27.9.22

Recensione: "Fallen Angels" - Passeggiate, il cinema della poesia - 22 - di Roberto Flauto

 

Ed eccoci dopo ben 5 mesi (!! ma è solo colpa mia) al nuovo appuntamento con il mio amico Roberto e la rubrica esterna più longeva del blog, Passeggiate.
Roberto, col suo solito stile (inimitabile) ci racconta uno dei capolavori di quel grandissimo regista che è Wong Kar-wai.
Il film è Fallen Angels (io purtroppo non l'ho visto).
Vi lascio prima alla sua presentazione e poi alla recensione vera e propria.
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Una storia di angeli caduti dall’altezza delle stelle, e precipitati nel cuore degli uomini.
Un film sulla solitudine affollata di anime perdute nel mondo del proprio cuore.
Sulla fragilità dell’essere vivi, sulla precarietà esistenziale.
Due storie si alternano, si sfiorano, danzano all’infinito.
È la nostra storia, umani che non siamo altro.
Angeli caduti, immersi nella ricerca dell’antidoto all’entropia dei sentimenti.




Ma chi, se gridassi, mi udrebbe, delle schiere
degli Angeli? e se anche un Angelo a un tratto
mi stringesse al suo cuore: la sua essenza più forte
mi farebbe morire. Perché il bello non è
che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora,
lo ammiriamo anche tanto, perch’esso calmo, sdegna
distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo.
(Rainer Maria Rilke)


Dietro un vetro bagnato dalla pioggia, osservo il mondo.  Il tempo fluisce secondo criteri che non mi appartengono. Mi ubriaco di sogni andati a male, derive iperboliche di abbracci immaginati. Di mesi e cosmesi. Di mari in piena notte e frammenti che danzano. La pioggia è lo sguardo che indossano i miei occhi. Non sono un angelo. Sono soltanto tremendo. Attraverso il vetro ed entro nella pioggia.

Fallen Angels. Un piccolo, infinito, fugace, eterno racconto della precarietà umana. Della fragilità che ci portiamo dentro, e addosso, e adesso. Una storia di cuori che battono disperati perché vogliono battere per davvero. Palpiti possibili solo quando c’è un altro cuore che canta insieme al tuo. E non importa se tu sei un assassino su commissione che non ha voglia di organizzare i dettagli dei suoi omicidi, una donna che cerca disperatamente un ex fidanzato che forse non è mai esistito, un ragazzo che non parla e che ogni notte si inventa una vita diversa, una ragazza con il neo sul viso che non vuole essere dimenticata. Non importa. Il buio è già qui. Gli angeli sono caduti.

Tra malinconia elegiaca e ricerca metafisica, Fallen Angels pone al centro della sua narrazione la ricerca dell’antidoto alla solitudine. Lo fa attraverso un racconto bilaterale, due storie parallele, che però si toccano, in qualche modo, in qualche punto, anche se non è importante. Perché ciò che importa è sapere cosa c’è nella spazzatura. Quali indizi riusciamo a trovare affinché possiamo costruire la strada che conduce al cuore del nostro angelo.

Angeli caduti, perduti, sfiniti, infranti. Non ci sono custodi. Dio ha lasciato il cancello aperto, sono tutti andati via. Perché ogni angelo è tremendo e porta con sé una tempesta che travolge ogni cosa. La stessa tempesta che ho nel cuore, che da un po’ di tempo a questa parte urla più forte.
Dov’è il mio angelo?
Dove sei?
Dove siamo?
Dove sì, amo?
Apro gli occhi e tutto è blu.

C’è il ragazzo muto che di notte occupa esistenze altrui. C’è suo padre, che si porta dentro una solitudine da cui non si può guarire. La morte della persona amata lacera ogni cosa. Le sue sono le sequenze più toccanti. Anche lui morirà. Il montaggio è perfetto, restituisce appieno i movimenti dell’abisso che urla dal profondo del cuore. Il ragazzo senza parole ha però ogni alfabeto, perché malgrado il peso schiacciante della solitudine, si trova nella più inattesa delle tempeste. La tempesta è una ragazza che parla al telefono e poi piange sulla sua spalla.

