31.10.10

Recensione: "Reincarnation"


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Niente male quest' horror giapponese di Shimizu, il creatore della saga The Grudge poi portata dallo stesso regista negli Stati Uniti.
Come tutte le altre pellicole del Japan Horror certo non eccelle per originalità, ma ha l'indubbio pregio di affrontare un tema delicato come quello della reincarnazione in una maniera interessante e non banale.
Altrettanto interessante è anche l'esperimento metacinematografico di raccontare un film nel film, espediente di sceneggiatura senz'altro non nuovo ma che, se usato con intelligenza, sempre accattivante.
Un regista decide di girare un film ispirato ad una strage avvenuta 35 anni prima in un hotel, strage che vide ben 11 vittime pugnalate a morte da un professore impazzito, interessato in studi sulla reincarnazione e sulla persistenza dei ricordi post mortem.
Reincarnation è un film abbastanza complesso e confusionario nel quale sono più di uno i passaggi non sufficientemente chiari o completamente gratuiti. E' indubbia però un'ottima atmosfera e la capacità di attirare l'attenzione dello spettatore man mano che si procede. 



C'è una specie di gioco dei ruoli che ci porta a cercar di capire chi è il reincarnato di chi e in questo senso il colpo di scena finale senz'altro non delude. Se vogliamo il film raggiunge anche una certa profondità perchè è forte il richiamo con la memoria, con il ricordo delle vittime innocenti e col desiderio di quest'ultime di avere in qualche modo la propria vendetta, anche se raggiunta attraverso l'uso di nuovi "corpi" (a questo proposito non si capisce affatto cosa avvenga alle persone reincarnate, muoiono nella vita reale o no?). Di converso l' "anima" dell'assassino, anch'essa catapultata in un altro corpo, capirà che è impossibile liberarsi del proprio senso di colpa.
Gli espedienti orrorifici sono sempre i soliti: bambole, bambine pallide come carta, apparizioni improvvise, atmosfere da ghost story che nello specifico richiamano in maniera quasi "ufficiale" l'albergo di Shining, oltre alla solita vena malinconica e lievemente poetica tipica degli horror orientali. Un film che raccontato meglio, strutturato meglio, spiegato meglio, non avrebbe niente da invidiare ai suoi parenti illustri The Ring, The Eye e compagnia bella. Visione consigliata comunque.

( voto 7 )

29.10.10

Recensione: "Reign over me"




Ci sono pellicole in cui la morte di una persona cara viene superata dopo appena un cambio di inquadratura. Questo per esempio è il caso della maggior parte degli Horror perlopiù assolutamente privi del concetto di dolore da perdita. Ci sono invece altri film completamente incentrati sull'elaborazione del lutto che cercano di analizzare, raccontare e capire quel tremendo periodo susseguente la scomparsa di qualcuno cui volevamo veramente bene; per citare 3 casi (tra i molti) assolutamente diversi l'uno dall'altro, La Stanza del Figlio di Moretti, Antichrist di Von Trier e, appunto, Reign Over Me.
Confesso di approcciarmi sempre con i piedi di piombo alle pellicole che raccontano l' 11 settembre o il post 11 settembre perchè il rischio di strumentalizzazione atto ad esaltare eroismo, patriottismo o innocentismo americano è sempre dietro l'angolo. Reign Over Me invece racconta sì la vita di un "vedovo" di quel giorno tremendo, ma in realtà la tragedia che l'ha colpito (morte della moglie e di TRE figlie) poteva essere avvenuta in un comunissimo incidente stradale, cambiamento che ai fini della storia sarebbe stato irrilevante .

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E' indubbio che per un soggetto del genere risulta decisiva la scelta dell'attore. Quella del "comico" Adam Sandler si rivela straordinaria, intensa e vuota allo stesso tempo, caratterizzata da 2 occhi spenti e un comportamento apatico intervallato a improvvise reazioni emotive. Charlie, questo il nome del personaggio, ha completamente rimosso la tragedia che l'ha colpito, o meglio ha messo da parte quei ricordi, sia metaforicamente (li tiene in un piccolo angolo di testa cui nessuno deve accedere) che fisicamente (in casa ha tolto tutto quello che poteva legarlo alla famiglia). Passa la sua vita girando per le strade in un monopattino a motore,giocando a casa a un videogame, Shadow of the Colossus, e restaurando continuamente la cucina, più e più volte. A questo proposito possiamo vedere la continua lotta con i colossi del videogame come una battaglia infinita e difficilissima contro i propri ricordi, la sua tragedia, una cosa troppo più grande di lui che non riesce a superare, a sconfiggere. Il restauro della cucina, invece, è il tentativo di eliminare il suo senso di colpa visto che era stato questo (il restauro) l'argomento dell'ultima discussione avvenuta per telefono con la moglie, appena prima che questa e le figlie si imbarcassero in uno degli aerei maledetti.
Grazie al decisivo aiuto di un suo vecchio compagno di università, Charlie troverà finalmente qualcuno disposto ad aiutarlo, anche se in realtà è proprio lui il primo a non voler aiutare sè stesso.
Ritengo decisiva, al fine di capire quanto Charlie abbia accantonato il ricordo della tragedia, la scena in cui muore il babbo di Alan, l'amico interpretato da un sempre bravo Don Cheadle. Charlie sembra non comprendere o comunque non dare importanza affatto a quella morte (continua a ripetere all'amico "andiamo al cinese a mangiare?") come se la morte stessa sia diventata per lui un concetto che non esiste, qualcosa di indefinito, una cosa completamente fuori da sè e dalla propria esistenza, un fatto inconcepibile. Serve qualcosa a Charlie, serve una scossa, qualcosa di reale e tangibile che lo scuota e gli riporti violentemente in testa quello che gli è successo, passaggio forse decisivo affinchè elabori il lutto. 

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E così, nella magnifica, terribile, crudele ma catartica scena del tribunale, Charlie si trova di fronte un avvocatello senza scrupoli che gli schiaffa davanti le foto della sua famiglia. Il ragazzo (Sandler qui è strepitoso) non riesce a reggere il dolore, esce dall'aula, ma qualcosa in lui è cambiato, la guarigione, seppur attraverso un modo barbaro, è avvenuta. E dietro l'angolo, oltre all'amicizia di Alan (vera, senza compromessi o niente da guadagnare) c'è forse anche una nuova storia d'amore (di cui ci viene mostrata solo la genesi, complimenti al regista).
Un film toccante, umile, composto, umano. Un film che vuole raccontare emozionando e non emozionare raccontando. Nessuna tragedia può essere superata ma la vita, in qualche modo, must go on.

