25.8.23

Recensione: "Oppenheimer" - Al Cinema 2023

 

La mia sull'ultimo, portentoso, film di Nolan

Riflettendo sui fatti
Sui modi e sui tempi
C'è da finire matti a pensare che un attimo solo bastò
Adesso lo so
E non è che rimpianga
Nemmeno una volta
E non è la coscienza che brucia, è l'assenza che il buio portò
E che un giorno riavrò
Non c'era nemmeno un segnale
O il tempo di avere terrore
Soltanto l'odore bruciato di plastica
E un cielo che ha sbagliato colore
E la luce che cambia, che cresce che esplode
E la rabbia che sale e col sangue corrode
E intanto intuire o persino sapere
Che niente e nessuno
Potrà mai spiegarmi perché
Ma tornando al presente,
C'è un rumore costante
Una nota stridente che ancora la mente scordare non può
È il regalo che ho avuto,
Da quel giorno per me il mondo è muto
E non chiedo un aiuto, anzi evito meglio di dire di no
A chi cerca in quello che so
Non c'era nemmeno un segnale
O il tempo di avere terrore
Soltanto l'odore bruciato di plastica
E un cielo che ha sbagliato colore
E macine immense che gettavano terra
E il vento, il fuoco, le feste, la guerra
E intanto intuire, o perfino sapere
Che niente e nessuno potrà mai spiegarmi perché


Era il 1996 quando Daniele Silvestri fece uscire questo straordinario pezzo.
Un pezzo che in poche parole racchiudeva tutto il racchiudibile riguardo la bomba atomica.
Quello che ci ha lasciato, le domande alle quali non risponderemo mai, le sensazioni che hanno dovuto vivere le persone che se la videro buttare addosso - con quel cielo che cambiò colore in un istante, senza nemmeno lasciare il tempo di avere terrore - e la coscienza sporca "collettiva" che questo evento - forse uno dei più grandi eventi della storia dell'Uomo - ha inevitabilmente lasciato.
E ora arriva Nolan, questo immenso regista che gira quasi soltanto film straordinari che hanno però la rara capacità di non restarmi nel cuore negli anni successivi, dicevo, e ora arriva Nolan e ci racconta la genesi di quell'arma di distruzione, e lo fa attraverso le ossessioni, le idee e la coscienza dell'uomo che, più di tutti, contribuì alla creazione della bomba atomica, Oppenheimer.

Questo film aveva tutte le caratteristiche per non piacermi.
Innanzitutto è un biopic, genere che non amo (anche se biopic di quelli "corti", che raccontano pochi anni di un'esistenza), ha come tema predominante la scienza (materia che, volendo, può anche affascinarmi ma che, come tutte le cose che non capisco, mi scivola poi addosso), è lunghissimo (3 ore) e parlatissimo (io che solitamente - ma con eccezioni - amo i film fatti di silenzi).
E infatti la prima ora tutti questi difetti (anzi, non difetti, semplicemente cose che non amo io) si sono fatti sentire, eccome.
Il film mi stava sembrando una di quelle cose a La Teoria del Tutto o The Imitation Game, biopic scientifici con una sceneggiatura lineare e quasi "televisiva", film che raccontano esistenze di scienziati attraverso le loro ossessioni, i loro sogni, i loro rapporti interpersonali, annoiandomi non poco.
Ricordo ad un certo punto di aver notato che erano passati solo 35 minuti, e il pensare di dovermene stare altre due ore e mezza a vedere qualcosa di così lontano da me mi sembrava terribile.
Poi, una scintilla.


Il primo dialogo tra Oppenheimer e Groves (Damon).
Arguto, cinico, "importante".
Da lì, con la nascita del progetto Manhattan, con la costruzione di Los Alamos e tutto quello che verrà poi "Oppenheimer" (il film) mi ha piano piano conquistato riuscendo in un qualcosa che forse ha a che fare con le caratteristiche di quelli che poi vengono chiamati capolavori, ovvero che più durano più vorresti non finissero mai.

E così io che dopo mezz'ora volevo uscire sono poi uscito dopo 3 ore volendo restare.

