Quattordicesimo appuntamento con Roberto e le sue recensioni "poetiche" su film che lo hanno emozionato.
Stavolta è lo stesso film che racconta in qualche modo di poesia e di un poeta, il Paterson che dà titolo al film (interpretato da Adam Driver, attore magnifico).
Stavolta è lo stesso film che racconta in qualche modo di poesia e di un poeta, il Paterson che dà titolo al film (interpretato da Adam Driver, attore magnifico).
Anche questo qua non l'ho visto mannaggia (anzi, a dir la verità di Jarmusch ho visto solo due film...), quindi non posso leggere, lascio il piacere a voi.
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Dissolvenza in blu.
La celebrazione dell’istante.
Una lunga serie di pomeriggi sotto un calicanto.
La bellezza spesso si trova nelle grandissime cose.
Che cos’è Paterson?
(Questo film segue semplicemente la vita di Paterson, un conducente di autobus che vive in una cittadina con lo stesso nome. Lui ama scrivere poesie. Lo seguiamo ogni giorno per una settimana della sua vita. È tutto).
Il fatto è che questo film – dal ritmo estremamente lento, a tratti deliberatamente banale, sostanzialmente sconclusionato e inconcludente, imperfetto, manchevole, prevedibile, fuori posto, pervaso da una involontaria e opaca eco di ardire filosofico, continuamente in bilico tra l’abisso del niente-di-nuovo e quello del del-tutto-nuovo – è in realtà un film da non perdere, che adoro malgrado e grazie a ogni sua insensata delicatezza.
È un film che parla di poesia, ovvero uno dei temi più difficili al mondo, qualcosa che è sulla bocca di tutti ma nei polmoni di pochi.
Paterson è significativo, necessario, importante.
Perché si articola intorno a una delle domande fondamentali della vita:
preferiresti essere un mulo?
Non accade niente che non sia tutto.
Lunedi. Paterson apre gli occhi, una specie di sveglia silenziosa e immaginaria suona nella sua testa, tra le sei e dieci e le sei e mezza, ogni mattina. Bacia e abbraccia Laura, la sua ragazza, che dorme accanto a lui. Accarezza Marvin, il loro cane. Fa colazione. Cammina fino alla stazione dei bus. Si siede al posto di guida e, tirato fuori il suo fedele taccuino, annota dei versi, compone qualche strofa: è la sua quotidiana dose di poesia. Arriva il collega che si lamenta dei mille problemi della vita. Poi il bus parte, e Paterson – che vive a Paterson e che guida un bus chiamato “23-Paterson” – ascolta i discorsi dei passeggeri, affacciandosi in ogni vita possibile. Pausa pranzo. Consuma il suo pasto (nella sua lunchbox fanno capolino una foto della sua ragazza e un ritratto di Dante), scrive altri versi, continua la sua poesia. Torna a casa. Sul vialetto di ingresso riposiziona la cassetta delle lettere che pende da un lato. Cena con la sua Laura. Poi esce a passeggiare con Marvin. Si ferma al solito bar per la solita birra. Torna a casa, è notte, si infila a letto, abbraccia Laura. Il giorno finisce.
E poi di nuovo. Martedì. Sveglia, bacio, colazione, bus, poesia, collega, parole, pranzo, mi piace molto come hai dipinto le tende, cena, passeggiata, bar. E poi di nuovo. Alba, carezza, colazione, camminare, poesia, quante storie custodite nei volti del mondo, cane, birra, notte. E ancora. Luce, sorriso, taccuino, passeggeri, Laura, Marvin, pancake, chitarra, e la pioggia si ferma e mi fermo anche io. E mercoledì e giovedì e ancora e ancora e la bellezza del gesto.
Mi sveglio, sento il suo respiro sulla mia schiena, mi alzo e faccio colazione, devo ricordarmi di fare le fotocopie del taccuino, sì te l’ho promesso le farò questo weekend, l’aria è tiepida e sa di profondità oceaniche, cammino e osservo chiunque, compongo versi, mi siedo, scrivo, accendo il motore, la poesia è un fiore che sboccia dentro un temporale, ascolto i discorsi delle persone, il pomeriggio arriva senza avvertire, il vialetto di casa mia, ma perché questa cassetta delle lettere pende sempre da un lato?, la sistemo, ascolto i sogni della mia ragazza, il suo entusiasmo è un fiume in piena, c’è odore di dolci, le tende colorate, mi chiede oggi cosa ho scritto, ceniamo mentre il tramonto ci attraversa, esco con il nostro cane, mi siedo al bar, la vita scorre, bevo la mia birra, torno a casa, mi infilo nel letto accanto a lei, sento il suo respiro sul mio naso, mi addormento.
Chi è Paterson?
(E chi è il poeta?)
Può un film che non dice nulla parlare di ogni cosa, dell’unica cosa?
Quante domande: quanti demoni.
Il demone che fa più paura è tanto antico quanto affamato, si chiama «chi sei?».
Chi sei, Paterson?
Dove non stai andando?
In questo film non accade praticamente niente di niente, o forse accade proprio il niente di niente.
Qualcosa di stupefacente, meraviglioso e terribile.
Esattamente come la poesia.
Il luogo preferito di Paterson. E quindi la domanda ritorna: chi sei?
(E perché i poeti? – come si chiede Heidegger).
Può un film senza storia, che non ti racconta niente, parlare di te?
Il fatto è che questo film – dal ritmo ripetitivo e circolare, a tratti banalmente dolce, inconcludentemente sostanziale, semplice, complesso, sorprendente, fuori piove, pervaso da una costante e malinconica inquietudine, continuamente in bilico tra l’oceano del non-è-successo-niente e quello del questo-sono-io – è in realtà un film assolutamente da non perdere, che adoro nonostante e a causa di ogni sua delicata insensatezza.
È un film che parla dell’essere poeti, ovvero un qualcosa che chiunque suppone o crede di poter essere, ma che appartiene soltanto ad alcuni.
Paterson è significativo, essenziale, profondo.
Perché in qualche modo ci costringe a chiederci:
preferiresti essere un maiale?
(Sembra tutto bellissimo. E lo è. Allora perché ho sentito un graffio di inquietudine durante tutto il film? Perché ho sempre avvertito un’ondata di malinconia, una vena di tristezza?)