( voto 8 )

27.10.10

Recensione: "The Collector"



(SPOILEROSO)


Non male questo The Collector ennesimo figlio,(o forse a questo punto più giusto definirlo nipote) dell'ondata di torture movie (ri)lanciata da Saw. Come tutti gli altri epigoni, anche The Collector presenta tutte le assurdità, incongruenze, esagerazioni che in film di tal genere solitamente traboccano, ma ha il grande pregio di possedere un minimo di originalità e la sensazione di non prendersi troppo sul serio.
Parlavo di minima originalità. Beh, fare un film in cui un ladro penetra in una casa e scopre di non essere quella notte l'unico "ospite" inatteso della famiglia da derubare è perlomeno apprezzabile. Lui stesso si ritroverà così vittima del maniaco/sadico/assassino che ha già preso in ostaggio (quasi) tutti i componenti della suddetta famiglia. Il villain ama seviziare ed uccidere tutti meno uno, lascia infatti un superstite per volta per arricchire la sua collezione (titolo). In realtà, e qui l'eco sawiano è grande, il simpatico maniaco si diverte anche a disseminare la casa "conquistata" di tutti i tranelli possibili in modo tale che
A- chi entra non possa più uscire
B- qualcuno muoia anche da solo senza il suo intervento "diretto"
Poi come faccia a preparare tutte quelle incredibili trappole in così poco tempo non si sa (già mi sembra assurdo soltanto pensarle) ma Il Collezionista sa il fatto suo, è cattivo e senz'altro non starà lì a concedervi spiegazioni.



Film sufficientemente malato, senza però quel malsano fastidio che alcune pellicole ( vedi Murder set pieces) possono provocare, The Collector presenta una fotografia appena sufficiente, una regia che non fa voli pindarici e delle interpretazioni accettabili. A questo proposito spero che qualcuno abbia già notato come il protagonista (il ladro) sia assolutamente IDENTICO a Sean Penn tanto da poterne fare la controfigura. C'è anche il tentativo di buttar dentro alcune tematiche scottanti, come il senso di colpa, l'amore filiale, il miglioramento di sè, ma in realtà trattasi puramente di film di genere che (appunto come Saw) cerca di giustificare al massimo quello che avviene. L'atmosfera c'è, non si prova mai un senso di sana paura, ma la voglia di vedere quello che succede difficilmente abbandona. Per l'ennesima volta il poliziotto venuto in soccorso fa la fine del sorcio e sempre per l'ennesima volta il finale lascia una porticina, anzi un portone aperto. Il presunto colpo di scena su chi fosse l'assassino (colpo di scena che comunque al fine della storia è completamente irrilevante) per una volta l'avevo capito dopo 13 minuti ma non ho nessun compagno di merende a testimoniarlo (chissà che danno...).
Alla fine della fiera se non facciamo troppo i pulciosi su alcuni aspetti, The Collector è un film che si può tranquillamente vedere, a mio parere sopra la media del genere. Se volete guadagnar soldi andate pure a scommettere sul fatto che verrà realizzato un sequel. Anche se la quota fosse soltanto 2/1 siete sicuri di raddoppiare la cifra che avete speso.

( voto 6,5 )

25.10.10

Recensione: "Cella 211"


Cella 211 è uno splendido film carcerario, forte, coraggioso, crudele, carico di denunce politiche, etiche e morali. Questo all'apparenza. A mio parere in realtà il film è ancor più profondo e racconta nella tremenda cornice del carcere una semplice storia di Destino e di Anima.
Juan Oliver è una guardia carceraria al suo primo giorno di lavoro. E' impossibile proseguire nella trama se non ci si ferma un attimo a parlare del destino.
Juan Oliver non doveva andar oggi nel carcere, ma domani.
Cade qualcosa dal soffitto. Proprio Juan viene colpito.
Non si decide come prassi di portarlo subito in infermeria, ma lo si fa sdraiare un momento in una cella vuota.
Cella appena svuotata, l'unica libera del braccio.
Nel carcere scoppia una rivolta.
Destino.




5 incredibili coincidenze che cambieranno per sempre la vita del ragazzo. Se solo una, soltanto una, non si fosse verificata, Juan non si sarebbe trovato coinvolto.
E' impossibile tralasciare o non dare importanza su quanto il caso incida in Cella 211. Esso è sempre beffardo, crudele (la moglie è l' UNICA uccisa nei tafferugli; tra l'altro unica scena veramente un pò troppo forzata e poco verosimile), avverso al protagonista. Il destino ( e non tanto le istituzioni ) in 24 ore distrugge per sempre la vita di una giovane famiglia. Se non avessimo la spietata e durissima cornice del carcere, penseremmo quasi di trovarsi in un tragico racconto di Kafka o Pirandello.
Parlavo di Anima. Juan è un bravissimo ragazzo, anche troppo timido, "morbido" e impaurito per il lavoro che fa. Gli incredibili avvenimenti che gli accadranno cambieranno completamente il suo carattere; in appena una giornata tutte le sue convinzioni, tutti i suoi principi, tutte le sue certezze verranno stravolte. Se davvero il mondo "fuori" e i suoi accadimenti possono in qualche modo modificare la nostra anima (tanto ad esempio da farci diventare assassini), Juan ne è l'esempio lampante. Lo schema è semplice: Juan passa dalla parte dei "buoni" a quella dei cattivi, ma solo per salvare la pelle, fingendo. Più passa il tempo e più Juan si identificherà con i nuovi compagni diventando praticamente uno di loro. In qualsiasi modo fosse andato il finale, Juan non sarebbe stato più lo stesso e non solo per la perdita della famiglia o il rischio di carcere, ma per un cambiamento radicale "dentro" di sè. Cella 211 ci racconta come ognuno di noi può diventare in poche ore un altro Uomo, nè migliore nè peggiore, semplicemente un altro.
Ci troviamo di fronte a un film coraggiosissimo perchè sembra prendere completamente le parti dei carcerati, alla fine veri eroi della pellicola e unici depositari di principi etici e morali, solidarietà e "trasparenza" . In realtà non dobbiamo dimenticarci di avere a che fare (nella maggioranza dei casi) con criminali che hanno commesso crimini ben più gravi di quelli commessi dalle istituzioni tanto condannati dal film, e in questo a mio parere la pellicola pecca un pò di strumentalizzazione e superficialità. Il personaggio di Malamadre, il "capo" dei carcerati, è l'emblema di tutto. Il film ci porta pian piano a una completa empatia con lui e Juan, ma è bene ricordare che sempre di pluriomicida stiamo parlando. In poche parole sarebbe meglio non cadere nel tranello del ribaltamento tra buoni e cattivi, ma al limite considerare quanto di sporco e marcio ci sia nei primi ( il funzionario Urrutia l'esempio per tutti) e quanti valori si possano comunque riscontrare nei secondi.
Regia e fotografia di discreta fattura, recitazione ottima. Più che altro la forza di Cella 211 è nella semplicissima idea di sceneggiatura, svolta poi in maniera esemplare. Delle scene apparentemente insignificanti acquistano solo col tempo valore, tipica caratteristica degli ottimi script. 