Oppenheimer diventa così un gigantesco film sulla coscienza, sulla morale, sulla "post coscienza" (ovvero quella che può arrivare solo dopo), sul pragmatismo.
Un'opera in cui c'è un continuo scontro tra teoria e pratica, tra quello che in teoria può essere, quello che in teoria dovrà essere e quello poi che in pratica sarà.
E la Bomba Atomica, in questo, rappresenta il non plus ultra, anni di studi, l'unione delle menti più brillanti al mondo, milioni di soldi spesi, miliardi di calcoli per poi arrivare a quella detonazione, detonazione che può funzionare nella maniera in cui si credeva, che può non funzionare o che addirittura può funzionare ancora "meglio" del previsto, tanto da distruggerci tutti (altro grande dialogo in tal senso tra Murphy e Damon).
Chiunque vede il film - se non ipocrita - non può non considerare i dubbi etici e morali che aveva Oppenheimer (e con lui tutta l'America) come dubbi leciti, non banali, "mostruosamente" e inumanamente sensati persino (ogni tanto quando incontro film così ripenso al finale di Snowpiercer, a quel terribile creatore tiranno e assassino che, però, fece davvero in modo che l'umanità esistesse ancora).
E viene un brivido nel dirlo ma il dilemma di fondo del film, ovvero quello che forse solo attraverso il lancio della bomba atomica si poteva costruire un mondo senza bombe atomiche, è un dilemma schifosamente "giusto", un dilemma che portò ad una scelta che nessuno di noi potrà contestare sine dubio, visto che nessuno di noi saprà mai se quello che è successo è stato, davvero, il minore dei mali.
In questo senso è perfetta e magistrale la metafora dei due scorpioni in un vasetto.
Entrambi possono uccidere l'altro sapendo che, facendolo, possono morire essi stessi.
E' in questo clima di incertezza che si muove il film e il nostro personaggio, alla continua ricerca di una scelta "giusta" ma, al contempo, pieno di quell' "ebrezza" che ogni scienziato porta con sè nel vedere sviluppate e realizzate le proprie teorie.

14.8.23

3 x 1 - Recensioni: "Lasciami Entrare" - "Mediterranean Fever" (Cinema 2023 - 10) - "My heart can't beat unless you tell it to" (Su Prime)

Proseguo questo mio recupero dei film visti in questo periodo.
Stavolta ne metto 3 insieme.
Il primo è un cult incredibile, Lasciami Entrare, inutile presentarlo.
Il secondo è un gran bel film visto al cinema, Mediterranean Fever, la storia di una strana (ed improvvisata) amicizia tra due vicini di casa ad Haifa.
Opera che "sfiora" la questione Palestinese ma che, tra ironia e una drammaticità sempre più forte man mano che il film va avanti, sembra parlare di qualcos'altro e ci riserverà alla fine un colpo di scena, totalmente inaspettato e davvero molto emozionante.
Il terzo è un film con uno dei titoli più belli di sempre ("Il mio cuore non può battere finchè non gli dici di farlo").
Vi giuro che solo per caso finisce in questo post dove c'è anche Lasciami Entrare, forse il film che più me lo ha ricordato.
La storia di 3 fratelli di cui uno, il più giovane, è sempre morente.
Per continuare a vivere ha bisogno di un qualcosa che solo i due fratelli possono procurargli...
Un film drammatico nel mood che consiglio anche a chi non ama trame a tinte leggermente horror.
Uno di quei film che un giorno definivamo "da Guardaroba", anche non certo bello come la maggior parte di quelli che mettevo in quel gruppo (ovviamente a giudizio mio eh).
Attenzione però perchè MHCBUYTIT (acronimo assurdo) potrebbe parlare anche solo di una cosa assolutamente reale, umana, senza alcuna connotazione soprannaturale.
Non dico altro, semmai lo trovate su Prime



