nove corti, quattro studi d’animazione, sette registi. Tra quest’ultimi, i migliori esponenti del mondo anime, del periodo e non solo.

Spoiler a partire dai singoli episodi. Disponibile a pagamento in streaming (Chili, Apple Tv, Prime) o nel dvd della Warner Bros (consiglio il doppiaggio italiano, nettamente superiore alla versione originale inglese).


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Immagino che tutti sappiano di cosa sto parlando quando nomino Matrix, ma repetita iuvant, sarò buono: la Matrice è un mondo virtuale creato da intelligenze artificiali, dove gli umani sono prigionieri inconsapevoli. La ribellione delle macchine ha portato alla schiavitù dei vecchi padroni, che in una Terra ormai distrutta dalla guerra perduta sono ridotti a batterie neurologiche. Non mi addentro sulla credibilità della cosa, parliamo di fantascienza e un minimo di sospensione dell’incredulità è d’obbligo: personalmente capisco il fascino di questa idea, una sorta di Caverna di platonica memoria, con tuttavia l’aspetto inequivocabile del mondo filmico anni ’90. L’azione con sperimentazioni in cgi, la critica all’alienazione del mondo lavorativo, i cappottoni di pelle nera rubati a Blade che oggi fanno sorridere, non manca niente.

Matrix (1999) è stato preannunciato dal suo fratellone semidimenticato, Bound (1996), film d’esordio dei fratelli (oggi sorelle) Wachowski, che pur essendo un thriller tiene in nuce svariati elementi del futuro cult fantascientifico, come lo stile, una certa visione della sessualità e pure la viscida performance di Joe Pantoliano. Ma appunto, è solo col successivo che i Wachowski centrano un successo globale, attorno al quale nascono videogiochi, spin-off, due sequel che portino a compimento l’immancabile trilogia. (Come dite, esiste anche un quarto Matrix? Mah, ho i miei dubbi, e poi anche s’esistesse rimarrebbe un’idea bislacca e a dir poco inutile, non trovate?)

Trattare i live action non è il mio campo, almeno in questo spazio, ma per introdurre ciò che davvero m’interessa, spendiamo due parole sulla trilogia: essenzialmente ne penso ciò che pensano molti. Il primo film è un meritato cult, che pur saccheggiando a destra e a manca (ci torno tra un attimo) riuscì a far confluire tutte queste ispirazioni in una forma e contenuto originale, in grado di intercettare perfettamente lo zeitgeist della sua epoca. A mio parere è stato frutto di un delicato equilibrio, da una parte i fondi e le esigenze commerciali di una major come la Warner Bros, rappresentata dal produttore Joel Silver, santo patrono del miglior action hollywoodiano con titoli come Die Hard o Arma Letale; dall’altra, due registi ambiziosi con l’idea giusta, fattisi portatori della novità venuta da Hong Kong, sia nelle istanze dei film d’azione orientali che nella persona di Yuen Woo-Ping, coreografo leggendario. Equilibrio, sempre a mio parere, totalmente spezzato nei sequel Reloaded e Revolution. Dopo il successo inaspettato del capostipite la Warner deve aver capito che finché c’erano Neo, Trinity e Morpheus avrebbero incassato lo stesso, quindi hanno lasciato carta bianca ai creatori, che in una sbornia di cose da dire hanno creato due baracconi confusi, pretenziosi e inondati di effetti invecchiati malissimo.

Ma se c’è almeno un elemento di redenzione nei sequel, sta che nel mentre della loro lavorazione si stava parallelamente creando per promuoverli un enorme universo cross-mediale. Consci delle influenze che la loro creatura doveva agli anime, in particolare ai lavori di Mamoru Oshii (Ghost in the Shell, l’Uovo dell’Angelo), i Wachowski hanno pensato bene di chiedere ad alcuni dei più grandi animatori dal Giappone di creare alcuni corti ambientati nel mondo di Matrix, a formare uno spin-off, ed è quello di cui parliamo oggi: Animatrix.


