31.3.23

Recensione: "Quando Dio imparò a scrivere" - Su Netflix


Il quarto film di Paulo (dopo i primi bellissimi due - El Cuerpo e Contrattempo - e la mezza delusione del terzo - Durante la tormenta -) è l'ennesimo (4 su 4) thriller-giallo a orologeria dove tutti i pezzi si devono incastrare e dove - ormai da lui ce lo aspettiamo sempre - ci sarà un gran colpo di scena finale.
Il film è bello, forse molto bello (ma troppo lungo), affascinante, stimolante e ambiguo (come è ambigua la sua protagonista, Alice, una detective che si finge malata per indagare dell'omicidio avvenuto in un manicomio. Ma se fosse invece veramente malata?).
La sensazione, però, è che a differenza dei 3 precedenti film stavolta l'architettura sia talmente grande e complessa che qualcosa non torna o se torna, è solo perchè Paulo furbescamente usa tantissimi trucchi.
Resta un film piacevolissimo da vedere, che ti porta a parlarci ore con gli amici ma che - e questo è un difetto - ti sembra più volte un tantinello forzato per risultare credibile.
In ogni caso provo, come sempre, a dare la mia - lunga - spiegazione al film.

Oriol Paulo è ormai considerato uno dei maestri del thriller moderno.
Più che altro è uno che, a differenza di altri registi (anche migliori di lui), non ha mai tradito il suo genere.
Paulo (il cognome è questo) fa sempre e solo thriller/gialli con mega colpo di scena (e tutti con un omicidio di mezzo), è un vero e proprio specialista.
Non ricordo altri registi che, o prima o dopo, non siano mai usciti da questi binari.
Se i suoi primi due, "El Cuerpo" e "Contrattempo", erano davvero notevolissimi e se il terzo, "Durante la tormenta", un piccolo passo falso, ecco che con "Quando Dio imparò a scrivere" (brutto e "sbagliato" titolo italiano) io mi ritrovo nella fastidiosissima sensazione di non saper dare un giudizio netto.
Bello come i primi due?
Delusione come il terzo?
Il fatto è che questo film ha un'architettura così grande che al tempo stesso ti sembra geniale se tutto torna (perchè i pezzi son tanti, molti di più dei 3 film precedenti) o traballantissimo se, al contrario, tutto non torna.
Anche se in realtà la sensazione è che ci troviamo davanti ad una via di mezzo per cui tutto torna sì (proverò a dare la mia "soluzione più tardi) ma che per far ciò Paulo usi tante e troppe furberie, tante situazioni, frasi e personaggi che tu li leggi in un modo ma poi lui ti dirà "dovevi leggerli in un altro".
E, a proposito di fastidio, finisci il film con la voglia di rivederlo, ma non quella voglia che hai quando hai visto un film ostico e bellissimo e vuoi rivederlo per capirlo meglio o, nel caso l'hai già capito, per "riviverlo" con altri occhi (ad esempio lo stesso Contrattempo ma anche film ben più importanti e con altri tipi di difficoltà, vedi tanti Lynch).
No, ti viene voglia di rivederlo perchè la prima visione è stata così confusa e con così tanti dubbi che ti senti non possa bastare.
E questo è un difetto.
Tutto questo preambolo in realtà non rende merito a un film bello, forse molto bello, e che consiglierei a qualsiasi amante del genere, questo voglio ribadirlo.



Siamo alla fine degli anni 70.
La detective Alice (nome che mi dà sempre un brividino) viene accompagnata da un uomo in una grande clinica per malattie mentali (un manicomio) dove poco tempo prima è morto un ragazzo, il figlio dell'uomo che l'ha accompagnata.
Suicidio o, come pensa Alice, omicidio?
Alice, per essere il più possibile "dentro" l'istituto, accetta di farsi ricoverare come finta paranoica.
Ma se fosse davvero malata?