C’è il ragazzo che fa il killer su commissione, e la sua misteriosa socia, una ragazza tanto bella quanto sfuggente e tormentata. Si cercano senza trovarsi, si trovano senza riconoscersi, si riconoscono senza vedersi. Cuori su cui grava il peso insostenibile dell’essere sé stessi. Perché ognuno dei personaggi non è altro che la somma delle proprie fragilità. Le donne di Fallen Angels sono di una malinconia struggente. Tentano con disperata leggerezza di restare a galla, e non affondare nell’oceano affamato dell’esistenza. Che mangia tutto, che ingloba tutto, che vomita tutto. Allora lei cambia il colore di capelli, così non sarà dimenticata. Allora lei frugherà tra i rifiuti, in cerca di un indizio. Si toccherà da sola, di notte, a letto, dolcissima e disperata, andrà al bar e danzerà per dimenticare il vuoto.

C’è il dolore di queste ragazze, e di questi ragazzi, piccoli granelli sperduti nell’universo interstellare della propria solitudine affollata di occhi che scrutano nell’oscurità.



Degli angeli ciascuno è tremendo.



Primi piani che stordiscono. Movimenti di macchina che ondeggiano e danzano, sulle note di un cuore che vibra nelle profondità di un sorriso accennato, che sboccia all’improvviso e cambia la storia dell’universo.

La luce in Fallen Angels è parte integrante della narrazione, protagonista vera e propria. Contorna i dialoghi, colora il buio, estingue la cecità. Sprazzi di luce in cornici di buio, e viceversa. Macchie di colore sulla tela del reale. Al bar la fotografia è da noir, da romanzo hard boiled. Di notte assume sfumature da commedia e dramma esistenziale, che non sono altro che le due declinazioni della vita. Solo che non sappiamo distinguerle. Questa è la nostra condanna. Questa è la nostra salvezza. Ma ora c’è così buio, qui. Angelo mio, ti prego, fai brillare la notte.

Il fatto è che, come diceva Luciano De Crescenzo, siamo angeli con un’ala soltanto: possiamo volare solo stando abbracciati. La solitudine metafisica di Fallen Angels è tutta qui. Siamo soli, ma non siamo stelle. Voglio volare, ma giro in tondo. Abbracciami, angelo mio, volami via.

Ci sono la disperazione e l’abbandono, la tentazione di arrendersi e la necessità di proseguire, la speranza e l’illusione. Ci sono cuori che si cercano e mani che frugano tra i rifiuti. Ci sono uomini che portano avanti monologhi esistenziali che non hanno la forza di diventare dialogo. Ci sono donne che ingoiano pezzi di mondo sempre più taglienti. Ci sono questi ragazzi e queste ragazze che hanno l’anima in fiamme. Ci sono angeli che passano inosservati, come è necessario che sia, come è terribile che sia. La tempesta infuria come non ha mai fatto prima.



Ogni angelo è tremendo.
Ogni sogno è medicina.
Ogni bacio è temporale.
Ogni notte è nostra.



The road wasn’t that long,
And I knew i’d be getting off soon.
But at that moment
I felt such warmth.



Lei lo abbraccia da dietro.
Lui guida la moto.
Il viaggio sarà breve.
Il viaggio sarà eterno.
Non possono saperlo.
Forse questa è la felicità.






Non avere paura,
amore mio,
la tristezza
non è ancora
infinita...




