31.5.22

Recensione: "Nostalgia"

 

Nostalgia è un grande film, malinconico, emozionante, teso.
La storia di Felice, un 55enne che dopo 40 anni torna a Napoli, la sua città natale, città dalla quale dovette fuggire dopo una terribile vicenda.
Felice torna ma non sembra nemmeno un uomo adulto, piuttosto un bambino che torna a quello che era e a pieni polmoni respira tutti i ricordi di un tempo.
Ma il mondo è andato avanti, sono passati 40 anni, di cose nel Rione Sanità ne sono successe e Felice dovrebbe prenderne atto e, magari, andarsene via.
Ma ormai è impossibile farlo, Napoli è tornata dentro le sue ossa e lì vuole restare.
Ancora una volta grande cinema italiano, di grandi attori, di grandi luoghi e di piccole storie ordinarie che diventano straordinarie, con alcune sequenze che non se ne vanno via.
Come quella di una tinozza e di una vecchia donna nuda, scena talmente bella e talmente simbolica da far parte di ognuno di noi.

GRANDI SPOILER DOPO LA FOTO DI ORESTE (L'UOMO COI CAPELLI BIANCHI)


Era soltanto il mio secondo Martone.
Il primo, Capri-Revolution, mi lasciò un'impressione strana, tanto interessante e particolare per molti versi quanto talmente pieno di cose da darmi l'impressione di non riuscire a tenerle tutte assieme.
Ecco, Nostalgia no, Nostalgia è un film che ho amato tutto e a cui riuscirei a cambiare davvero poco.
Felice è un bel 55enne (il solito spettacoloso Favino i cui sorrisi e i cui occhi mi rapiscono sempre, mortacci sua) che vediamo tornare a Napoli in aereo.
Scopriremo poi che vive a Il Cairo da 40 anni, fuggito dalla sua città natale in seguito ad un episodio che verrà fuori solo a metà film.
A Napoli c'è ancora la sua anzianissima madre.
E tanti tanti ricordi.
Tra i quali quello dell'amico del cuore, più d'un fratello, amico che adesso ha preso una strada molto diversa dalla sua.
Felice vuole incontrarlo, a tutti i costi.

Martone racconta (ancora una volta, come in tutta la sua carriera) la sua Napoli e basterebbe solo quella a far grande il film.
Siamo nel Rione Sanità, uno dei quartieri più popolari e degradati della città (malgrado mi hanno raccontato come, in realtà, questo rione nacque come polo borghese e nobiliare).
E' una Napoli "vecchia", bellissima, fatta di viuzze, mercatini, murales.
Soprattutto nei primissimi minuti del film Martone sfrutta il suo personaggio per aggirarsi in questi vicoli e in mezzo a queste persone (curioso come Felice, probabilmente solo per l'abbigliamento, venga preso sin da subito come uno "di fuori", vedere ad esempio il cameriere che gli fa domande in inglese) facendo calare lo spettatore sin da subito in un contesto tanto affascinante quanto "nervoso" e "stretto", un contesto in cui il personaggio di Felice ci sembra continuamente fuori posto.
In realtà Felice, e questo è un aspetto talmente importante del film da ricavarci fuori quasi una tematica, si sente completamente a suo agio.
La sua felicità ed emozione nell'essere ripiombato (senza che fosse mai tornato prima) nella sua città natale sono talmente forti da nascondere tutto il resto.
E questo sarà il mood, quasi commovente, dell'intero film, ovvero quello di un 55enne che, appena messo piede a Napoli, torna il 15 enne di allora.
E tutto per lui è bello, e tutto è "facile", e tutto può essere risolto col sorriso.
In realtà tutto ora è diverso, Felice si ritrova invischiato in una storia criminosa, tutti provano a dirgli di andarsene (un pò come Capuano al giovane Sorrentino in E' stata la mano di Dio, film che più volte mi è tornato in mente qua) ma lui non si rende assolutamente conto di quello che sta accadendo, come se rifiutasse la vita adulta (o quantomeno rifiutasse il sè adulto di adesso a Napoli).
Lui è ripiombato nei suoi ricordi, lui non ha vissuto quei 40 anni di Rione Sanità.
E l'errore più grande che farà è pensare che il tempo si sia fermato, che quello che si era un tempo si è anche adesso.