C'è da dire che il film è troppo lungo, due ore e mezza (peccato perchè fosse stato mezz'ora in meno l'avrei rivisto volentieri). 
E' vero che, come dicevo, ha un'architettura così complessa e con talmente tanti incastri che di tempo per erigerli ne serviva parecchio ma, ecco, la sensazione che se fosse stato più asciutto ne avrebbe giovato è forte.
L'ambientazione (come sempre nei film nei manicomi) è super suggestiva (buffissimo che due giorni dopo ho visto Adoration di Du Weltz, anch'esso - anche se solo nel primo tempo- ambientato in un manicomio con un bosco a fianco), e la regia di Paulo sempre moderna e accattivante.
Forse però, al di là della sceneggiatura che, come in tutti i film di questo regista è l'architrave più importante, è il materiale umano, più ancora di location e regia, l'aspetto più "debordante".
Questo perchè QDIAS (scusate l'acronimo) è un film corale, con almeno 15 personaggi con parti più o meno grandi.
Sono distinguibili in 3 macrocategorie, ovvero i personaggi che riguardano Alice (lei, il marito e l'uomo che l'ha accompagnata), i medici e i pazienti (e, come se non bastasse, ci sarebbero anche 3/4 elementi della polizia).
E' indubbio che il gruppo più interessante sia quello dei pazienti.
Ecco, tra i malati le facce son davvero perfette e la caratterizzazione veramente marcata.
Forse così marcata che - come avviene spessissimo in film ambientati in manicomi - il confine tra il trovarsi davanti un personaggio riuscito o una macchietta è davvero labilissimo.
Il Gigante, il Nano, i due gemelli inquietanti (con quegli occhi così distanti tra loro), la loro "sorella", l'uomo idrofobo ma anche tanti altri personaggi minori come la donna albina (che a me ha emozionato) creano un fascinoso, ma anche esagerato, Circo Barnum per lo spettatore.
In realtà Paulo è bravo a rendere tutti abbastanza credibili e a non farci pensare che quel tale personaggio sia solo strumentale (anche nel caso lo fosse veramente).
Interessanti anche i medici, su tutti l'ambiguo direttore Alvar, il vero e proprio personaggio chiave secondo me.
Indubbio però che buona parte del peso sia retto dalla sempre bravissima Barbara Lennie, attrice che ho sempre adorato (Magical Girl, Il Regno, Contrattempo) e che qui, pur bella, si mostra leggermente sfiorita per interpretare un personaggio equivoco, misterioso, a cui lo spettatore non riesce mai a dare un giudizio definitivo.

20.3.23

Recensione: "Akira" - AnimE e Core, la grande passione per l'animazione giapponese - 16- di Enrico G.




Torna il nostro giovanissimo super esperto di Anime giapponesi Enrico.
In realtà ogni volta che scrivo "torna" (riguardo le rubriche esterne del blog )dovrei invece dire "finalmente ripubblico un pezzo di..." visto che loro li pezzi me li mandano sempre, sono io che rimando...
Ma stavolta non potevo perder tempo perchè Enrico ci parla di un capolavoro animato che ha fatto la storia del cinema e che proprio settimana scorsa è tornato nei cinema, Akira.
Vi lascio alla sua presentazione e poi alla (sicuramente bellissima) recensione.

Nominatemi un anime più conosciuto di Akira, se vi viene in mente. Un film talmente rappresentativo di un’idea, di un modo di fare, di un concetto di arte, che raramente è stato raggiunto nella storia dell’animazione anni ’80 (ma forse, proprio del cinema tutto), allo stesso tempo diventato popolare tramite esso. È con Akira che il “cartone giapponese” diventò per la prima volta qualcosa da volere, ricercare fieramente, pretendere dal mercato, spalancando le porte dell’Occidente a ciò che venne prima e dopo. Alcuni di quei prodotti sono tornati di nicchia. Lo stesso Katsuhiro Otomo è stato messo in ombra dalla sua creatura, e sì che è la mente dietro Steamboy, Roujin Z, Metropolis, Spriggan, antologie, fumetti. Akira invece è rimasto intoccabile, torna nei cinema e in ristampa ogni pochi anni, e finalmente, al suo 35esimo anniversario, mi sono deciso anch’io a vederlo per la prima volta, sul grande schermo. Questa, più che una recensione, è l’impressione di chi per una volta smette i panni di appassionato, e torna ad essere spettatore in una sala. Davanti a sé, un film di corpi torturati, di metropoli devastate, dei loro suoni, e dei loro colori, centinaia di colori.

Per dovere d’inventario, attualmente disponibile anche su Netflix.

Spoiler sparsi, ma d’altronde lo avrete già visto tutti.


Una parola innanzitutto, sulla visione “competitiva” di film. La ricerca spasmodica dei grandi capolavori della storia del cinema, a mio parere, non può essere una gara né un’indigestione. Il desiderio di entrare a far parte della cultura della cinematografia passata può solo essere lodevole, se umile. Per contro, non ho mai condiviso l’idea che per “capirci qualcosa” della settima arte, o qualsiasi altra espressione artistica per quel che importa, ci debbano essere patenti e passaggi obbligati, determinate visioni nel caso del cinema. Lascerei volentieri la scienza di queste espressioni a chi le fa o le studia, mentre la comprensione non richiede altro che una mente degna di questo nome. È una convinzione che si rafforza quando ho l’occasione di vedere un rinomato classico sul grande schermo: ammirare Akira come era stato inteso nel 1988 vale tutta la pazienza con cui l’ho atteso – pazienza che in realtà, è spesso null’altro che un “attendere il momento giusto”, pratica perfezionata in anni di attesa della distribuzione italiana di prodotti orientali (una specie di addestramento zen ad honorem). Con in più, tutta la naiveté di conoscere poco o nulla sui retroscena del film, esattamente come la maggior parte degli spettatori di allora. E poco importa se fino a ieri mi avrebbero detto di essere indegno di chiamarmi appassionato di anime.
E allora, sotto la patina della notorietà, qual è la storia di Akira? Il film è ambientato nel 2019, prevedendo con largo anticipo che le Olimpiadi di Tokyo dell’anno dopo sarebbero state azzoppate da una catastrofe umanitaria. Trent’anni prima una misteriosa esplosione, che vediamo nel famosissimo incipit, ha sconquassato il centro della capitale giapponese, ricostruita successivamente attorno all’impressionante cratere. Questa Neo-Tokyo però è a sua volta un buco infernale di instabilità e degrado, sulle cui strade regnano i Centauri, giovani scapestrati riuniti in bande, che in sella alle loro moto combattono come se la guerra non fosse mai finita. È durante una di queste scorribande che Tetsuo quasi muore, scontrandosi con un bambino dall’aspetto di un vecchio. Nemmeno il gruppo del ragazzo e il loro leader, Kaneda, possono impedire che scienziati e militari dall’aria losca portino via entrambi…