Il più famoso del "lotto" è senz'altro Lasciami Entrare, "horror" che ha fatto la piccola storia del genere.
Film svedese (di cui è stato fatto un ottimo remake americano, Blood Story) che ha fatto innamorare tantissimi di noi per la sua location (un paesino svedese pieno di neve), i suoi due indimenticabili protagonisti (due bambini che uniscono in modo dolcissimo le loro solitudini) e una serie di sequenze che non se ne vanno via dalla testa (il massacro in piscina, la donna che brucia, lui che vede "lei" in bagno).
Senza ombra di dubbio è uno dei film sui "vampiri" più originali che siano mai stati girati, almeno negli ultimi 30 anni.
Lasciami Entrare, pur avendo molte sequenze spietate e violente, riesce nell'impresa di restare nel nostro immaginario come un film emozionante, tenero, fragile ma potente come fragili ma potenti sono i due bambini protagonisti.
Ho amato molto la sua reticenza (chi è lei? chi è l'uomo che l'accompagna?), capace di dare un alone di mistero ancora più grande.
Splendidi i due giovani attori, la fotografia e l'atmosfera, in questo film che sa anche raccontare temi importantissimi come il bullismo, la solitudine, la "malattia", il sentirsi inadeguati e l'impossibilità di fuggire dalla propria Natura (pensiamo a La rana e lo scorpione ad esempio, a lei che, per quanto non voglia, non può non agire in base a quello che in realtà è) in un modo magistrale, senza alcuna retorica.
Uno di quei film che, senza ombra di dubbio, possiamo definire "del cuore"


Piccolo e veramente atipico buddy movie che racconta l'impossibile amicizia (i due sono uno opposto all'altro, in tutto) tra due palestinesi ad Haifa.
Waleed è triste, spento, un romanziere fermo ormai ad una eterna pagina bianca, sia del suo nuovo romanzo che della sua vita.
Jalal, il nuovo vicino, è invece esuberante, sfrontato, vitale, e persino maleducato nella sua arroganza.
I due sembrano persone incompatibili ma Waleed, forse, vede in quel nuovo vicino una piccola fiammella di vita, un'invidia "positiva" che potrebbe salvarlo.
Probabilmente la cosa più bella che ricorderò di questo film è il suo diventare sempre più cupo e malinconico.
Parte come commedia nera che scherza sulla depressione, sulla questione palestinese, sui clichè israeliani, su tutto, qualcosa che può ricordare alcune cose dei Coen.
Eppure più il film va avanti, più l'amicizia tra i due si cementa, più paradossalmente Waleed "vive", più viene fuori l'anima completamente nera del film, un film che racconta di una depressione "perfetta", probabilmente non sradicabile.
Waleed ha moglie, figli, un amico, nuove attività, eppure, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, più si va avanti più si convince che l'unica soluzione alla propria vita è la morte.
Davvero forte la scena di Waleed che mette a letto i figli per l'ultima volta e quel suo successivo pianto notturno (se ricordo bene anche Jilal, in montaggio alternato, piange la stessa notte).
E per questo chiederà proprio a Jilal una cosa terribile (che porterà ad una straordinaria ed emozionante parte finale, nel bosco).
"Un codardo ha paura della vita" viene detto ad un certo punto, a ricordare l'eterno dilemma se lasciare l'esistenza sia un atto di coraggio o uno di codardia.
Ma, più che altro, visto anche il sorprendente finale, Mediterranean Fever sembra raccontare di quei "mali" reali ma mascherati e di quelli invece "fittizi" ma esageratamente manifestati (pensiamo al figlio di Waleed che si inventa sempre di star male per non fare ginnastica).
Chi alla fine infatti tra Waleed, triste e spento, e Jalal, vitale ed esuberante, stava veramente peggio?
Chi aveva più motivi per uccidersi?
Chi era il vero codardo e chi il vero coraggioso?
Chi, come la parabola che viene raccontata, è il somaro che stanco della fatica un giorno decide di suicidarsi?
Il film ci insegna che molto spesso la depressione, o la voglia di farla finita, si annidano proprio in chi, fuori, mostra tutt'altro.
Film di scrittura, di sceneggiatura, quasi tutto incentrato sui dialoghi e le personalità dei suoi protagonisti.
Molto humor sì, ma anche tanta sofferenza. 
E tragedia.

"Ma che bella giornata, non so se bere una tazza di thè o impiccarmi"
In questa frase di Cechov (citata nel film) c'è tutto il film stesso, la sua ironia nera e quel filo sottilissimo nascosto spesso nelle trame delle nostre esistenze, essere continuamente ad un cm dall'amare la vita e dal volersene andar via.