26.9.22

Recensione: "You are Here" no, spetta, recensione "Trash Humpers", no, cristo, manco quella, ah, ecco! Recensione "Ghost Town Anthology" - Rocco's House - 5 - e Su Mubi - 2 -

 

Non fatevi ingannare dal titolo del post, la recensione è seria (o comunque - dopo parecchie righe - diventa anche seria).
Semmai saltate tutta la parte dove parlo de cibo e dei soliti problemi a casa de Rocco, senza che i fan di Harmony Korine si offendano però.
Ghost Town Anthology è un piccolo film di un regista che non conoscevo e, dicono, molto sperimentale.
Non so se "sperimentale" è l'aggettivo adatto a questo film ma di sicuro Ghost Town Anthology è un film molto particolare, a suo modo coraggioso.
Siamo in un piccolissimo paesino del Quebec, 200 abitanti appena.
Il paese viene sconvolto dalla morte - forse per suicidio - di uno dei suoi pochi giovani.
Tutti attraversano il lutto a modo loro ma, piano piano, nel paese iniziano ad accadere fatti inspiegabili.
Film a suo modo quasi "unico", perchè per tutta la sua durata avrà una veste "solo" drammatica che nasconde però spruzzate di ghost stories, di fantascienza e di paranormale.
In teoria un film sull'elaborazione del lutto ma, forse, principalmente un'altra cosa.
Con un richiamo gigantesco (che non anticipo qua) ad una bellissima serie.

Che la serata fosse stata strana l'avevo capito già al Conad.
Per il grande ritorno della Rocco's House (in realtà questi mesi c'è stato un altro film visto da lui ma poi quando l'ho recensito mi sono incredibilmente dimenticato di inserirlo nella "rubrica") avevo pensato di fare il mio "famoso" pollo al curry, visto poi che Fede non l'ha mangiato mai. E invece, incredibile, con Tommaso adamo a fa spesa e NON C'E' UN GRAMMO DE POLLO in tutto il Conad.
Niente, vertiamo sulle "casarecce" con guanciale, zucca e gorgonzola ed è andato benissimo lo stesso.
Durante i 40 minuti in cui ho cucinato ho pregato gli altri se intanto cercavamo un film su Mubi.
Ovviamente 40 minuti non sono bastati e così, dopo mangiato, ce semo ritrovati a dovello sceglie insieme.
Decidiamo di vedere You are here, un film sconosciuto con una trama però che dire intrigante è poco e anche dagli ottimi voti. Perdipiù di cortissima durata.
Finalmente siamo pronti.
Parte il film ed è in inglese, meglio dai.
Andiamo per mettere i sub ita e...non ci sono (manco fosse pollo al Conad).
Ok che noi 4 sappiamo l'inglese dal benino (61%) al molto bene (82%) ma nessuno vedrebbe mai i film senza sub ita.
Maremma maiala riparte la ricerca.
Dopo tipo 128 titoli vedo Trash Humpers, di quel Korine del quale da 15 anni vorrei vedè tutto (ho visto solo Springbreakers, forse, almeno a livello formale, il meno koriniano).
Siccome anche Tommaso è molto convinto andamo con quello.
Ci sono 3 personaggi, presumibilmente giovani, vestiti e camuffati da vecchi (come alcuni Jackass per capirsi o come faceva il Nongio).
Nei primi 4 minuti scopano con sacchi della spazzatura, bidoni della spazzatura o fanno pompini alle foglie degli alberi. Tutto esattamente così come ho scritto.


Poi invece spaccano televisori, lanciano in terra televisori, danno calci a televisori e ogni tanto, con un twist di sceneggiatura, spaccano, lanciano e danno calci a uno stereo.
In questi 10 minuti abbiamo riso più volte, io ho anche preso appunti per la successiva recensione. Ma succede un fatto incredibile, Rocco passa da una grassa risata a, un secondo esatto dopo, prendere il telecomando e togliere il film, disgustato.
Restiamo tutti impietriti, non capiamo il gesto, peraltro preceduto da un presunto compiacimento.
Ma nessuno di noi 3 ha coraggio di dirgli di rimetterlo.
Anzi, forse siamo sollevati pure.
Il problema è che sono passate più di due ore dal mio "intanto scegliete un film" e il film non c'è.
Ma, miracolo, ci ricordiamo di un film che avevamo adocchiato un'ora prima, arrivando a un cm dal premere play.
Ormai è psicologicamente impossibile ricominciare a scegliere, andiamo con quello.
E quello è Ghost Town Anthology.
E ora metto un'immagine e dopo quella divento serio.