La trama del film è veramente una creatura curiosa, sicuramente frutto del tentativo di comprimere in due ore l’imponente graphic novel di Katsuhiro Otomo, che è anche regista, sceneggiatore e designer dei personaggi dell’adattamento. Va velocissima nella prima parte, rombando gloriosamente come le splendide moto futuristiche dei protagonisti, anche se è solo l’introduzione del mondo e dei caratteri. Va lenta, persino con qualche tempo morto, nella seconda che è quasi azione non stop. Imbastisce un mondo immensamente ambizioso per raccontare la storia intima e contrastata di due amici d’infanzia. È ignorantemente e fieramente portata avanti da esplosioni, sfoggio di poteri telecinetici, intrattenimento puro, ma pure basata su un conflitto molto personale, su temi molto adulti (la volontà, l’innocenza, i principi animatori di questo mondo, il sacrificio), sul protagonismo di personaggi in buona parte difficili da scrivere (e da leggere, nelle loro motivazioni profonde). È insomma, uno di quei mix che, o hai in mano un capolavoro che riesce miracolosamente a tenere tutto assieme e farlo funzionare, o esploderà pesantemente come un mezzo corazzato qualsiasi sulla strada di Tetsuo. Nel caso di Akira, direi che la posterità ha già decretato su quale lato si adagia. Direi che posso coscientemente accodarmi, visto che nella mia particolare visione i capolavori sono proprio questo: non film perfetti, anzi, opere d’arte che si ergono per strani e sovente imperscrutabili motivi al di sopra dei loro difetti. Sono i Blade Runner, sono i Brisby e il Segreto di Nimh, entrambi del 1982 (l’anno del manga), da cui Akira sembra aver appreso una lezione importante, la costruzione di un futuro cyberpunk dall’uno, la guerra tra Scienza, Natura e Ignoto (intesa come polemos, uno dei principi eraclitei) l’altro. Che poi futuro tra virgolette, quel 2019 è tale solo sul calendario, il mondo di Akira è quello anni ’80 dei telefoni a gettoni e le manifestazioni studentesche e antigovernative che infuocavano le strade del Giappone. A tal proposito, se volete un valido rappresentante di finzione storica ambientato in quel mondo, vi consiglio caldamente di leggere Norwegian Wood, un libro straordinario scritto da chi, Haruki Murakami, quegli anni li ha vissuti davvero.



Frattanto nel film, uno dei gruppi di protesta finisce per incrociarsi con i giovani Centauri quando Kaneda, alla stazione di polizia dove li hanno sbattuti dopo il rapimento, si invaghisce di una dei membri, Kei. Anche se sembrano saperne sul misterioso vecchio-bambino – chissà se Otomo si è ispirato al Mamoo della Pietra della Saggezza, a sua volta modellato sull’attore Paul Williams de “Il Fantasma del Palcoscenico” – i ribelli e la loro lotta col potere costituito sono più che altro un MacGuffin per giungere alla presenza di Tetsuo. Meravigliosa e tragica però la loro fine, trascinati nella sorte parallela del consiglio di governo; divorati da questo Giappone al limite che fagocita e collassa continuamente su sé stesso. Esattamente come farà, in una esplosione di body horror, il corpo di Tetsuo, provato infine dai suoi poteri psicocinetici: acquisiti nello scontro fatale di quella notte, lo rendono praticamente imbattibile, al costo di tremendi mal di testa, visioni, incubi come quello delirante dei giocattoli indemoniati, che sembrano una versione satanica di certe carte di Yu-Gi-Oh. E una voce che lo chiama: ma, se proprio a lui appartiene, chi è questo fantomatico Akira? Comincia una marcia della morte attraverso Tokyo, mentre si accodano torme di fanatici millenaristi, in cerca del loro salvatore, e un esercito ottuso e violento cerca inutilmente di opporvisi.