Nostalgia ha un grande merito, ovvero quello di raccontare una storia bellissima (non a caso è un romanzo).
Un 55enne che torna a Napoli dopo 40 anni (c'è una cura sul linguaggio di Favino su cui tornerò), una madre da ritrovare ed accudire, un ricordo terribile che piano piano torna fuori, la vita parallela di un amico adesso opposto a te.
E' l'esaltazione di quei racconti popolari semplici ma perfetti, con un piccolo intreccio, racconti al tempo stesso ordinari ma con quei 2/3 aspetti che li rendono straordinari (come qualsiasi nostra vita, se solo abbiamo l'occhio e la capacità di coglierli).
E poi grandi attori, e poi una grandissima atmosfera, e poi una Napoli che più la vedo più la amo.
Ho parlato di atmosfera perchè questo film che per larghi tratti sembra una via di mezzo tra un drammatico soft e un malinconico per poi diventare un thriller di altissimo livello.

27.5.22

Recensione: "Rue Garibaldi" - BuioDoc - 53 -

 

Due fratelli italiani (di origine tunisina) emigrati a Parigi.
Una piccola casa, in Rue Garibaldi.
Intorno a loro l'immensa Ville Lumiere è preclusa alla nostra vista, resteremo sempre in quella piccola casa, con loro.
Lavori persi, altri trovati, un eterno presente senza avere la minima certezza del domani.
Una piccola nostalgia della loro Sicilia ma la testa completamente concentrata nel sopravvivere all'oggi.
Un film dolce, un documentario minimo diretto e montato da un'unica persona, un giovane regista italiano anch'esso emigrato più volte all'estero, anch'esso funambolo in un continuo precariato.
Ha vinto a Torino, ha vinto anche altrove.
Cercatelo, e se un giorno avrete la possibilità di vederlo passate anche voi un'ora e 20 con Ines e Rafik.

 Per l'ennesima volta mi ritrovo a scrivere ad una settimana dalla visione (e a 25 giorni dall'ultima recensione).
E' un periodo in cui faccio davvero fatica a mettermi al pc a scrivere, ma passerà.
Forse a causa di un mio vocabolario non troppo ricco o per la difficoltà, in certi casi, di trovare sinonimi adeguati, mi ritrovo una volta ogni due a definire i film recensiti qui sul blog come "piccoli".
Niente, è più forte de me, mi scappa sempre il "piccolo".
Eppure questo è davvero uno di quei casi in cui definire Rue Garibaldi un film piccolo è, semmai, un accrescitivo.
Rue Garibaldi è cinema minuscolo, un no budget diretto, montato e musicato tutto da un'unica persona, Federico Francioni.
Ho conosciuto Federico in sala (ci eravamo scritti prima più volte) e abbiamo fatto una bella discussione post film (anche se io, malgrado in queste discussioni spesso mi ritrovi a parlar tanto, preferirei sempre comunque evitarle perchè se il regista mi parla di una tematica o di un aspetto dove avevo avuto un'intuizione già da solo (tipo le "finestre" in Rue Garibaldi, prima cosa che ho scritto nel taccuino) poi sembra quasi che l'abbia presa da lui. Così come, al contrario, se viene fuori una cosa alla quale non avevo proprio pensato poi mi pesa da morire metterla in recensione, non essendo "mia". Insomma, la soluzione migliore sarebbe che io debba solo vederli i film, senza parlare con gli autori. Oppure smettere di scrivere che faccio ancora prima).