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A questo proposito la morte di un carcerato è l'espediente usato sia per far "allertare" l' ETA, sia per far giungere in carcere tutti i parenti dei carcerati, timorosi che il detenuto ucciso sia un loro caro. E così la scena del pestaggio di un carcerato da parte di Urrutia sarà decisiva per giustificare quella in cui il funzionario picchierà a morte la moglie di Juan. Piccole accortezze che fanno grande un film. Il finale a dir la verità non mi ha convinto granchè con Malamadre ferito che lancia uno sguardo al "colombiano" traditore. Sa di vicenda non conclusa, si poteva evitare. In più fa perdere un pò di drammaticità al film sia perchè la morte di entrambi protagonisti era in qualche senso più "giusta", più nelle corde del film, sia perchè la fine di Juan DOVEVA essere punto conclusivo della vicenda dato che il film racconta la sua parabola umana.
Dietro Governo, ETA, denuncia delle carceri e delle istituzioni, Cella 211 è in realtà un film profondamente umano e la vicenda di Juan paradigma di come a volte la vita, improvvisamente, ci si sgretoli tra le dita. E la cella che dà titolo al film simboleggia forse quel luogo oscuro dentro di noi che teniamo sempre serrato, nascosto, ma che una volta entrati ci cambierà per sempre.

( voto 8 )

23.10.10

Recensione Fear Itself: 3 Episodi - Le Serie tv de Il Buio in Sala

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IL SUONO DELLA MORTE: VOTO 6

Mi imbatto casualmente per la prima volta in un Fear Itself, e a quanto pare anche tra i migliori della serie. Davvero tanta la potenzialità, ma o non completamente espressa o espressa in maniera sbagliata. I primi 20 minuti sono straordinari, ambientazione perfetta (una quasi deserta stazione di polizia) facce giuste, storia giusta (un orribile serial killer, divoratore delle sue vittime, da controllare in cella) e soprattutto tensione a mille. Poi c'è il solito scalino che molti horror non sanno superare, quello della manifestazione susseguente all'attesa, del momento cioè in cui al clima psicologicamente importantissimo della suspense( etimologicamente sospensione, attesa) si sostituisce quello dei fatti, delle azioni, dell'horror "visivo". E qui "il suono della morte" diventa quasi un baraccone. Addirittura deprimente e disastroso il finale in cui si susseguono in pochi minuti diversi errori di sceneggiatura.

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- La ragazza viene ferita all'orecchio (forse addirittura le viene amputato) ma nella scena successiva non ha niente.
- La stessa ragazza assume del veleno per topi affinchè una volta che fosse stata morsa dal mostro glielo avesse trasmesso (piano machiavellico). Il piano riesce e il serial killer ha in 5 secondi tremende convulsioni che lo portano alla morte. E lei che l'ha preso 5 minuti prima, perdipiù in maniera diretta (per bocca) stava bene?
- Una creatura del genere (il mostro) che prende la forza e le sembianze di tutti, soprannaturale, mi muore così, come un addetto delle pulizie?
Insomma, Gordon crea un'ottima atmosfera ma non riesce a tradurla, o meglio "proseguirla" con le immagini, i fatti. Peccato. Ottima la protagonista, un pò troppo macchiette gli altri 2 poliziotti.

P.S: titolo italiano incommentabile, fuorviante e senza senso.

LA COMUNITA': VOTO 6

Come detto da altri il difetto più grande di quest'episodio è nella buona idea di base svolta troppo frettolosamente. Eppure il mediometraggio prende spunto da moltissimi capolavori, quasi fondendoli in un tutt'uno. C'è la comunità d'elite divisa dal resto del mondo come nel magnifico La Zona; c'è un progetto portato avanti da tale comunità che ricorda quello Dharma di Lost; c'è (lampante) il riferimento a Truman Show con la vita controllata da telecamere, l'impossibilità di andar via e addirittura 2 sequenze quasi identiche: il disturbatore che vorrebbe dire la verità e avvertire le ignare vittime e la ricerca da parte di tutti del protagonista scappato;c'è un alone di The Village; c'è, infine, un accenno al quasi inarrivabile Rosemary Baby nell'ambiguità dei vicini, nell'importante attesa del parto. 

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E' questo uno dei punti che meno mi convince; non so se sia una mia mancanza ma non mi sembra che sia stato sviluppato il perchè fosse così importante che i ragazzi avessero un bambino, nè si capisce cosa rappresentino i bambini in generale: la prosecuzione della comunità? Sono moltissime altre le incongruenze o i veri e propri errori che potrei elencare, ma per stavolta mi fermo qua. Rimane un episodio girato abbastanza bene pervaso da una discreta atmosfera di pazzia latente. Anche i comportamenti dei protagonisti( vera cartina di tornasole di molti horror) mi sembrano comunque verosimili nell'inverosimiglianza dell'intera vicenda.

UN MOSTRO NASCOSTO: VOTO 6

Sufficienza molto stiracchiata per un episodio che ha secondo me un solo merito: l'originalità nel seguire quasi perfettamente le 3 unità aristoteliche. Unità di Tempo (intera vicenda entro 12,24 ore) rispettata in pieno dato che tutto l'episodio si svolge in appena 3 ore; Unità d' Azione(no trame secondarie o parallele) anch'essa rispettata dato che l'intero film racconta del solo tentativo del protagonista di procurarsi dei soldi da un antiquario; Unità di Luogo ( tutta la vicenda in un medesimo spazio) soltanto sfiorata poichè il 90% dell' episodio si svolge nel negozio dell' antiquario ma ha un prologo e un epilogo ( quasi da cornice decameroniana) nella casa del protagonista. Per il resto si affronta il solito tema della doppia personalità, ma in un modo molto scolastico e scontato con il colpo di scena (l'arrivo del doppio) dopo soltanto un quarto d'ora di visione e molti passaggi di sceneggiatura, specie la faccenda dello specchio, appena accennati o buttati lì quasi a caso. L'atmosfera soprattutto per merito del luogo c'è e l'episodio si lascia guardare. Non ammirare però.

21.10.10

Recensione: "The Darkling" - Gli Abomini di serie Z - 5 -


In confronto alla fatica nel vedere The Darkling gli ultimi 200 metri di Dorando Pietri paiono come ruttare con una Coca Cola.

In confronto Sisifo non trasportava in cima al monte un masso (che poi ricadeva sempre) ma tagliava con un grissino il tonno Rio Mare.

La fatica. La fatica che si prova per arrivare in fondo a The Darkling è qualcosa di inimmaginabile. Un film senza alcun senso, penoso in tutti i suoi aspetti, inizialmente addirittura della durata di 2 ore!!!!! poi tagliati fortunatamente a 85' in dvd.
Non scherzo nell'affermare che è impossibile salvare anche un solo minutino di questo scempio.
Purtroppo la pellicola non fa neanche ridere come i (a questo punto compianti) vari SmileIl Bosco 1 e compagnia bella.
Murray Abraham... Cioè, questo ha vinto l'Oscar come miglior attore con Amadeus...
Forse per colpa dell'imbarazzante doppiaggio il suo personaggio risulta uno dei più insopportabili della Storia del Cinema.
Vi giuro che di non riuscire nemmeno a scrivere del film e della sua trama, sempre che ne abbia una, dato che durante la visione mi sono chiesto almeno 30 volte "ma che cosa vuole dire?" " Per Dio, ma come è possibile?" " Ma che senso ha?" per riportare solo il riportabile e non offese e maledizioni varie.

alla rinfusa:

- Morte della moglie che sale nel podio delle dipartite più assurde di sempre.

- Strade normali che improvvisamente diventano, più di una volta, piazzone da stuntman.

- Recitazione teatrale, tipo dialoghi mentre senza alcun motivo si gira intorno ad un automobile.