Uno di quei titoli che anni fa avrei definito "da Guardaroba", anche se "My heart can't beat unless you tell it to" resta forse una spanna sotto ai film che condividevo in quel gruppo (ovviamente giudizi personali).
Opera profondamente malinconica, "triste", violentissima nelle vicende mostrate ma incredibilmente tenera nelle sensazioni che lascia, MHCBUYTIT è uno di quei film che mentre lo vedi ti dà l'idea di un'opera prima (e infatti lo è, scoperto ora).
Perchè intimo, girato con niente, con pochi attori e tutti in stato di grazia e con un qualcosa da dire.
E' la storia di una famiglia di 3 fratelli di cui uno, il più giovane, è perennemente morente.
Per vivere ha bisogno di solo una cosa, sangue.
E, per questo, i fratelli sono costretti ad uccidere, per tenerlo in vita.
Come vedete il richiamo a Lasciami Entrare è fortissimo anche se, se possibile, MHCBUYTIT è ancora più "reticente" del capolavoro svedese nel raccontarci le cose.
Tanto che, pur avendo tutte le caratteristiche di un film "di vampiri", il regista - in maniera geniale - non ci dà mai un singolo elemento certo per esser sicuri di questo ma, anzi, a pensarci bene questo film potrebbe raccontare solo la vicenda di un particolare caso di Porfiria.
Ci sono tutti gli elementi, l'anemia (una volta per curarla i famigliari davano il sangue al malato) la stanchezza, la spossatezza, la fotosensibilità alla luce de Sole.
E, visto il mood del film e il suo non dirci mai niente, non mi stupirebbe che il regista abbia giocato con questa ambiguità (anche perchè, se ci pensate, come sarebbe possibile avere un solo fratello vampiro su tre?).
Del resto, da sempre, la Porfiria, e non solo per gioco ma con elementi medici concreti, è stata accostata al vampirismo.
Il film, però, va oltre, e racconta di solitudini "perfette" (struggente il giovane ragazzo, così incredibilmente solo e voglioso anche solo di vedere di notte qualche ragazzo là fuori), di dipendenze famigliari (io sono dipendente da un mio congiunto come lui, del resto, dovrà passare la vita a curarmi ed accudirmi), di vite non vissute (tutti e 3 i fratelli alla fine vivono una vita forzata, senza sogni e svaghi) e del relativo disperato bisogno di uscire da quella condizione (ma a costo che muoia qualcuno).
Il tutto raccontato con una fotografia sempre sull'ocra o su pastelli marroncini (stupende sia le luci che le locations in questo senso, basti vedere il poster), con 3 attori in stato di grazia e un grande senso estetico.
Insomma, un capolavoro?
No, c'è qualcosa che manca, e faccio anche fatica a capire cosa.
Forse per questo suo essere un pò sempre uguale a sè stesso, forse per alcune scene incomprensibili (quell'Eduardo per ben DUE volte può scappare senza problemi e invece si getta a morire), o forse perchè, pur non calando mai, non arriva mai il momento in cui il film spicca il volo.
Però gli elementi bellissimi - e tanti già li ho detti - si sprecano.
E ci rimarrà nel cuore questo ragazzo triste che non ha mai visto fuori di casa (quasi alla Dogtooth), che non ha mai conosciuto nessuno a parte i fratelli, che non ha mai visto la luce del sole, che vive in casa in un eterno Natale che, però, oltre all'albero e a regali improvvisati, è un Natale di devastante tristezza.
Le scene violente non mancano ma il film, pur parlando di assassini, riesce talmente bene a raccontarci i suoi protagonisti da non riuscire a farceli odiare, anzi...
E finisce nel modo più giusto, con almeno uno dei tre fratelli che decide di provare a ricominciare a vivere.
Con quell'ultimo dialogo, un dialogo in cui entrambi accettano l'inevitabile, uno di lasciarsi andare e uno di lasciare andare.
L'esistenza di tutti e 3 era segnata ma adesso, almeno uno, può trovare il coraggio di cominciarne una nuova.
Partendo da quel mare.