 L’ultimo volo dell’Osiris


Importante premessa, parlando in ordine dei corti che compongono l’antologia: non esistono segmenti veramente brutti, solo più o meno belli, o più o meno inutili. Aiuta molto la godibilità dell’opera che siano posti in una specie di spirale ascendente, dove più si va avanti e più la qualità s’impenna. Quindi capite bene che L’ultimo volo dell’Osiris sia ben lontano dall’essere un inizio esaltante. Unico americano del gruppo, e scritto dai Wachowski, è probabilmente il più vicino allo spirito dei sequel (purtroppo). Non a caso la storia si propone di chiarire un’omissione della serie cinematografica (capito Rogue One? Sei già superato!), ovvero come abbiano fatto i ribelli a sapere in anticipo che le macchine progettavano di colpire la città. Una navicella di Zion, appunto Osiris, la cui squadra sta facendo una ricognizione della superficie, scopre casualmente come le macchine intendano usare una gigantesca trivella e… basta. Davvero, si può a malapena parlare di pretesto, che si ricollega giusto a quella scena di Reloaded dove Niobe fa rapporto sull’ultima trasmissione. Più che la storia interessa la tecnica: questo è l’unico corto interamente girato in computer grafica, avanguardistica per l’epoca (anche se esistevano già simili esperimenti ben più ambiziosi, come il film di Final Fantasy del 2001, peraltro sempre animato dalla Square Company). E va detto, se i volti e i movimenti sono ancora alquanto espressivi certo non è stato uno spreco di tempo e soldi. Purtroppo rimane un mero esercizio, che preferisce ad un racconto interessante le scene d’azione, come quella iniziale famosissima dove i due spadaccini si tagliano poco a poco i vestiti di dosso, per pure esigenze di fanservice. Dulcis in fundo, non smetterò mai di ripeterlo: l’animazione in cgi invecchia. E anche questa, vent’anni dopo appare più “costosa” che “bella”. Vedremo di meglio più avanti, sia come tecnica che narrativa.

Il Secondo Rinascimento parte I e II


Ecco il corto di punta dell’antologia, il più lungo del gruppo (infatti è diviso in due) e probabilmente anche il più ambizioso, nel suo voler dare un retroscena alla guerra delle macchine, a come tutto è iniziato. Si dice fosse questo il vero seguito di Matrix ambito dai Wachowski, cestinato come lungometraggio poiché non avrebbe incluso, per ovvie ragioni, il cast del ’99. Informazione da prendere con le pinze, poiché non ho trovato conferme a riguardo. I fatti sono che quell’idea, in qualunque forma fosse stata concepita, ora esiste come corto animato, diretto da Mahiro Maeda, forse meglio conosciuto per aver animato l’infanzia di O-Ren Ishii, nel volume 1 di Kill Bill. E lo dico subito, è un tipo di tratto che non mi ha mai fatto impazzire, tantomeno nel film di Tarantino; però Maeda ha indubbiamente occhio per le immagini efficaci, di quelle che non ti si levano più dalla testa, e si sposa benissimo con le infinite possibilità offerte da un prequel di Matrix. Oddio infinite, bisogna sempre legarsi alla mitologia della saga americana, con i classici buchi logici alla Wachowski. Per esempio, non si capisce minimamente come le macchine abbiano improvvisamente sviluppato una coscienza propria, o come siano finite ad insediarsi in Arabia, immagino con grande gioia dei sauditi. Che poi lo sa sta gente che la “culla della civiltà”, come viene detto, non è la penisola arabica ma la Mesopotamia?

La storia è raccontata dagli archivi parlanti (?) di Zion – anche qui, nel film originale non diceva Morpheus come gli umani avessero solo “brandelli d’informazione”? -, e si compone di una sorta di reportage, scelta assolutamente vincente nonostante significhi non avere personaggi protagonisti da conoscere o con cui empatizzare. È semplicemente il racconto di un’autodistruzione, attraverso immagini shock che ricordano fin troppo vere proteste, violenze di strada e conflitti armati. La parte uno regala ottimi momenti, come la mela che simbolicamente si decompone in un cervello, o i robot che trainano con le funi enormi blocchi, iconografia che rimanda alla nostra percezione di come furono costruite le Piramidi di Giza; ma è nella seconda il meglio, la bandiera in fiamme (che fa il verso alla foto di quella americana issata su Iwo Jima), la donna piangente nel cerchio di fuoco (che sembra la cacciata di Eva dal paradiso terrestre) e chissà quanto altro con riferimenti che non ho colto. E poi l’immagine più bella e sinistra di tutte, il generale che diventa uno scheletro che applaude, inquietante premonizione di un’umanità firmataria della propria stessa condanna a morte: infatti quella sequenza emozionerà chi conosce bene il Matrix originale, poiché qui, di fronte allo strapotere delle macchine, viene deciso di togliere loro la principale fonte d’energia, esattamente come dice Morpheus a Neo: “ma sappiamo di essere stati noi, ad oscurare il Sole…” Così viene fatto, ma in una macabra ironia la strada presa per evitare un problema è proprio quella che vi conduce. Gli ultimi minuti de Il Secondo Rinascimento sono infarciti di body horror, che si sposta dai campi di battaglia ai laboratori dove le macchine sperimentano e seviziano gli umani, scoprendo la loro nuova fonte di energia. Interessante come, in questa transizione, si passi da una moltitudine eterogenea di robot senzienti (design immensamente creativi a proposito, specie il cavaliere meccanico che suona la tromba di guerra), alle oscure figure di sentinelle e raccoglitori, tutte uguali, omologate, come se la società robotica stesse percorrendo lo stesso cammino rovinoso degli ex padroni. Retrocesse alla loro disumanità originaria, si chiude il cerchio della storia, le macchine sono pronte per la loro creazione suprema, la Matrice.