16.3.23

Recensione: "After Love" (2020) - Su Mubi - Su Prime - Rocco's House

 

Un film perfetto, al quale non riesco a trovare un solo difetto (non per questo After Love va considerato un capolavoro, è "semplicemente" un film perfetto).
A Mary muore il marito Ahmed, marito per il quale si era convertita all'islamismo.
Per caso scopre che Ahmed aveva una storia parallela dall'altra parte della Manica (lui è un marittimo e lavorava tra le due coste).
Decide di andare a conoscere la donna che vive in Francia, l'amante.
Un film delicato con una sceneggiatura al tempo stesso semplicissima ma anche complessa nella gestione di questo triangolo impossibile (la scena della chat col figlio è in questo senso un capolavoro).
Una gigantesca (in tutti i sensi) Joanna Scanlan (la madre di Pin Cushion, lacrime) in un'opera dolorosa ma mai struggente, per quel suo modo meraviglioso di raccontare tutto in punta di piedi, in silenzio, con i sentimenti trattenuti dentro la pancia.
Un film dove la solitudine di aver perso il proprio amore è raccontato dal gesto meccanico, istintivo, di preparare ancora due thè.
Davvero bellissimo.


A volte, anzi, molto raramente, finito un film ho la strana e quasi fastidiosa sensazione di aver visto qualcosa di perfetto.
Non per forza un capolavoro, a volte nemmeno un quasi capolavoro, ma, "semplicemente", un film perfetto, un film di cui non cambieresti un dialogo, un personaggio, una scena, un film a cui non riesci a trovare un difetto di scrittura, di ritmo, di regia, niente di niente.
Magari ci sono film che ti piacciono anche molto più di questi che però sono film imperfetti e con cose che ti fanno storcere il naso.
After Love no, After love è perfetto.
Una di quelle storie minime che piacciono a me, pure banali le chiameremmo se dentro quel "banale" non ci fosse invece dentro un mondo intero. 

Una donna, Mary, presumibilmente inglese ma diventata musulmana per amore del marito Ahmed, è appena tornata a casa e sta preparando un thè.
In una inquadratura ferma (le prime due inquadrature prendono quasi 10 minuti) vediamo lei trafficare in cucina mentre chiacchiera amabilmente col marito che si sta svestendo in camera.
Poi Mary porta il thè ad Ahmed. Lo chiama due volte, lui non risponde.
Nella seconda inquadratura (una lentissima carrellata avanti da campo medio a primissimo piano, una delle mie preferite nel cinema) delle donne piangono vicino a lei, è probabilmente un funerale.
Ahmed è morto.
Poco dopo (forse lo stesso giorno, il film si svolge in davvero poco tempo) Mary scopre sul cellulare del marito dei messaggi strani con un'altra donna.
Un'altra donna che vive in Francia, dall'altra parte della Manica (le vicende si svolgono tra Dover e Calais, o almeno credo).
Mary prende un traghetto per andare a conoscere l'amante del marito.

Ne nasce un film malinconico, delicato, sempre costantemente sotto le righe e trattenuto.
Trattenuto come le emozioni di Mary che, una volta arrivata in Francia, non riesce a dire la verità a Genevieve, accettando addirittura di farle da donna delle pulizie.
Quella scelta apparentemente insensata è in realtà la scelta di una donna profondamente buona che non riesce a trovare il coraggio.
E questo suo prender tempo, questo suo restare in quella casa, la porterà a un viaggio dentro sè stessa, dentro le sue emozioni, dentro i suoi ricordi.
Affrontando piccole prove ma sempre più difficili (trovare le camicie di lui in quella casa, rassettando il letto dove presumibilmente il marito dormiva e faceva sesso con Genevieve e tanto altro).
Il suo dolore soffocato ma meravigliosamente accettato (la dignità di questa donna è straordinaria) creeranno un personaggio fortemente empatico per lo spettatore, l'unico che insieme a lei sa la verità.
Mentre lei trattiene tutto e tenta di tenere insieme tutti i pezzi, però, il suo mondo intorno pare sgretolarsi (in questo senso ho letto la frana che vede nella costiera alla partenza verso la Francia o il tetto che, come una polvere, si sgretola in camera di Genevieve).
Lei finge di restare tutta intera ma - metaforicamente - fuori tutto si sta sgretolando.