- Passaggi di sceneggiatura senza alcun nesso logico o causale, casuale sì però.

- Il Darkling, il bambino (che probabilmente dovrebbe rappresentare il Demonio) è un orrido bambolotto (vedi foto, nella quale peraltro  per un effetto di chiaroscuro sembra avere una zinna che in realtà non ha) chiuso dentro una gabbia. Parla, parla, parla, ma non si sa cosa dica.

- Finale che non ha ALCUN senso nè strettamente filmico (non si sa cosa succeda per immagini) nè di significato.

Non riesco neanche a trovar scene così comiche, soltanto chi lo guarderà potrà capire la pochezza e assurdità del tutto.
Non riesco ad avere ispirazione, basta.
Non voglio neanche sprecare più polpastrelli, chiudo.

( voto 1,5)

19.10.10

Recensione: "Linha de passe"


Se al mondo esiste un cinema che sa raccontar storie difficili, questo è il cinema sudamericano. Lontano dalla spettacolarità degli "americani" di sopra, dalla varietà di genere europeo e da un certa filosofia orientale, il cinema del Sud America racconta spessissimo la drammaticità della propria condizione, affidandosi nella maggior parte dei casi a piccole storie, simbolo però di un degrado nazionale ormai difficilmente arginabile.
Linha de Passe, dal regista del bellissimo Central do Brasil,Walter Salles, è l'ennesimo piccolo gioiellino a seguire questo filone che un tempo avremmo chiamato neorealista.
Linha de Passe è il Brasile, in tutte le sue più importanti componenti, ognuna di queste letteralmente incarnata in ciascuno dei 4 fratelli protagonisti.
Dario è il Calcio, Dinho la Religione, Denis la Malavita, Reginaldo la Famiglia. Il Brasile appunto. Tutte le storie però hanno un denominatore comune identico, la Miseria, la povertà cui la straordinaria figura della Madre, forse simbolo del Brasile stesso, non riesce a far fronte.

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Dario ha 18 anni e un unico grande desiderio, sfondare nel mondo del calcio. Un provino dopo l'altro però si vede continuamente respingere, malgrado le indubbie grandi capacità. Sarebbe molto più importante per la famiglia che lui trovasse un lavoro, ma proprio nel momento in cui sembra lasciar perdere (simboleggiato dallo scarico aggiustato, primo "lavoro" fatto in vita sua) avrà forse un' ultimissima chance.
Dinho è un ragazzo dalla fede profondissima, impegnato in parrocchia e moralmente integerrimo. Quando perderà il lavoro però le sue convinzioni cominceranno a vacillare.
Denis è un ragazzo padre che cerca di sopravvivere con dei piccoli lavoretti. Dei 4 fratelli è senz'altro il più venale; pochi sogni per lui, soltanto una vita vissuta giorno per giorno e una fuga dalle responsabilità (il figlio). Il mal di vivere gli farà tentare anche la via della piccola malavita ma ben presto si accorgerà che la sua anima, la sua coscienza, non sono portati a questo.
Reginaldo è il più piccolino. Unico "nero" in famiglia (padri diversi) soffre tremendamente la mancanza del padre. Non l'ha mai visto, sa soltanto che è un autista di autobus. Per questo passa le sue intere giornate saltando da un autobus all'altro cercando di trovarlo, di riconoscerlo. E' talmente forte il richiamo e l'influenza paterna, che guidare un'autobus diverrà il sogno (realizzato) del piccolo.
La madre è una straordinaria figura di donna, forte e fragile al contempo.Rimasta sola con 4 figli riesce in qualche modo a tenere la famiglia in piedi attraverso la fatica, il lavoro, l'affetto. A "peggiorar" le cose anche l'attesa di un altro figlio.
La costruzione a intreccio, la grandissima fotografia, le recitazioni perfette (meraviglioso il ragazzino) rendono la pellicola di Salles un altro di quei piccoli film sudamericani misconosciuti (come La Zona, Tropa de elite, il primo Inarritu) arrivati da noi soltanto grazie a riconoscimenti festivalieri, spinti dalle buone critiche.




La linha de passe, la linea di passaggio è quel limite astratto che prima o poi tutti dobbiamo valicare se vogliamo che la nostra vita cambi. E' la linea della consapevolezza, del sogno realizzato o infranto, dell'esperienza che ti segna, è uno di quei momenti notevoli che in qualche modo, una volta superati, ci rendono più maturi, ci cambiano per sempre. La linha de passe è un rigore per Dario, è la nuova sfida con la Fede di Dinho, è la maturità raggiunta attraverso gli errori di Denis, è l'autobus guidato di Reginaldo, metafora del ricongiungimento paterno. Nessuna vicenda si conclude nel film, tutto è sospeso, i ragazzi hanno appena messo il piede sulla linea, senza superarla. Tutto può ancora succedere, nel bene o nel male. La loro madre sta per partorire. Noi non lo sappiamo, ma domani tutto accadrà, una nuova vita che nasce, 4 vite che, forse, sono destinate a rinascere ancora.

( voto 7,5 )

17.10.10

Recensione: "A Single Man"



La morte del tuo amato. La solitudine. La depressione. Il mal di vivere e il desiderio di farla finita. Certo Tom Ford non poteva trovare tematiche più forti e delicate per quella che è in assoluto la sua opera prima. Film intimo se c'è n'è uno, A Single man racconta la giornata (perfetta la corrispondenza con l'Unità di Tempo Aristotelica) di un 50enne professore universitario, sconvolto dalla scomparsa 8 mesi prima del suo compagno.Un amore omosessuale libero e vero, mai osteggiato da nessuno. Un amore fortissimo, devastante, la cui fine il protagonista non riesce ad accettare.

George si sveglia e decide che quello deve essere il suo ultimo giorno di vita, prende una pistola e va al college. George è annegato, completamente in apnea, immerso nel ricordo del sua amore scomparso. Solo con la morte potrà ricongiungersi a lui e sentirsi ricambiare il bacio della scena iniziale, il bacio, allo stesso tempo, della morte e della nuova vita.

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Il primo merito del regista è quello di aver scelto Firth nel ruolo del protagonista. Il film, come dicevo, è talmente intimo e umanamente complesso che un'eventuale scelta sbagliata nel ruolo di George gli avrebbe tolto quella capacità emozionale che già difficilmente riesce a mantenere. George non ha più nessuna ragione di vita, tutti i suoi pensieri sono incentrati nel ricordo dell'amato (con cui stava da 16 anni). Il tempo non passa mai per un depresso che ha scelto di farla finita. Ford inquadra più volte gli orologi, sembra tutto fermo, la giornata scorre lentissima, tutti noi aspettiamo solo il momento inevitabile del suicidio. George cerca più volte di trovare il coraggio, quel coraggio primordiale e meschino di uccidere sè stesso. Per lui ogni giorno è semplicemente un avvicinamento alla fine, il presente non ha alcun senso. In realtà però, c'è ancora qualcosa dentro di lui che vuol vivere. A questo proposito Ford usa un espediente geniale. Ogni volta che George, fosse anche soltanto per un attimo, si riconcilia con la vita, prova una qualsivoglia gioia, vive un'emozione che credeva di non poter più vivere, ogni volta che succede qualcosa di bello nella sua grigia vita (o giornata in questo caso), le cose intorno a lui acquistano colore, tutto si fa molto più intenso, vivo, e così di conseguenza la fotografia. Danzare con una sua vecchia fiamma, parlare con una bambina, rischiare ancora di innamorarsi con un suo studente, tutto fa sì che qualcosa dentro George rinasca di nuovo e in qualche modo lo ancori al presente e al futuro. Ma il destino è beffardo e la morte lo colpisce proprio quando, forse, aveva deciso di non desiderarla più. A questo proposito l'infarto può anche esser visto come la deflagrazione di un accumulo di piccole gioie che da tempo non assaporava più. Un infarto che porta alla morte per un eccesso di vita.