Kid’s Story


Chi di voi, guardando Matrix Reloaded, non si è mai chiesto “ma perché non ci dicono di più su quel ragazzino insopportabile che ripete a ruota come Neo l’abbia salvato?” Esatto, nessuno. Ma visto che l’hanno fatto, tanto valeva chiamare qualcuno di capace per tirarci fuori qualcosa di interessante. Entra in campo Shinichiro Watanabe, regista che definire di culto è riduttivo: Samurai Champloo, ma soprattutto Cowboy Bebop sono serie con numeri impressionanti di appassionati (di livello “ci stanno facendo i remake con attori veri per Netflix” impressionanti). Ovviamente non avendole mai viste non posso giudicare, e fatico quindi a dare un giudizio complessivo sul regista di Kyoto. Una delle sue serie più recenti, Terror in resonance, la vidi e non mi piacque affatto, specie nella scrittura del personaggio femminile principale, tremendamente passivo, ma avevo sedici anni e potrei non averci capito niente. Apprezzai molto invece Black Out 2022, un stiloso corto di 15 minuti che, come potete intuire dal nome, racconta l’avvenimento più volte menzionato in Blade Runner 2049, quando Ryan Gosling investiga alla Wallace Corporation (se siete interessati si trova su youtube o nei dvd del film di Villeneuve). Curiosamente, quest’ultimo lavoro ha le stesse caratteristiche di Kid’s Story: prodotto dalla Warner, fornisce i retroscena di un evento minore, avvenuto nel sequel di un famoso cult di fantascienza, a sua volta debitore dell’estetica nipponica.

Dietrologie a parte, veniamo al sodo: com’è? Sperimentale, tanto per cominciare. Il tratto è spesso, nervoso, poco dettagliato come quello di un storyboard non totalmente finito. Nella forma di corto la tecnica d’animazione può essere decisiva, quasi quanto la storia, visto che, senza nulla togliere agli attori in carne ed ossa, loro appartengono comunque alla nostra realtà. I disegni no, i disegni possono crearne una nuova semplicemente esistendo, e così succede qui: le palesi imperfezioni sono volute, rappresentano il punto di vista del ragazzo, il modo in cui vede un mondo che non gli sembra vero, e noi sappiamo che ha ragione, è prigioniero di Matrix. Tenterà la fuga, in un inseguimento a scuola che è senza dubbio la parte migliore, una sequenza concitata e adrenalinica, il mondo che si deforma, rallenta, accelera, rimbomba, e si conclude col più classico “salto della fede”.

Ecco, forse è questo il limite dell’opera, una buona forma intrappolata nella sceneggiatura dei creatori originali di Matrix, ottima nel suggerire, molto meno nel dare un senso, specie sul finale dove di fatto il ragazzo compie un suicidio e te la buttano in “ah, l’auto-materializzazione è possibile? Non lo sapevo!” Come si è liberato, con la pura volontà? Il suo corpo nel mondo virtuale si è scisso da quello vero e così non è morto? Non ci è dato sapere. Watanabe riproverà più avanti; l’ingombrante mano dei Wachowski invece si ferma a Kid’s Story, l’ultima delle otto storie scritta da loro: ora si comincia a fare sul serio.


 Program


Sesso, dolore, violenza e morte: in una parola, il cinema di Yoshiaki Kawajiri, il mio regista preferito della storia dell’animazione, che qui firma ovviamente il corto più bello dell’antologia. Chi conosce Ninja Scroll, Vampire Hunter D – Bloodlust o la Trilogia delle città maledette può riconoscere istantaneamente il suo tocco anche qui. Certo, c’è l’obbligato tributo ad un mondo d’appartenenza già delineato da altri, ma anche questo viene filtrato da una visione. Basta pensare alla rinnovazione del classico effetto “a scorrimento” su sfondo bianco, che nel Matrix originale portava dall’orizzonte al primo piano scaffali pieni d’armi; qui, un sorriso della protagonista e siamo tra centinaia di torii, i rossi portali sacri dei santuari giapponesi (probabile citazione al percorso dei 1000 torii di Fushimi Inari-taisha, in Kyoto). Il Giappone feudale sembra essere il programma d’allenamento preferito di Cis, che in tenuta da cavallerizza si destreggia tra frecce infuocate e samurai virtuali, in solo la prima delle sequenze d’azione da mozzare il fiato. Almeno finché non arriva un cavaliere mascherato, il suo amante, Duo.