11.8.23

Recensione: "Il Prodigio" - Su Netflix


 Questi due mesi e mezzo che non ho recensito film nel blog (a parte Animali Selvatici) credo di averne visti comunque una quindicina, più o meno belli (nessun capolavoro ma la media è più che discreta).
Voglio provare a riportarli tutti qua, alternando tra alcuni di cui parlerò ampiamente (perchè li ricordo meglio o perchè magari li ho rivisti) ad altri che metterò invece in post "collettivi" di 3/4 film.
Comincio con uno dei più belli, Il Prodigio, un film di Netflix molto poco netflixiano.
Ambientato nella seconda metà dell'800 in un piccolissimo paesino irlandese racconta la storia di un presunto "prodigio" (come titolo),
Una bambina di 11 anni non mangia da 4 mesi, ma sta benissimo.
La famiglia e la comunità credono sia un miracolo, qualcosa a che fare con la Fede, ma per fugare ogni dubbio viene chiamata da Londra un'infermiera (una grande Florence Pugh) che deve "visitare" la bambina per capire se c'è una spiegazione razionale e scientifica.
Ne nasce quindi un film sull'eterno conflitto tra Fede e Scienza, sì, ma anche su tanti altri temi, come il castigo, le ferite incancellabili, la maternità, il desiderio di essere amati ed amare.
Davvero un bel titolo che non si fa mancare nemmeno una piccola ma emozionante e suggestiva cornice metacinematografica

Diretto da un regista cileno di cui si non avevo mai visto nulla ma comunque abbastanza "famoso" (Sebastian Lelio, di cui si dice molto bene di "Gloria" e de "Una donna fantastica") "Il Prodigio" è uno di quei film Netflix poco netflixiani, quelli che cerchiamo di continuo senza trovarne quasi mai.
Ambientato nella seconda metà del 1800 racconta la storia di un'infermiera (la grande Florence Pugh) mandata in uno sperduto villaggetto irlandese dove sta avvenendo una cosa misteriosissima (il Prodigio del titolo), ovvero il completo digiuno di cibo di una 11enne.
Digiuno di mesi e mesi che, però, sembra non arrecare il minimo danno fisico alla bambina.
La famiglia crede che sia una cosa "divina" e per questo la comunità chiama l'infermiera, per avere anche un parere scientifico che possa o sconfessare o confermare l'eventuale prodigio inspiegabile.


Il film, quindi, sarà tra le altre cose una di quelle opere che raccontano dell'eterna lotta tra Scienza e Fede (non a caso la bambina viene seguita per 8 ore alternate tra Elizabeth - l'infermiera -  e una suora), argomento che mi affascina sempre molto.
L'incipit è straordinario, uno dei più belli di questi ultimi tempi.
Siamo dentro a un teatro di posa, in un vero e proprio set cinematografico.
Una voce fuori campo ci invita a "credere alle storie" e l'inquadratura ci porta lentamente dentro una baracca costruita come set.
La ripresa arriva lentamente sul volto della Pugh e, magicamente, ci troviamo così dentro al "vero" film.
Un metacinema davvero eccezionale.
Da subito il film ci conquisterà con le sue location, quell'alberghetto verde scrostato che sembra quello di Spider di Cronenberg, i campi infiniti dove i nostri protagonisti camminano più volte, la casa isolata nella brughiera e il suo interno, con questi due piani - il sopra e il sotto -  che diventeranno quasi due luoghi completamente separati (sotto c'è la famiglia, le chiacchiere, le credenze, i segreti, il paese, sopra la nuda e intima verità della bambina).
Il Prodigio è un film bello, molto bello, fotografato splendidamente, recitato splendidamente e capace di mantenere il suo mistero in maniera molto trattenuta, senza mai prendere connotati da thriller.
E' la storia, alla fine, di una donna che (ri)cerca una figlia e di una figlia che avrebbe bisogno di una nuova madre (ormai i film sulla maternità  non si contano più).
Religione, Fede, colpa ed espiazione, delitti e castighi, vecchi fantasmi, segreti inconfessabili, ferite mai rimarginate, tutto si mixa in una sceneggiatura apparentemente "semplice" ma granitica (è tratto da un romanzo del resto) nella quale tutte queste tematiche vengono fuori senza che nessuna venga mai urlata.
Le luci sono bellissime (come spesso accade in film che raccontano epoche di buio e candele), le inquadrature perfette (molto geometriche, da quadri, con la Pugh inquadrata decine di volte in assoluta frontalità) e, specie nel finale, non mancano anche molte scene emozionanti, come il "risveglio" di Anna ad una nuova vita - bellissimo e simbolico -, come l'incendio in cui vengono bruciati i passati di entrambe (personificati dalla Bibbia e dalle scarpette della bimba morta prestissimo), come Nan che vede dalla finestra l'arrivo di Elizabeth o quella cena finale in cui Nan (Anna) per la prima volta (nel film) tocca cibo.
A proposito di cibo ho amato moltissimo una cosa forse non evidentissima ad una visione superficiale, ovvero l'incredibile numero di volte che vediamo Elizabeth mangiare (5 o 6). Sono tutte scene "minime", di raccordo, ma è davvero suggestivo questo confronto, opposto al digiuno di Anna.