La regia di Ford è impeccabile, la fotografia mostruosa, l'eleganza di musiche e inquadrature eccezionale. Il problema è che non raggiungiamo mai il livello emozionale al quale una tale grande sceneggiatura doveva portare. Ford sembra essere troppo autreferenziale, portare troppe cose del suo mondo dentro il film, vestiti, acconciature, elganza in genere, anche alcuni dettagli "omosessuali" che a mio parere cozzano un pò con la psicologia di George, tutto fuorchè personaggio voglioso, libidinoso, ambiguo. George ha una grande integrità morale, ha semplicemente vissuto una straordianaria storia d'amore e nel rispetto di essa rinuncia a qualsiasi altro contatto gli venga proposto, anche quello di bellissimi ragazzi disposti a stare con lui (anche in questo caso l'autoreferenzialità di Ford con l'utilizzo di 2,3 modelli nei ruoli chiave).
Rimane comunque una grande pellicola, introspettiva e dolorosa, anche se è un Dolore raccontato con la Testa, e non con il Cuore.




( voto 7 )

15.10.10

Recensione: "Buried"


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PRESENTI SPOILER PESANTI



E' incredibile come una piccola parola, anzi un nome proprio, possa a mio parere far crollare un film da potenziale piccolo capolavoro a (comunque) grande thriller. E' ancor più incredibile se si pensa che invece per molti, quasi per tutti, è quello il punto forte del film. Forse mi sbaglierò, ma proverò ad argomentare la mia posizione.

Prima però è giusto fare alcune considerazioni generali su Buried.
Il primo merito è che la pellicola di Cortès rappresenta un unicum nella storia della cinematografia, una cosa mai vista prima nè, credo, ripetibile in futuro dato che per quanto si cambi "luogo" o personaggio, si tratterebbe platealmente di plagio. Mai infatti si era visto un' INTERO film ambientato in un unico, angusto, spazio, addirittura una bara. Lebanon ad esempio aveva molte più "vie di fuga", almeno visive se non spaziali (tramite il mirino). Qui siamo dentro con Paul (il protagonista)dall'inizio alla fine. Nessun flashback, nessuna immagine fuori dalla bara. La vicenda è quasi completamente in tempo reale ("perdiamo" forse solo pochi minuti di dormiveglia). Paul all'inizio ha solo un telefonino (vero protagonista della vicenda), una matita con la quale appuntarsi numeri e uno Zippo per fare luce. troverà in seguito altre fonti di luce (una torcia, un neon), un coltellino e un foglietto. Un'ottima sceneggiatura permette al film di mantenere una tensione pressochè costante basata (se escludiamo la scena con il serpente e quella, ottima, del bombardamento) soltanto sui disperati tentativi di Paul di raggiungere la salvezza attraverso le telefonate, che siano con l' FBI, con il Dipartimento di Stato, con la moglie, con i conoscenti, con il sequestratore, con sua madre, con il datore di lavoro. Proprio l'ultima telefonata con quest'ultimo, quella per annunciare il licenziamento e la perdita del premio di assicurazione, rappresenta a mio parere il momento più drammatico e riuscito del film, una chiamata al tempo stesso surreale e drammaticamente realistica, empia e assurda. Altro momento emotivamente fortissimo è il testamento video finale. Forte anche la componente di critica sociale a certe istituzioni e le considerazioni sul valore di una vita umana. Visto il finale però lo spirito critico si attenua molto perchè scopriamo che veramente (almeno in questo caso) si è tentato il tutto per tutto.

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Ottima la recitazione di Reynolds, dinamica per quanto lo può essere in 3 metri quadrati la regia mentre la fotografia è giocoforza accompagnata da un'illuminazione "reale", blu con il cellulare acceso, gialla con la torcia, verde con il neon e "arancione" con la fiamma dello Zippo.
Veniamo finalmente al punto che citavo in partenza, il finale, quel nome ricevuto da Paul al cellulare: "Mark White". Mi è crollato tutto. Oltre la forzatura del salvataggio compiuto all'ultimo secondo, gia di per sè molto cinematografico, troppo cinematografico in un film che non lo è per niente (momento che comunque funziona alla grande, data l'empatia ormai instaurata col protagonista); oltre ancora alla "coincidenza" che il corpo nella bara sia proprio quello dell'unico nome detto a Paul, è proprio quel nome ad aprire a mio parere delle falle morali, etiche e umane. Addirittura... , mi direte.
Io mi chiedo: perchè il capo della sessione di crisi per i prigionieri in Iraq ha detto (alla luce del finale) una bugia così macabramente scorretta a Paul? Perchè ha nominato Mark White come esempio di prigioniero salvato quando sapeva benissimo che era al 99,99% morto (rapito e messo nelle condizioni di Paul 3 settimane prima)? Perchè non ha semplicemente inventato un nome? Sarebbe stata sempre una bugia, è vero, ma eticamente e moralmente accettabile, atta solo a dare speranza. Eppure il suo lavoro specializzato è confortare ed aiutare i prigionieri. Non stava prendendo in giro Paul ( non è un personaggio negativo, nel qual caso tutto sarebbe coerente), tanto è vero che fino alla fine tenterà in tutti i modi di salvarlo, credendo addirittura di avercela fatta. E poi perchè, scoperta purtroppo la macabra verità, dice comunque a Paul il nome del cadavere ritrovato? E' come prendere in giro un uomo ormai morto.

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Tutto questo perchè Cortès ha voluto creare ad arte la beffa finale, un colpo di scena a suo parere, e non solo, perfetto. Un semplice nome fa diventare, secondo me, un film straordinariamente umano e realistico come un perfetto gioco filmico, bello sì, ma umanamente discutibile. Certo, ha la genialità di farci capire in un attimo che in realtà nessuno era stato mai salvato in precedenza ma appare tutto forzato, "sceneggiato". Ecco, mi sono sfogato. Spero che qualcuno mi capisca...
Buried rimane comunque un grandissimo thriller e la dimostrazione che al giorno d'oggi si può ancora fare del grande cinema semplicemente avendo un' idea e una penna per scriverla.