Avendo perso tutto Mary si abbandona nel mare


Anche perchè la sua era una storia di vero amore, un amore esclusivo, anche "sacrificale" (la scelta di cambiare religione per lui) e una volta perso Ahmed la donna si trova veramente senza più nulla (mantenendo però una forza e una dignità eccezionali).
Ah, la prova di Joanna Scanlan è da brividi. E' un'attrice che avevo già visto in un altro ruolo indimenticabile, quello della madre in quel piccolo grande film che è Pin Cushion, un film che fa male.
Un'interpretazione coraggiosa, con quel suo corpo così grande mostrato anche nudo. 
In questo senso perfetta la contrapposizione tra le due donne, molto grassa una, terribilmente magra l'altra, tutto volto a creare un grande disagio in Mary che, dopo aver visto Genevieve, mette in dubbio tutta la sua storia d'amore, anche dal lato fisico.

10.3.23

Recensione: "Holy Spider" - Cinema 2023 - 6 -

 

Dopo Border, film molto bello (ed anche a tratti fastidioso) torna Abbasi.
E passa da una favola nera con creature ibride uomini-troll (ambientato in Svezia, sua seconda patria) a questo film invece molto secco, lineare, realistico (ambientato invece in Iran, sua terra natale).
La storia super vera di un assassino iraniano che nei primi anni 2000 uccise 16 prostitute in nome di una "pulizia" morale e religiosa (per questo motivo anche dopo la cattura molti lo considerarono un eroe invece che un assassino).
Un film molto bello da vedere, recitato benissimo, capace di restituire la condizione femminile iraniana in modo perfetto (anche nell'aspetto, poche volte battuto, della prostituzione) ma che forse pecca un pò per una sceneggiatura troppo povera, senza tanti guizzi e molto lineare.
In ogni caso un grande film che vi farà star male (c'è una forte empatia per quelle donne vittime) e arrabbiare.
E che ha dentro una figura straordinaria di donna, Rahimi, simbolo di intelligenza, ribellione, voglia di verità e giustizia.
E di libertà.
La amerete

Ali Abbasi ha 42 anni e ha fatto "solo" 3 lungometraggi.
Mi manca il suo primo, Shelley, ho visto il secondo, Border.
Ecco, forse memore di quel film sono rimasto un pò spiazzato da Holy Spider, film sì basato su una storia verissima (direi proprio basato più che ispirato) ma che, visto il precedente film, non mi sarei mai aspettato così lineare e secco.
Passare da una favola nera con tanto di creature ibride tra umani e troll ad una storia quasi neorealistica dritta come una spada è molto particolare.
Di certo posso dire che, se non l'avessi saputo, mai avrei detto che questi due film fossero stati girati dallo stesso regista.
Abbasi è iraniano naturalizzato svedese e se nel film precedente ci racconta una storia di lassù, della sua seconda patria (non solo nell'ambientazione, ma anche nelle credenze popolari) adesso torna nella sua terra natia per raccontare la storia di Saaed Hanaei, un serial killer che nei primissimi anni 2000 uccise (almeno) 16 donne - tutte prostitute - in nome di una "pulizia" morale dovuta al suo credo religioso (tra l'altro tutta la vicenda si svolge a Mashhad, città conosciuta proprio per il suo integralismo e luogo di culto).
C'è una differenza molto grande e molto particolare con la reale vicenda, ovvero quella che nel film il nostro killer non fa mai sesso con le donne che uccide mentre nella realtà, almeno da quanto ho letto, accadeva spesso.
E' molto particolare la scelta di Abbasi perchè scegliendo in un modo (quello reale) o in un altro (quello del film) ci saremmo trovati davanti ad un personaggio profondamente diverso.
Se è vero che in entrambi i casi la matrice religiosa e la forma mentis dell'uomo sono la causa principale di tutto, nella vicenda reale trovarsi poi a far sesso con quelle donne "impure" e "sporche" dava a quell'assassino un'ambiguità e un'ipocrisia veramente molto interessanti. Si sa, ad esempio, che molto spesso gli omofobi più violenti sono persone latentemente omosessuali (che quindi, rifiutando quella loro condizione, esprimono con violenza e pubblicamente la loro mascolinità) e io, fossi stato Abbasi, avrei lasciato questo tratto della personalità dell'assassino, anche a dimostrare come molto spesso i dettami religiosi che si portano avanti, anche arrivando all'omicidio, non sono cose in cui si crede veramente ma solo maschere o "ubriacature" che nascondono la vera essenza di molti esseri umani.
Invece alla fine possiamo dire che il vero "colpo di scena" del film è proprio l'integralismo dell'assassino, un killer che crede veramente in quello che fa, che non ha alcuna perversione sessuale sotto (oddio, a volte magari ha piccole tentazioni ma le reprime proprio pregando), che non ha doppi fini, Certo, forse questa scelta rende la vicenda ancora più inquietante (un uomo che uccide 16 donne senza altri fini pensando solo di fare la cosa giusta per religione è ancora più terribile) ma rende la sua figura secondo me molto meno complessa psicologicamente.
E pensare che tutte queste righe non le avrei mai scritte se, come faccio sempre, non avessi letto nemmeno due righe sulla vera vicenda (ma ero troppo curioso).