Siamo in un piccolissimo paesino del Quebec.
E quando dico piccolo intendo piccolissimo, poco più di 200 abitanti.
Il paese è sconvolto dalla morte - non si sa se per suicidio o per un incidente - di uno dei suoi pochi giovani (nel fulmineo e riuscitissimo prologo).
Il fratello è devastato, la mamma pure, il padre non regge la tensione e se ne va via.
In qualche modo tutto il paese è colpito, del resto i giovani, come detto, si contano tra le dita.
La sindaca non vuole aiuti psicologici esterni, il paese saprà affrontare la cosa da solo, dice.
Ma qualcosa di incredibile sta accadendo.
Ed è qualcosa più grande di noi.

Ghost Town Anthology è film particolarissimo, dalle vesti puramente drammatiche (e quindi visibile da tutti) anche se nasconde al suo interno un'anima paranormale con, addirittura, una spruzzatina di sci-fi (anche se solo metaforica).
Il suo incedere è lento, lentissimo, il tipico passo dei film che raccontano dolori ed elaborazioni del lutto.
Ed è questa, senza dubbio, la tematica manifesta.
Il dolore del fratello, quello della madre, quello del padre (tutti dolori veramente grandi e veri anche se affrontati in maniera diversa), lo shock dei paesani nell'affrontare la situazione, tutti i personaggi del film, in qualche modo, affrontano il lutto.
E forse è così grande questa disperazione che "l'apparizione" del fratello potrebbe essere così vista come una necessaria cura di tutto.
L'unico modo  per non impazzire, l'unico modo per stare un pò meglio, è raccontarsi che quel ragazzo è ancora vivo, tra noi.
Eppure i morti "ritornati" sono tanti, non solo quel ragazzo, e tutti legati al paese.
E questo mi fa pensare che Ghost Town Anthology parli d'altro, ma ci arrivo dopo.

Il film è girato in una maniera che si vede quasi mai.
Ovvero con telecamerina a mano (se ho letto bene nelle note di Mubi è in 16mm) ma scegliendo inquadrature completamente opposte al concetto di telecamerina, ovvero quadri fissi, alla Haneke o Andersson per capirsi.
Non so se mi era mai capitato di vedere un film praticamente pieno di inquadrature fisse (ovvero senza movimenti di macchina, carrellate, panoramiche o qualsiasi altra cosa) che in realtà così fisse non sono visto che, inevitabilmente, essendo camera a mano, sono abbastanza traballanti.
Ecco, ho letto che questo regista sia sperimentale, e di certo in questo tipo di ripresa "ibrida" lo è (ma anche girare un film a tematica paranormale e quasi horror con un taglio del tutto documentaristico è qualcosa di inusuale).
Per darvi un'idea guardate l'immagine sotto.
Ecco, ovunque sarebbe questa scena sarebbe puramente horror, eppure qui, anche solo con un frame, è percepibile più il lato drammatico.