( voto 7,5 )

13.10.10

Recensione: "The Descent"

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Prima di addentrarci nell'analisi di questa piccola perla dell'Horror moderno, vorrei fare una considerazione generale. Chi ha fretta vada al prossimo capoverso. E' incredibile notare come tutte le migliori opere di questi ultimi 5 anni nel campo dell'Horror vengano dall'Europa. A memoria, la Spagna con REC e THE ORPHANAGE, la Francia con MARTYRS e A L'INTERIEUR, addirittura la Svezia con LASCIAMI ENTRARE, l'Italia con SHADOW e il Regno Unito con, per l'appunto, THE DESCENT. In America invece sembrano ormai soltanto due le strade imboccate: il teen movie del gruppo di ragazzi (sdoganato definitivamente da SCREAM) ucciso uno a uno spesso, da SAW in poi, mediante torture, o il remake orientale ( al volo penso a THE RING, THE EYE, THE GRUDGE, THE UNINVITED - da Two Sisters- e OMBRE DAL PASSATO - da Shutter-). Per trovare qualcosa di nuovo e originale deve rimettersi al lavoro il grande maestro Sam Raimi che con DRAG ME TO HELL ci riporta alle atmosfere dei suoi capolavori. Non che i film europei sopracitati non si ispirino anch'essi a pellicole precedenti, ma o lo fanno con un proprio marchio completamente originale, o comunque con un'altissima qualità, sia recitativa che di scrittura. Hanno inoltre il coraggio, quasi taboo negli USA, di scardinare il classico Happy End.



Veniamo a The Descent.
(se non hai visto il film non leggere oltre)
Chi mi ha letto qualche volta sa quanto consideri la sceneggiatura come la componente più importante nella realizzazione di un gran film. Nella maggior parte dei casi diventa una conditio sine qua non. Se c'è un genere però che può "permettersi" di raggiungere ottimi livelli anche senza un grande script questo è proprio l'horror dove a volte possono bastare un buon spunto iniziale, una bella ambientazione, una grande atmosfera e recitazioni convincenti per raggiungere i massimi livelli. The Descent, la cui sceneggiatura potrebbe probabilmente essere contenuta in 40 pagine, raggiunge l'eccellenza proprio grazie alle caratteristiche sopracitate.
Sarah ha perso marito e figlia in un tremendo incidente stradale. Un anno dopo si rivede con un gruppo di amiche per provare un'avventura estrema, la discesa in un complesso di grotte, pensata appositamente per "ritrovarsi" e farlee finalmente riconquistare la serenità perduta. Le ragazze però si ritroveranno chiuse nelle grotte e scopriranno di non esser sole...
Qualcuno ha criticato la prima mezz'ora, nella quale il regista ci introduce i personaggi e, soprattutto cerca di creare un'empatia con Sarah, la protagonista. Io l'ho trovata invce un'ottima introduzione. A questo proposito da ricordare la scena dell'ospedale quando per una volta (cosa rara nell'horror) viene raccontato e mostrato perfettamente il dolore per la perdita di un caro. Un'occhio attento avrà notato anche lo scambio di sguardi iniziale tra Juno (una delle ragazze) e il marito di Sarah pochi minuti prima dell'incidente mortale dell'anno prima. Il tutto tornerà verso la fine. Questi dettagli, alle volte, fanno grandi un regista.



Dopo mezz'ora, si entrerà nelle caverne per poi non uscirne più. Per un'ora Marshall riesce a girare nella quasi totale oscurità creando un'atmosfera unica, claustrofobica, opprimente e, se mi si concede il termine, quasi da paura primordiale. Il film funzionerebbe anche così a mio parere, visto come una lotta per la sopravvivenza dell'uomo in un ambiente inospitale e senza via d'uscita come ad esempio è stato l'oceano per OPEN WATER ,l'alta montagna per LA MORTE SOSPESA o, in un senso più ampio e variegato tutto il magnifico INTO THE WILD. A questo proposito, la scena del cunicolo poi crollato, quella dello strapiombo da superare e quella della caduta con rottura di tibia di una delle ragazze sono perfette. Marshall però non si accontenta e introduce l' Horror. Delle spaventose creature vivono nel sottosuolo. Sono cieche e per muoversi si servono esclusivamente dell'udito. Attaccano, uccidono e mangiano le proprie vittime. Per il gruppo delle ragazze inizia la lotta per la sopravvivenza.
Più di una scena da ricordare. La telecamera con visione notturna che inquadra gli ominidi (poi ripresa nel finale da incubo del primo REC), le due sorelle stese e ferme con l'orrendo viso di una creatura a 1 cm da loro (omaggio quasi plateale a una delle ultime scene di Predator), la morte di una di loro sospesa nella roccia, la scalata finale della protagonista in mezzo alle ossa.
E' fortissimo anche il richiamo metaforico, del resto intuibile dal sottotitolo del film "Face your deepest fear". La protagonista più va in profondità nelle grotte, più tempo passa, più scopre se stessa, e quella che era una paura reale, la morte nelle grotte, si tramuta nella scoperta di un tradimento, nell'astratta paura di scoprire un giorno che una vita d'amore passata insieme è stata semplicemente basata sulla falsità. Importantissimo questo passaggio perchè (e anche qui il dettaglio per Marshall fa la differenza) l'incidente iniziale fu dovuto ad una disattenzione alla guida del marito chiaramente intento a pensar qualcos'altro e questo qualcos'altro è ciò che scopriamo alla fine. Juno in realtà tradiva l'amica, e questo tradimento indirettamente ha portato quindi all'incidente e alla morte della figlia. Sarah ha ormai perso tutte le sue certezze, Juno deve pagare.



Nel finale vediamo poi Sarah riuscire finalmente dalle grotte ma tutto è effimero, illusorio, e in una meravigliosa, struggente e indimenticabile sequenza finale (pari solo a quella di The Orphanage) la ragazza ha ancora la visione dell'unica persona che in realtà l'ha sempre amata e mai tradita, sua figlia. E' quasi un'eutanasia, un dolce morire, il lasciare una vita che tanto non aveva più niente da darle per potersi ricongiungere all'unica ragione di vita e di morte, la sua bambina, e poter finalmente spegnere quelle candeline.

( voto 8 )

11.10.10

Recensione: "Doomsday"




L' unica domanda da porsi è "perchè"?
Perchè rovinare una buona idea di script (ovviamente scopiazzatura di molte altre, ma intelligente) e un grande incipit con un'ora di bassissimo trash? Perchè preparare nei minimi dettagli un'atmosfera, introdurre in modo perfetto un personaggio per poi scadere così in basso?
E' un vero peccato. Doomsday aveva tutte le qualità per essere un ottimo film di genere ma una serie infinita di incongruenze, gratuità e soprattutto scene action e tamarre mandano a quel paese quel respiro di autorialità che si respirava all'inizio.
L'inizio, già. Ottimo. La Scozia divisa dal resto del Regno Unito a causa di un virus che ne ha contaminato la popolazione. Un muro di cinta stile Padania alto 9 metri per dividerla dall'Inghilterra. Poi però quando il virus arriva anche a Londra (dopo 28 anni) c'è bisogno di tornare nella dimenticata Scozia per trovare una cura, visto che nel frattempo si è scoperto che nelle highlands c'è ancora qualche sopravvissuto. Un commando guidato dalla splendida protagonista (una b(u)ona Rhona Mitra) deve andare a Glasgow a trovare la cura. Fin qui, ripeto, ottimo film, neanche stupido nelle tematiche. Ad esempio efficace la metafora politica della Scozia completamente divisa dall'Inghilterra che richiama l'eterno problema della coesistenza dei vari stati del Regno. Poi, però, il Delirio.
I sopravvissuti scozzesi non sono altro che una masnada incredibile di punk, stupidi come zombie, inspiegabilmente cannibali quando, ad esempio, hanno a 5 km un verde pascolo con 2 centinaia di mucche... 