Al di là di questa sottile (ma sostanziale) differenza Holy Spider - come dicevo - è un film secco, fortemente realistico, che ripercorre questa vicenda così famosa in Iran.
Ci tengo subito a dire che mi affascinano moltissimo le ambientazioni mediorientali, i volti, i vestiti, le usanze (sia quelle positive, umanamente e culturalmente, che quelle terribili).
E ritrovarmi una storia di prostituzione e sesso (anche se nel film ce n'è pochissimo) nel paese più lontano possibile da questo immaginario, l'Iran, credo sia veramente uno dei punti di forza del film (questo Iran underground e "sporco" mi ha rimandato anche a quel gioiellino di "A girl walks home alone at night").
Film che comincia con un grande incipit (ah, il film è fotografato in maniera straordinaria, ha colori e luci notevolissimi e, come sempre in queste latitudini, gli attori sono eccezionali), incpit che, almeno per quanto mi riguarda, ha un grande pregio, ovvero regalarci un personaggio femminile che in soli 5 minuti mi aveva dato la sensazione che avrebbe potuto essere invece il principale.
Visto l'incipit ho immaginato che la figura del killer (nel primo omicidio non distinguibile) rimanesse nell'ombra per tutto il film (o comunque ci si svelasse solo alla fine) e invece no, Holy Spider procederà sin da subito (e sempre) in un - ottimo - montaggio alternato tra le vicende del killer (sia famigliari che i vari omicidi) e quelle di Rahimi, la giornalista intervenuta ad indagare su di lui.


E' indubbio che la tematica principale del film sia quella della condizione femminile in Iran.
Ma stavolta non tanto (o meglio, non solo) riguardo tutti i problemi che conosciamo benissimo (il doversi nascondere, il ruolo sociale praticamente nullo, il completo asservimento, la mancanza di diritti e svaghi) ma in questo aspetto abbastanza "nuovo", ovvero il mondo della prostituzione.
Già (vedi l'incipit) vedere queste donne truccarsi, vestirsi in modo più libero, mettere un rossetto ci sembra qualcosa di sbagliato, pericoloso, immorale. Lo spettatore percepisce benissimo questo clima, clima nel quale poi quell'assassino diventa addirittura, per la maggior parte delle persone, un benefattore, un eroe, uno che ripulisce la città dal vizio.
Uno che si poteva permettere di buttare le sue vittime nei fossi alla luce del sole, come fossero un trofeo di guerra che la gente doveva vedere.

8.3.23

Decimo Raduno de Il Buio in Sala aka Terzo Radunetto del Buio in Sala aka Primo Radunetto senza fissa dimora (14-15-16 Aprile - Perugia e dintorni)



 Non volevo fare il Radunetto (ossia il raduno intermedio di Marzo/Aprile che avevamo cominciato a fare, con successo, nell'era preCovid).
Non volevo farlo perchè per la prima volta il nostro luogo simbolo di ritrovo, il Supernova, non esiste (non ce l'ha al momento in gestione nessuno) e quindi preferivo organizzare al meglio (trovando un'altra soluzione) il Raduno di Settembre e lasciar perdere questo.
Però mi son detto "sarebbe comunque bello passare un fine settimana intermedio con gli amici".
Li ho contattati, il primo ha detto sì, il secondo uguale, il terzo pure, il quarto anche.
E, insomma, mi sono ritrovato con tipo il 100% di adesioni dopo i primi 10 contatti.
E allora mi son detto "vabbeh, a sto punto possiamo ratificallo ufficialmente come "Radunetto" e ce faccio il post, casomai si aggiunge qualcuno".
E così ho fatto.
Sarà un raduno molto diverso dagli altri, anzi, a ben pensare, non essendoci un luogo di raduno, non è manco un raduno quanto piuttosto un fine settimana passato insieme, tra cinema (direi di vedere uno o due film in sala), cibo (si mangia sempre insieme pranzi e cene) e scampagnate (il sabato andremo a visitare qualche borgo umbro o toscano).
Insomma, rispetto agli altri 9 raduni non avremo un luogo la sera tutto nostro ma per il resto, se possibile, faremo anche più cose insieme.

Ovviamente, come sempre, metterò a disposizione alloggi a prezzi facilitati, come il mitico Hotel Signa o, per chi vuole, il nostro agriturismo.

Le date sono 14-15-16 Aprile

Il 14 ceneremo insieme (e magari andiamo anche al cinema), il 15 andremo a visitare qualche borgo, poi la sera - credo - andremo a vedere un film e poi si rimangia insieme.
La domenica, per chi resta, solito ultimo pranzo.

Insomma, 4 pasti, 2 film (o uno), un borgo visitato.
E tante risate.
A differenza dei raduni passati non vi stresserò dicendovi di venire perchè, non avendo il Supernova, più siete più sarà difficile gestire (pensate solo ad entrare in sala in 30...).
Però, alla fine, più siete più sarà bello.
Come smentirsi in due righe.