Rue Garibaldi è la minima storia di due fratelli italiani (di origini tunisine) emigrati a Parigi dalla Sicilia.
Non sappiamo perfettamente perchè (ma questo sarà un must dell'intero film, film reticente come pochi, capace di darti informazioni senza mai andare del tutto ad approfondirle), forse è la classica (oddio, classica direi proprio di no, anzi, cosa per pochi) botta di vita per cui parti, così, senza una lira e senza un progetto e te ne vai lontanissimo.
Loro si chiamano Ines (che è partita per prima) e Rafik (che l'ha raggiunta dopo), sono occhialuti, dolci, lei più risoluta e cazzuta lui più bonaccione e certe volte un pochino sulle nuvole.
Stanno in un piccolo e scomodo appartamento sulla periferia di Parigi, cercano lavori, trovano lavori, perdono lavori, vivono come funamboli sopra l'abisso della precarietà.
Federico, il regista, si innamora della loro storia di virtuali "doppi" emigrati (virtuali perchè in italia, seppur da genitori tunisini, ci son nati) e si trasferisce da loro.
La sua presenza (del regista dico) è perlopiù invisibile ma non forzatamente nascosta, nel senso che più volte - anche senza esser mai visto - cogliamo interazioni tra i due ragazzi con lui.
E niente, passiamo con loro un tempo indeterminato (allo spettatore potrà apparire una settimana come svariati mesi), senza che avvenga niente di troppo importante, senza che si avverta mai una sceneggiatura.
La vita che accade, sic et simpliciter.




Francioni usa quasi sempre inquadrature fisse, spesso (come accennato sopra) mostrando finestre.
Non è un caso visto che Rue Garibaldi si svolge - per il 90% della sua durata - dentro l'appartamento dei ragazzi, un microcosmo di 4 mura che sembra cancellare del tutto l'immensa Parigi.
Ecco, questo è forse uno degli aspetti più coraggiosi e originali di questo piccolo film.
Se sei a Parigi e non usi Parigi o sei un folle, o sei un genio, o hai un'idea così forte che te ne freghi di "lei".

6.5.22

Recensione: "Bad Roads - Le strade del Donbass"

 

In questo periodo in sala non così ricco di bei film probabilmente Bad Roads è la miglior cosa che potrete vedere.
Siamo in Donbass (ma il film è del 2020, in tempi non sospetti).
Quattro piccole storie, quattro episodi tutti svolti in uniche location.
Un modo per raccontare il clima della guerra - di tutte le guerre - davvero notevole.
Dialoghi eccezionali, vicende tutte legate da fili sottilissimi che, in una sceneggiatura davvero stimolante, sarà bellissimo ricercare per lo spettatore.
Un posto di blocco, una panchina, un ex sanatorio distrutto, una fattoria.
Un film quasi teatrale che racconta dei "duelli psicologici" tutti giocati sul vero ed il falso, sull'impossibilità di capire le reali intenzioni dell'altro.
Ben recitato, benissimo girato, straordinariamente scritto.
Sarebbe piaciuto a Gogol


presenti spoiler

Per prima cosa ringrazio la Trent Film, la casa di distribuzione italiana del film che mi ha invitato a vederlo in sala.
Per chi mi conosce sa che questa cosa non influisce per niente nel mio giudizio sul film.
Che è bellissimo.
Bad Roads non è un instant film, non è stato girato (e come sarebbe stato possibile poi) dopo l'inizio della guerra in Ucraina ma, al contrario, è forse grazie a questa tragedia che, per fortuna, ha potuto vedere la luce della distribuzione italiana (il film è del 2020).
Io sono uno a metà, abbastanza informato sulle cose ma che non le approfondisce quasi mai.
Quindi eviterò di spiegar bene la situazione geopolitica che racconta il film perchè non sarei in grado. Lascio questa incombenza a chi ha le competenze per farlo.
Ma non è per giustificare la mia "ritirata" che mi sento di dire che se è vero che Bad Roads è film molto ancorato alla realtà che racconta (ovvero quella degli scontri, già cominciati nel 2014, in Donbass, la regione-fulcro di tutto quello che poi ha portato alla tragedia di oggi) è anche vero che secondo me il film può essere analizzato anche eradicandolo da tutto questo.
Ma del resto spesso capita ciò, ovvero che un film che racconta una guerra può essere paradigma di tutte le guerre.
Quindi lo affronterò come affronto sempre i film io, cercando di coglierne il cuore, le tematiche, le emozioni e la scrittura.