Marshall dà il peggio di sè nella penosa scena dello spettacolo stile rave party quando il leader offre in pasto alla folla uno dei componenti presi in ostaggio del commando di cui sopra. Mi chiedo: ma che c'entra? Dopo un combattimento inutile tra la femmina del leader e la nostra protagonista, parte del commando riesce a fuggire per ritrovarsi dove? Al The Village di Mr Night Shyamalan dove un altro gruppo di sopravvissuti (in lotta contro l'altro) vive in un castello una vera e propria vita medievale con cavalieri, lance e arene per le battaglie. Questo perchè, appunto come nel film di Mr Night, vogliono star il più lontano possibile dalla società. Sigh. Il non sense del tutto è ormai a livelli massimi. Mancano ancora però 25 minuti di inseguimenti tra macchine, scazzottate varie e altre trashosità spettacolari, come ad esempio il leader che guida l'automobile con al fianco la ragazza sgozzata ( nel combattimento femmineo descritto sopra).
Nel frattempo a Londra il virus sta impazzando (anche il primo ministro viene infettato e si uccide, buona scena) ma la situazione sembra andar bene al governo (pulizia dei ghetti, finalmente!).
Potrei raccontare tanti buoni spunti e altre discrete scene, ma è lo stesso Marshall a farmi passar la voglia. Ha voluto far diventare un buon film, forse ottimo, una specie di baraccone. Se il trash fosse stata l'idea iniziale del film, il suo genere, Doomsday sarebbe un cult per appassionati, da 8 in pagella, ma purtroppo è soltanto un apocalittico rovinato da scelte imbarazzanti. C'è ironia ed autoironia, troppa però, e inutile. Ottimi gli effetti splatter, quasi eccezionali. Eppure il buon Neil le atmosfere le sa raccontare e sa anche togliere invece che aggiungere, aggiungere e aggiungere. The Descent ne è l'esempio lampante.

( voto 6 )

9.10.10

Recensione: "Captivity"



Mah, sinceramente mi aspettavo molto peggio. In realtà il film, pur presentando moltissimi difetti che andremo ad analizzare, è innegabilmente ben confezionato, lontano da porcate underground quali Murder Set Pieces e simili.
Quello che più sorprende è che alla regia troviamo Ronald Joffè, autore che mai e poi mai si era avvicinato a tale genere in 25 anni di carriera. Se il regista di Mission è costretto pur di tornare al lavoro (dopo 7 anni di silenzio cinematografico) a girare una specie di clone di Saw, sarebbero molte le domande da porsi, sia sull'integrità morale del soggetto, sia sul funzionamento della macchina Cinema in generale.
Una supermodella è rapita da un maniaco ossessionato dalla sua bellezza. Si troverà rinchiusa come un topo in gabbia in una stanza clone del suo appartamento se non fosse per la chiusura stagna e per un paio di altre stanze di tortura annesse.
Partiamo dai difetti: Captivity, come il 90% dei film di tale genere, ha il solito script banale e affrettato dovuto più che a incapacità di scrittura, alla necessità di puntare su altri aspetti, che siano l'originalità delle torture, la scelta dei luoghi e il tentativo di creare atmosfera. In realtà poi, il film non eccelle nemmeno in questi 3 aspetti, anche se risultano senz'altro convincenti almeno due scene di tortura (la pioggia d'acido e il frullato di frattaglie umane), discrete le location (anche se un pò confuse a parer mio) mentre quasi inesistente l'atmosfera, tallone d'achille di quasi tutti i teen movie. 



La fotografia è buona, la recitazione anch'essa in linea con gli horror di oggi infarciti di belle ragazze che tremano e strillano al momento giusto. A questo proposito ad esempio siamo molto lontani dal livello recitativo delle 2 ragazze di Martyrs o della protagonista di Frontiers, poi vista nell'ottimo Shadow di Zampaglione. Captivity ha il piccolissimo pregio di farti passare un'ora e mezzo tranquilla, senza esaltaltazione o salti sulla sedia ma al contempo senza farti ridere dall'inizio alla fine per l'assurdità del tutto, per i comportamenti dei protagonisti o per qualche dialogo imbarazzante. Non che la vicenda abbia un filo logico forte, ad esempio qualcuno mi deve spiegare la tortura iniziale pre titoli; chi era? che c'entra la tortura su un maschio con il resto del film? Anche il colpo di scena è abbastanza telefonato ma ha almeno il pregio di non accadere alla fine, alla Saw, perchè avrebbe reso ridicolo il tutto. Tralasciamo poi le motivazioni che spingono gli assassini a fare ciò che fanno. Vabbeh dai, un altro prodotto con lo stampino per far conoscere una bella ragazza (una specie di Sharon Stone dei poveri patinata), "divertirsi" a veder due torture e, soprattutto, far tornare al lavoro un regista dimenticato.

( voto 5,5 )

7.10.10

Recensione: "Redacted"



C'era un mercante di Baghdad che mandò il suo servo al mercato per comprare delle provviste. Dopo un pò il servo tornò indietro pallido e tremante dicendo "- Padrone, una donna mi ha urtato al mercato; quando mi sono girato ho visto che era la Morte, mi ha guardato e mi ha fatto un cenno minaccioso. Ti prego, aiutami, dammi un cavallo e fammi scappare dal mio destino, vado a Samarra e la Morte non potrà trovarmi.". Il mercante gli prestò il cavallo e il servo fuggì. Poi il Mercante andò al mercato, vide la Morte e le chiese "- Perchè hai fatto quel gesto minaccioso al mio servo?". Rispose la Morte "- Non era un cenno minaccioso, ma un gesto di sorpresa. Ero sconceratata di trovarmelo qua a Baghdad quando invece devo avere stasera un appuntamento con lui a Samarra".

C'è tutto Redacted in questa magnifica quanto terribile barzelletta. L'ineluttabilità del proprio destino, della propria morte. Il Servo è il Soldato in guerra, il Mercante una sorta di effimera speranza. Tutti gli uomini prima o poi andranno a quell'appuntamento, il soldato ha soltanto un cavallo più veloce che lo farà arrivar prima.
Strepitosa pellicola di DePalma, accusata con troppa faciloneria di antiamericanismo, quando invece, come nella maggior parte dei film di guerra, le vicende raccontate devono considerarsi universali e la denuncia non vista come a rivolta a un tale esercito o una tale guerra ma alla Guerra tout court e a tutte le aberrazioni che questa, quasi giocoforza, comporta.