Per qualsiasi informazione contattatemi :)

2.3.23

Recensione: "The Whale" - Cinema 2023 - 5 -

 

The Whale è un film gigantesco, quasi quanto il suo protagonista.
Un'opera dolorosa e coraggiosa.
Un film dove l'obesità non diventa mai il tema principale ma soltanto una delle tante possibili scelte che si potevano prendere per raccontare una storia, una storia di amore, di odio, di cattiveria, di condanna, di perdono, di misericordia, di sofferenza.
Con dei personaggi molto complessi, anche "sbagliati" come esseri umani, a cui però non puoi non voler bene.
Dopo Il Cigno Nero, The Wrestler (a proposito, tra i 3 film c'è un emozionante punto in comune) e Madre! l'ennesima conferma di quanto questo regista sappia emozionarmi e farmi riflettere.
E di quando sappia raccontare tutti i lati migliori, e quelli peggiori, degli esseri umani

PRESENTI SPOILER SIN DA SUBITO



Appena visto lo struggente finale, in una specie di immediata epifania (ma le epifanie sono immediate per definizione) mi sono venuti in mente 3 film, sbam, come se quel finale li avesse racchiusi tutti.
Con una certa emozione mi sono accorto poi che due dei tre film che mi sono esplosi in testa erano dello stesso Aronofsky.

Il Cigno Nero finisce con la (quasi sicura) morte della protagonista, con un ultimo salto.
The Wrestler finisce con la (quasi sicura) morte del protagonista, con un ultimo salto.
The Whale finisce con la (quasi sicura) morte del protagonista, anche qui con un ultimo ed estremo gesto fisico.
Tre film (i soli che ho visto del regista oltre Madre!, per me 4 film straordinari tutti) che finiscono tutti allo stesso modo, con il protagonista che muore (lo diamo per certo anche se non è mai esplicitato del tutto).
Eppure, ed è questo il punto di incontro più emozionante, tutte e 3 le morti nascondono un senso di "felicità" al loro interno, il raggiungimento di un obiettivo (inseguito peraltro per tutto il film).
Per Nina arriva finalmente quel senso di perfezione che tanto ricercava.
Per Randy the Ram il momento che anche lui tanto ricercava, quello del tornare ad essere amato, ad essere l'idolo della folla.
Per Charlie, il professore obeso del film, quello del ricongiungimento affettivo con la figlia, in qualche modo fino a quel momento bloccato da 9 anni nella tesina che la stessa scrisse su Moby Dick.
I finali sono tutti e 3 pieni di pathos, empatici, dolorosi, eppure quelle 3 persone hanno, in qualche modo, "deciso" di morire in nome di ideali o di emozioni per cui, per l'appunto, valeva la pena anche morire.
E' vero, le differenze ci sono, ad esempio il nero che inghiotte lo schermo poco dopo che Randy salta dalle corde è opposto al bianco dell'ascensione di Charlie. Uno se ne va quasi piangendo, l'altro probabilmente nel momento più felice dei suoi ultimi anni.
Eppure, come dicevo, tutti e due gli uomini (e anche Nina) preferiscono il rischio di morire "felici" a quello di non morire e tornare ad una "vita non vita" alla continua ricerca di qualcosa.
Ma c'è un altro film che questo grande finale mi ha ricordato, ed è Birdman.
Anche lì un padre e una figlia.
Anche lì un rapporto impossibile che sfiora l'odio.
E anche lì una probabile morte finale trasformata invece, con lirismo, in un'ascensione, in qualcosa di "bello", liberatorio, leggero.
The Whale finisce ma probabilmente, come già fece Emma Stone in Birdman, anche Sadie Sink (Ellie) avrebbe alzato gli occhi all'insù e, forse, riso pure lei.


The Whale è un film gigantesco quasi quanto il suo protagonista.
Un'opera dolorosa, coraggiosa, ambigua.
Un film dove l'obesità non è mai il tema principale ma soltanto una delle tante possibili scelte che si potevano prendere per raccontare una storia.
Una storia di amore, di odio, di cattiveria, di condanna, di perdono, di misericordia, di sofferenza.
Con un personaggio in tutti i sensi enorme che, quasi come un Cristo, sa regalare solo amore e perdono, qualsiasi cosa succeda, qualsiasi cosa gli facciano o gli dicano (in questo senso segnalo una piccola perla sull'argomento, "Tore Tanzt").