Gli attori son bravi, la location la adoro (i piccoli paesi, i paesani che li vivono, il freddo, la neve, la desolazione) e la storia minima e disperata che c'è dentro prende abbastanza.
Il personaggio di lei, la ragazza con leggeri disturbi mentali e l'unico elemento forse veramente "alieno" del paese (ci torneremo) è forse il solo personaggio che prova a dare al film un colore diverso, un possibile sviluppo sorprendente.
In realtà lo farà ma è indubbio dire che Ghost Town Anthology resti un film a passo uno (e ormai chi è abituato a questo tipo di cinema ha bisogno di eccellenze, altrimenti ci si annoia) che non sembra possedere le stimmate per elevarsi di troppo al di sopra della media nè per restare troppo impresso nello spettatore.
Sicuramente riuscitissime le figure dei 4 bambini mascherati, certo un qualcosa visto mille volte ma, quando il film si svela e di conseguenza capiamo anche chi sono, diventano figure più tragiche che altro.
Impossibile, per chi l'ha vista, non richiamare alla memoria la magnifica serie francese Les Revenants (tra l'altro anche questo film, essendo in Quebec, è in francese).
Il richiamo è talmente forte ed evidente da penalizzare il film, sia in un eventuale confronto tra le due opere, sia per una originalità sospetta.
Eppure a me è piaciuto, è piaciuto per questo suo essere sotto le righe, per questo suo racconto di disperazione quasi senza grida, per questa sua impossibile eppure forte convinzione da parte dei protagonisti che no, la morte non è definitiva.
Ed è vero, i morti tornano, tutti li vedono, tutti, quindi non sono soltanto le disperate fantasie di chi ha dentro un dolore troppo grande.
E allora ho pensato che forse Ghost Town Anthology più che un film sull'elaborazione del lutto sia un'opera sulla disperata solitudine. Non è un caso che i morti tornino solo nei paesi, non nelle città. E che questo paesino voglia affrontare la cosa da solo. Ecco, ho la sensazione che il film racconti queste solitudini di paese, così eterne, così perfette. E come in questi ambienti così desolati e desolanti si avverta allora il bisogno che i morti non ci lascino mai, chè già siamo disperati e pochi, chè già la nostra vita è triste, sempre uguale e con pochissima vita intorno, allora voi non lasciateci, state tra noi.


Non è un caso che il "paese" nel film sia protagonista tanto quanto i suoi abitanti.
E' come se si raccontasse una condizione che i cittadini non potranno mai capire, come se quelle 200 anime debbano essere per sempre indissolubili, e bastanti a sè stesse (non è un caso che tornino al paese anche morti vissuti altrove).
Ed è bellissimo che questa cosa così trascendentale diventi paradossalmente "razionale", spiegabile. Come se davvero così debba essere.
E forse non sarà un caso che Adele, la ragazza "scema", quella (lo si dice in un dialogo) che non sa nemmeno la differenza tra razionale ed irrazionale, a fine film se ne stia lassù, sospesa, divisa da tutti gli altri, in un mondo tutto suo.
Mentre sotto di lei dei disperati cittadini affrontano l'irrazionalità della morte con la razionalità che i morti possono tornare.
Per stare sempre insieme

7

23.9.22

Men / Two Lovers / Melancholia - A Luci accese (divagazioni illuminate) - 2 - di Nicola C.

 

Ed eccoci al secondo appuntamento con Nicola (tra l'altro uno degli ultimi acquisti dei raduni) con la sua rubrica "A luci accese", spazio dove ogni volta, con riflessioni davvero belle e super interessanti, analizzerà alcuni aspetti di film che ha amato.
In questa puntata abbiamo un film "caldissimo", "Men" (Il femminile oltre il mito), un capolavoro degli anni passati, "Melancholia" (L'Apocalisse dentro) e un film tanto bello quanto sottovalutato, "Two Lovers" (Sul senso di una fine).
Come sempre accade quando ci sono pezzi con più film ricordatevi di cliccare "continua a leggere" quando incontrerete il "blocco".
Buona lettura!