Nell'ultima mezz'ora il film si svelerà, regalandoci "dolci" (nel senso di leggermente prevedibili) colpi di scena, che in fin dei conti lo spiegano tutto (come sopravviveva Anna, perchè l'hanno costretta a quel supplizio, l'incesto del passato).
Ed è davvero potente questo concetto di "nuova vita" (attraverso anche un nuovo nome) che, se volete, può essere declinato in mille modi.
Come se ogni vita perduta, vessata, rubata, imposta, ad un certo punto possa essere cancellata, con un click, per ricominciarne un'altra.
Parliamo di una vera e propria "morte" per rinascere diversi da prima (ovviamente questo è possibile solo nel caso che la nuova vita sia opposta alla precedente, piena d'amore, affetto, considerazione, libertà).
Ecco, se c'è un difetto nel film forse è proprio non aver premuto ancora di più su uno dei suoi più grandi pregi, ovvero quella cornice metacinematografica che lo apre e lo chiude.
Sarebbe stato perfetto o semplicemente così (ovvero con il metacinema solo in apertura o chiusura) oppure inserendo all'interno dell'opera molti altri momenti di questo tipo.
Si fa fatica a capire infatti perchè, a parte incipit ed epilogo, avremo solo un altro intervento "esterno" durante il film.
In ogni caso epilogo bellissimo, esattamente speculare all'incipit.
E quel "dentro-fuori" l'ho trovato davvero straordinario perchè carico di almeno tre significati.
Il "dentro fuori" dell'illusione ottica dell'uccellino in gabbia, quello - per analogia - di Anna e della sua situazione di "prigionia" e quello del finale, questo uscire ed entrare nella finzione cinematografica.
30 secondi finali bellissimi, degna conclusione di questo titolo

8

6.8.23

Recensione: "Barbie" - di Isabella Carbonara


 
Come dicevo (sui social) per una questione strettamente filmica ed estetica non vedrò mai Barbie (come il 90% dei film che escono, del resto).
Però quando ho saputo che Ginevra (mia figlia) l'andava a vedere le ho chiesto se aveva voglia di recensirlo per me (anche in vista di un futuro "lascito" del blog :) ).
Sta maledetta (spero si capisca l'affetto nascosto nell'aggettivo) mi ha detto di no ma, alla faccia sua, mi ha detto invece sì Isabella, la sua amica del cuore.
Questa è quindi la recensione di Barbie di una 16enne, al suo "debutto" nel parlare di un film.
Credo sia bello educare i giovanissimi alla scrittura e vedere punti di vista così particolari (quelli di una adolescente) per un film così "chiacchierato".
Oh, quindi se commentate ricordate la sua età, ricordate che è la prima volta che scrive (e secondo me l'ha fatto alla grandissima) e aiutatemi a convincere Ginevra a farlo anche lei ogni tanto.
Sta maledetta (2)

Barbie, un film attesissimo da molti e giudicato (troppo presto) da altrettanti perché facilmente classificato come banale o addirittura per bambini. Posso garantire che non è nessuna delle due cose. Il film porta infatti con sé un sacco di principi sani per la società odierna, mandando un messaggio femminista in maniera leggera e soprattutto realistica.

Bisogna dire che le barbie (che si chiamano tutte così anche se sono barbie diverse e vivono a Barbieland) sanno di essere state create per aiutare le bambine a crescere sicure di sé in modo che da adulte si realizzino e vivano in un mondo dove le donne non si sentano mai a disagio. L’ambientazione del film alterna il mondo di Barbie (la bambola protagonista che ha vita propria) e quello reale e quando Barbie, che inizialmente rappresenta l’ideale di donna emancipata che riesce a fare tutto ciò che vuole senza però maltrattare mai nessuno ed è indipendente, felice e “perfettamente perfetta”, quando dicevo è costretta a recarsi nel nostro mondo, rimane incredibilmente delusa.