"Non hai mai la sensazione che le persone siano incapaci di non amare?
Le persone sono meravigliose"

E' in questa commovente e presumibile bugia (per noi, non per lui che ci crede veramente) che dice nel finale Charlie che possiamo ritrovare l'anima del film, un film su un uomo ormai alla deriva (e la deriva è anche il modo in cui muoiono spesso le balene), privo di prospettive, imprigionato sia nei ricordi (del compagno perso, della famiglia abbandonata) sia in un corpo ormai mastodontico che gli preclude qualsiasi cosa, un sarcofago di carne dentro il quale l'unica cosa da fare è aspettare di morire.
Un'obesità (come spesso accade) arrivata a causa di dolore, perdita e solitudine, di un vuoto che Charlie ha riempito col cibo.
Tutto abbastanza classico.
Ma The Whale, malgrado il corpo pantagruelico di Charlie sia sempre lì davanti ai nostri occhi, malgrado in ogni dialogo se ne faccia menzione, malgrado sia sempre l'epicentro di tutto, non sembra parlare di obesità ma, in generale, di qualsiasi condizione di abbandono di sè, tristezza cronica, situazione invalidante e irreversibile.
Più passa il tempo, più la solitudine e i dolori aumentano più Charlie ingrassa (non è un caso che sia raddoppiato dopo la morte del compagno e che moglie e figlia ne avevano un ricordo profondamente diverso).
Probabilmente se Charlie non morisse, o se non fosse comunque ormai destinato a morire dopo questo finale avrebbe potuto ricominciare una nuova vita, anche fisicamente.
Ma ormai, davvero quasi come un Cristo, aveva accettato di morire, con molta serenità.
Con un'ultima missione, regalare tutto l'amore possibile.

Nei tre film precedenti che avevo visto di Aronofsky (Il Cigno Nero, The Wrestler, Madre!) il regista stava sempre appiccicato al suo protagonista, a un palmo di naso da lui, e lo seguiva ovunque, con un tipo di regia (alla Van Sant) che a me piace da morire.
Qui non poteva, qui il suo personaggio è lì, fermo, e così anche il suo modo di girare sarà profondamente diverso. Resta comunque sempre attaccato a lui, ovviamente, ma senza potersi muovere, in una specie di regia centripeta, senza possibili vie di fuga, una regia per cui qualsiasi azione, qualsiasi movimento, resterà nell'orbita di pochi metri di quel corpo gigantesco e di quel divano.
Ovvio che per questo modo di girare di Aronofsky servano sempre attori eccezionali, attori che sanno reggere quello sguardo addosso di un'ora e mezzo.
E come la Portman, Rourke e la Lawrence anche Fraser offre una prova eccezionale, forse da un certo punto di vista più "facile" dei 3 menzionati (sei quasi sempre fermo e con una protesi che fa diventare il tuo personaggio empatico già di suo) ma al tempo stesso le maglie più strette (oddio, sembra una pessima battuta) gli permettono anche molte meno cose.

Ma è indubbio che l'interpretazione (e il personaggio) che rimane più addosso sia quella di Sadie Sink, ragazzina famosa soprattutto per Strangers Things (che non ho visto ma la puntata cult dove c'è lei sospesa l'ho vista, per sbaglio).


Ellie è un personaggio grandioso e complesso, come del resto anche quello di Liz (sul quale torneremo, anche lei ha molte ombre).
Ragazzina che ha visto suo padre andar via a 8 anni, che è vissuta sempre o nel disamore o nella mancanza d'amore, con un padre assente e una madre problematica e incapace di capire la sua rabbia e il suo dolore.
Una ragazzina cattiva, una ragazzina che dileggia sui social il padre obeso (addirittura augurandogli la morte in pubblico), una ragazzina che urla il suo odio continuamente, una ragazzina che accetta di stare col padre solo per prenderne l'eredità, una ragazzina alla fine talmente incattivita e "rovinata" che rompe anche il piattino del cibo dell'innocente uccellino.
Una specie di mostro, pare.
Eppure, e in questo si dimostra la grandezza del film, della sceneggiatura (derivata) e della prova della Sink, più questa adolescente fa e dice cose mostruose più l'amiamo, più vorremmo essere lì ad abbracciarla forte, più capiamo quello che sta provando, quello che ha vissuto e quello che non ha vissuto.
Il film è coraggioso perchè anche se noi in modo latente percepiamo le "cose belle" di Ellie, il suo amore contrastato per il padre e il tremendo desiderio di dare e ricevere affetto, questo personaggio resterà "negativo" fino a fine film, la sua struggente maschera (protettiva) d'odio reggerà fino all'ultimo minuto.
Ma Charlie, come noi, di quell'odio, di quelle cattiverie (terribili) quasi nemmeno se ne accorge o, comunque, non gli interessano.
Lui sa che quella sua figlia è una ragazza potenzialmente meravigliosa, profonda (non è un caso che il fil rouge del film, il temino su Moby Dick, sia così importante, non tanto per l'ovvia metafora e analogia con Charlie-balena ma soprattutto per capire la profondità dell'animo di quella bambina ora adolescente) che anche per colpa sua adesso si trova in quella situazione.