Il film prende spunto da un vero episodio: lo stupro e l'assassinio di una quindicenne irachena da parte di 4 soldati americani. In realtà soltanto 2 compiranno l'eccidio (oltre la ragazza vengono uccise la sorellina, la madre e il nonno) mentre un terzo riprende con una telecamera e un quarto se ne sta disperato fuori, incapace di fermarli.
De Palma analizza il prima, il durante e il dopo eccidio in un arco temporale di circa 2 mesi.
Prima conosciamo i soldati, impegnati in un posto di blocco a Baghdad. In una bellissima sequenza vediamo l'interminabile attesa dei militari (scandita dai rumori di una bottiglia d'acqua vuota premuta continuamente da un soldato e dal ripetuto far scattare un accendino zip di un altro) che hanno il "solo" compito di controllare le macchine che passano nella barriera. I militari intimano ad un'automobile di fermarsi, questa prosegue dritta, si fa fuoco, una donna incinta muore. De Palma approfitta per comunicarci che oltre 2000 civili iracheni sono stati uccisi nei checkpoint, il 99% non terroristi. Tra l' altro, se vogliamo, si torna alla barzelletta iniziale. Lì il servo aveva mal interpretato i gesti della Morte, qui capita molto spesso che i civili scambino il gesto dei soldati di fermarsi come un saluto. Come il servo, l'incomprensione li porta alla morte.
I soldati si annoiano, non è come il Vietnam, dove le donne non mancavano. La somma di questa voglia sessuale unita al desiderio di vendetta per un loro compagno esploso in una mina li porterà alla terribile decisione, PIANIFICATA, dello stupro alla quindicenne.
Questo avverrà sotto le luci della telecamera del soldato Salazar, il nostro occhio per buona parte del film. Soltanto il soldato McCoy si opporrà e sarà infatti lui in seguito a denunciare il terribile accaduto. Salazar, in realtà soldato "buono" con la sola mania che tutto venga ripreso (allegoria forse della tv d'oggi), sarà invece rapito e decapitato. Ho già scritto moltissimo dicendo in realtà poco. Redacted avrebbe bisogno di uno spazio infinito per poter esser commentato data la moltitudine di così tanti e forti temi trattati che siano politici, etici, morali, umani. 



De Palma si serve di un'incredibile quantità di canali audiovisivi per raccontare la vicenda, dalla telecamera di Salazar al documentario interno al film, dalle immagini televisive alle telecamere di sicurezza, dai blog ai filmati su You Tube, dai servizi in diretta giornalistici alle microcamere nei caschi. La sceneggiatura è perfetta, specie nei dialoghi dai quali è possibile estirpare moltissime frasi significative "la prima vittima sarà la verità", "le telecamere raccontano sempre bugie" "quello che succede a Las Vegas rimane a Las Vegas (riferito al voler insabbiare tutto)" "si possono far cento film sull' 11 settembre ma nessuno sui nostri crimini perchè noi siamo una razza superiore" e mille altre. Si arriva così al finale dove, come nel bellissimo Valzer con Bashir, la finzione (se di finzione si può parlare) lascia spazio alle reali immagini di civili iracheni morti. Il senso di rabbia, di impotenza, di commozione raggiungono così il massimo livello e marchiano a fuoco la parola pace o il desiderio di essa nel nostro cuore e non in un'inutile, spesso ipocrita, bandiera.

( voto 8,5 )

5.10.10

Recensione: "Audition"



Una ragazza ci gira intorno da anni. E' carina, ma in realtà non ci è mai interessata. Poi, di colpo, senza alcuna motivazione valida ci innamoriamo di lei. Quello che ci sembrava gradevole ci sembra ora meraviglioso, c'è una luce diversa, in lei vediamo cose che prima non potevamo (o volevamo) vedere, sentiamo emozioni che prima, semplicemente, non potevamo sentire. Questo potrebbe accadere per me un domani con Audition, c'è possibilità che un giorno possa conquistarmi completamente, farmi innamorare, ma quel giorno non è questo.
Se Mike ha una qualità (ho visto per adesso solo 3 film) è senz'altro quella di dare ai propri lavori un proprio marchio e stile, probabilmente riconoscibile dai suoi fan più accaniti dopo 4,5 minuti di visione di qualsiasi suo film. Anche Audition, sia a livello narrativo che visivo, è tutto fuorchè un film banale o stereotipato.
La pellicola si apre con una scena molto forte, la morte in ospedale di una madre alla quale il figlio stava per l'appunto portando fiori per la pronta guarigione. Il padre, protagonista del film, è al suo capezzale. Tra l'altro, come a chiudere un cerchio, il film si concluderà con un'altra scena di dolore famigliare degli stessi 2 protagonisti, 7 anni dopo, di matrice però completamente diversa...
Da qui parte la prima ora del film, da definirsi nemmeno drammatica, tutt'altro, c'è anche a tratti un'atmosfera allegra e spensierata. Il padre ha deciso di rifarsi una vita e un amico gli organizza un'audizione (col pretesto che sia cinematografica) per fargli conoscere più ragazze possibili per poi sceglierne una. E' qui che Mike, a mio parere, non offre il meglio di sè facendomi pensare che forse è un regista che eccelle con l'estremo, il grottesco, il sadico, il surreale e l'onirico (oltre Audition ho visto Visitor Q e Ichi the Killer, mi capirete...), e non si trovi a suo agio con tutte le parti "riempitive", decisive però per plot e ritmo nella riuscita di una pellicola. Dialoghi stantii, scene inutili, minuti che passano come macigni. Era una parte che avrebbe dovuto ben analizzare l'elaborazione del lutto per la perdita della moglie e la successiva voglia di rinascita; lo fa, ma in maniera scolastica. Io mi sono letteralmente annoiato (attenzione, la noia non c'entra niente con la lentezza) fino alla superba scena del sorriso della ragazza allo squillo del telefono. Se non avessi saputo che stavamo comunque parlando di Mike e di un "horror" sarei andato avanti con fatica. 

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L'ultima mezz'ora non rappresenta solo un cambiamento radicale narrativo, ma anche visivo e stilistico. Mike passa dall' Horror (soggettiva della ragazza nella casa dell'uomo) al torture (tra parentesi, credo di essere tra i pochi ad essere rimasto indifferente alla tortura degli aghi, dato che l'ho presa semplicemente come una sessione di agopuntura; micidiale quella del fil di ferro invece), dall' incubo onirico (la scena commistione tra sogni e realtà, tra ricordi e presenze inquietanti) al drammatico esistenziale (il discorso finale della ragazza morta); si passa da tonalità rosse ad altre blu, il senso di realismo è perso del tutto. Come detto, qui Mike è perfetto, ma risulta troppo alto il divario tra i 2 blocchi narrativi e questo, per un regista che ha il coraggio di fare un tipo di film così, è a mio avviso un piccola grande mancanza. Non casco nel tranello della profondità del messaggio, la solitudine, il bisogno di sentirsi amati, il trauma infantile, semplicemente perchè non sono sensazioni che alla fine il film mi ha lasciato nè perchè durante la visione ho mai provato chissà quale empatia con i personaggi. Come detto all'inizio, a chi mi parla di Audition come capolavoro non poso dir niente, si vede che hanno provato subito quell'innamoramento che un giorno, forse, colpirà anche me.

( voto 7 )