Infatti quando Barbie e Ken arrivano a Los Angeles rimangono sostanzialmente sconvolti dal patriarcato che è innegabilmente presente nella nostra società. 
Cito testuali parole “No; lo applichiamo ( il patriarcato), è che ora lo nascondiamo meglio”. La cosa che però più sconvolge la protagonista è che le ragazze la odino in quanto sia l’emblema del consumismo e di standard femminili irraggiungibili che fanno sentire insicure e sbagliate le donne sin da bambine.


Il vero motivo per cui ho apprezzato il film è che il messaggio femminista che manda non è che le donne siano forti e sappiano fare tutto da sole perfettamente sempre e comunque ma che nel provare a farlo sbagliano e si sentano fragili e perse come può accadere anche a un uomo (come accade a Ken). Infatti lo spettacolo trasmette un messaggio favorevole alla parità dei sessi e condanna anche i danni che il patriarcato arreca agli uomini che spesso si sentono in dovere di mostrarsi forti e senza sentimenti che li rendano deboli. Per questo per me si parla di femminismo “realistico”.
 Il fatto che le donne magari non riescano a risolvere tutti i loro problemi subito ma possano provare a migliorare la loro situazione passo dopo passo viene sottolineato quando una madre e sua figlia adolescente decidono di tornare ad aiutare barbie nel suo mondo dopo che Ken aveva instaurato il patriarcato a barbieland.


Ora posso finalmente parlare della cosa che più ho amato del film: Barbie, banalmente, viene richiamata nel mondo reale perché la sua proprietaria ha seri problemi. Ma si scopre che la vera persona che ha bisogno di lei non è l’adolescente cresciuta che ha un brutto rapporto con la madre, bensì la stessa madre della ragazza. Cosa piuttosto pungente in quanto spesso sono i genitori a rimpiangere il tempo in cui potevano giocare con i loro figli quanto volevano e avere tutto il tempo del mondo assieme a loro.  In effetti i problemi di Barbie iniziano quando ha dei pensieri riguardo alla morte che sono dettati da un “collegamento” mentale con questa madre, consapevole che un giorno potrebbe non esserci più per sua figlia.

Questa vicinanza ai pensieri di un’adulta rende la visione del film perfetta per gli stessi adulti, che un tempo sono stati i bambini e le bambine che hanno giocato con Barbie, perché li colpisce nel profondo del cuore facendogli sentire il peso del tempo che passa e percepire una piacevole nostalgia quasi commovente. Ovviamente il tutto è arricchito dal fatto che la ricostruzione del mondo di Barbie è perfetta, ogni cosa che si vede è stata effettivamente prodotta, ogni singola bambola del film è stata lanciata realmente sul mercato. Un altro motivo per cui Barbie non è assolutamente per bambini è che la protagonista alla fine si trova in una situazione che è paragonabile a quella delle ragazze appena uscite dal liceo o dall’università e che non sanno cosa fare della propria vita, non sanno che strada prendere e si sentono perse. Alla fine del film infatti Barbie ha risolto la situazione a Barbieland, ma ancora non si sente nel posto giusto.

 


A questo punto Barbie diventa del tutto umana grazie all’intervento di Ruth. Chi è Ruth? Beh semplicemente “una vecchietta con problemi di evasione fiscale” che ha inventato Barbie e che le dà la consapevolezza che può fare ciò che vuole della sua vita dicendole “Non ho più potere su di te di quando non ne abbia su mia figlia. Noi mamme restiamo ferme cosicchè voltandovi possiate vedere quanta strada avete percorso.”. Personalmente ho trovato l’intervento e l’omaggio a Ruth Marianna Handler commovente e veramente azzeccato. Anche perché, per chi non lo sapesse, Ruth aveva chiamato la sua creazione come sua figlia, Barbara.

Messa così sembra il film più pesante e politicamente impegnato del mondo ma in realtà è pieno di momenti comici che fanno scorrere quell’ora e quaranta davvero molto velocemente. Basta dire che Ken si interessa al patriarcato solo per i cavalli. Le coreografie, le canzoni e soprattutto le ambientazioni sono spettacolari e ti lasciano sognare specialmente se da piccolo eri solito giocare con le Barbie, maschio o femmina che tu sia.