Ho trovato eccezionale in questo senso la struttura di Bad Roads.
Quattro episodi, tutti assolutamente ben definiti e diverso l'uno dall'altro.
Eppure, con una scrittura davvero magistrale, i 4 episodi sono legati in una maniera sublime, non certo soltanto perchè ambientati nella stessa zona e perchè raccontano lo stesso scenario.
Tutto Bad Roads è praticamente basato sui dialoghi tra i personaggi.
Ogni episodio è in un'unica location (nessuno supera 20 metri di spazio) e, quasi in maniera teatrale, tutto il pathos e la narrazione degli eventi è appunto affidata ai dialoghi.
Nel primo episodio abbiamo un posto di blocco dove due guardie ucraine fermano un preside ubriaco.
Nel secondo avremo 3 amiche su una panchina della fermata del bus.
Nel terzo una ragazza e il militare che l'ha rapita per abusarne.
Nell'ultimo una donna e due contadini.

Cosa accomuna tutti questi episodi?
Il fatto che, tranne che nel secondo, si instaura sempre un dialogo tra i personaggi in cui è quasi impossibile capirne le intenzioni, quasi impossibile discernere tra la verità e la menzogna, quasi impossibile capire se questi personaggi stanno "scherzando" o dicendo la verità.
Dei veri e propri duelli psicologici, scritti in maniera divina, che raccontano una realtà impossibile da comprendere, una realtà per cui non sai mai chi sia la persona che hai davanti, se sia pericolosa e, nel caso, quanto pericolosa.
In tre episodi su quattro arrivi alla fine con una sensazione stranissima, ovvero quella di non essere sicuro di chi hai avuto davanti.

Nel primo episodio, ad esempio, hai sempre il terrore che quei due militari facciano qualcosa di brutto.
O che il preside stia inventando balle.
Poi, man mano che andiamo avanti, lo spettatore comincia a cambiare idea, forse quel preside sta dicendo sempre la verità e quei due militari si stanno solo divertendo con lui, per passare il tempo.
E' così bella, inafferrabile e complessa la scrittura dei dialoghi di questo film che persino la scena dell' "apparizione", quella in cui il preside è sicuro di aver visto una sua allieva dietro la trincea, alla fine pensi che possa essere successa veramente (anche alla luce di tutto quello che accade negli episodi successivi).
La stessa struttura, quasi identica, l'abbiamo nel quarto episodio.
Ancora una volta un personaggio (in questo caso la donna borghese) in una situazione disagiante e di possibile pericolo, marionetta di altri due personaggi (i contadini in questo caso  come nel primo furono le due guardie).
Anche qui stessa sensazione, stiamo per assistere a qualcosa di terribile o tutto è solo un "gioco"?

E pure in questo caso arriviamo alla fine senza nessuna certezza.
I contadini sin dal principio avrebbero voluto lasciarla andare?
Oppure le loro intenzioni erano diverse ma poi, parlandosi, si sono "umanizzati" ?
(non è un caso che la vecchia cambi atteggiamento quando sente piangere un bambino, come se quel pianto "atavico" le faccia riacquistare la ragione).

Un episodio al limite del surreale (questo film ricorda molto un certo tipo di letteratura in cui ironia e terrore si fondono insieme) in cui si mantiene lo stesso canovaccio, ovvero un serrato dialogo tra due "parti" di cui una delle due non sa le intenzioni dell'altra (come il sindaco non sapeva le intenzioni dei militari così nel terzo la ragazza non sapeva quelle del soldato così qui la donna non sa quelle dei contadini).
E' incredibile come più volte mi sia ritrovato a ridere in questo episodio malgrado una piccola tensione che mai m'ha lasciato.
Se dovessimo dire che il film è un insieme di 4 cortometraggi, ecco, questo è forse quello che si regge meglio sulle proprie gambe, quello che potrebbe funzionare meglio anche senza nessun contesto.
Eppure anche qua, come in tutto il resto del film, la "guerra" se non presente direttamente è quella cosa che dà colore all'atmosfera, che rende ogni azione ed ogni dialogo come minaccioso.
In questa terra dove è quasi impossibile capire chi sono gli amici e chi i nemici, chi i fratelli e chi no, chi legato all'Ucraina tutta e chi magari vuole l'indipendenza del Donbass, ecco che qualsiasi persona si incontra può essere pericolosa.