N° 4 MEN- IL FEMMINILE OLTRE IL MITO


Dopo aver letto diverse critiche e recensioni di MEN, ho riscontrato diverse letture che alludevano tutte a un tema che spesso viaggia sul filo dello scandalo ed è troppe volte affrontato senza la serenità necessaria: la condizione femminile e il suo rapporto con il mondo maschile. Quindi, per quanti abbiano provato insofferenza per questo film (solo in un secondo momento mediata da più compassata critica) azzardo una premessa: finché la donna non occuperà il posto nel mondo che le spetta, dovremo subire fiumi di script affollati di figure maschili “mononeuronali”, oltre all’indignata retorica sul patriarcato, sul maschio dominante e la giacobina amputazione di tutti i sostantivi che finiscono per "o" (con applicazione di improbabili protesi fonetiche dal valor neutro), a compimento della "vendetta" per tutto il senso di colpa e umiliazione inflitti per secoli da puerili archetipi a sostegno di imbarazzanti sofismi sulla supremazia maschile (sempre negata ma subdolamente sottesa). E’ questa la pena che sconteremo e - ribadisco - giustamente. Facciamocene una ragione. Ogni sbilanciamento necessita di altrettanto contrappeso perché si recuperi il giusto equilibrio. Quindi la strada da percorrere è ancora lunga e tutto quello che possiamo fare è portar pazienza, fidenti che pur di tornare a miti consigli remeremo tutti dalla stessa parte per il nobile scopo dell'uguaglianza (che poi si chiamerebbe dignità). Gli ottusi che non comprendano saranno presi per sfinimento e se la saranno cercata; gli uomini illuminati sopporteranno seraficamente, consci della necessità di tutto questo: si sa, i figli pagano sempre le colpe dei padri.


Ora, tornando seri, dico che però MEN non può ridursi all’iperbole di ispirazione pseudo femminista a cui i suoi sostenitori (e delatori) ammiccano, o almeno è dato chiedere molto di più per quello che ci lascia, anche se ad un primo sguardo ha tutto o quasi per entrare nella premessa iniziale. Nella pellicola di Garland è evocato per simboli  il mito in cui il femminile è piegato alla natura perché è la vita stessa con i suoi immutabili equilibri a esigerlo e violarne l’ordine è di per sé dannazione. L'invadente nudità dell'uomo/archetipo trasfigura in simbolo ancestrale della Natura stessa, spargendo il seme al culmine della mutazione con un soffio indifferente alla volontà di chi lo riceve, arrogandosi il dominio sul femminino. Per Garland qualunque forma di violenza e possesso nei confronti della donna sembra risalire a quell'atto primordiale: un’Annunciazione pagana madre di tutte le maternità che solo può essere sfidata dalla storia, percorso in cui matura la coscienza del Sé.  E quindi MEN può essere molto più anche di un film sul preteso ordine naturale e i ruoli sociali che ne conseguono, proprio in virtù della forza con cui Harper rivendica sé stessa; è un film che punta il dito contro il dominio brutale e gli istinti ad esso asserviti, sintomi dell’analfabetismo emotivo alla base dell’incapacità d’amare (“Dio ha creato la bellezza per distruggere o per essere distrutta”). Ma tutto questo - se guardiamo bene - è solo per poi andare oltre.


Garland  racconta innanzitutto una storia di crescita personale capace di spezzare le catene dell’eterno ritorno: il parto sterile ogni volta dello stesso uomo, degli stessi stereotipi, dello stesso ordine costituito e della sua crudeltà. Una stasi ontologicamente opposta all'umanità (unica specie che in quanto cosciente della sua evoluzione la condiziona) che oppone il suo moto di ribellione. I fantasmi coraggiosamente affrontati da Harper sono innanzitutto il contenuto della sua propria esperienza personale: unica e particolare nella tragedia che racconta e mai riconducibile a uno schema condiviso nel conformismo di genere, infondo sempre rassicurante. Perché ogni relazione tossica materializza scelte che siamo i primi ad aver realizzato contro noi stessi e possiamo risolvere solo recuperando quella nostra parte che non abbiamo protetto. Stante le ingiustizie sociali e i paradossi culturali che le producono,  se questi funzionano a livello collettivo non possono sostituire cosa abbiamo fatto in prima persona della nostra storia. Fa molta più paura a ciascuno (uomo o donna) la solitudine necessaria a comprendere l'enigma della propria unicità e quindi della propria esistenza: quella solitudine cercata da Harper in cui ritrova i propri mostri per affrontarli e che fa tutta la differenza del (suo) mondo e degli affetti che vi sono inclusi; e non può che essere un viaggio surreale in cui si mescolano tutti gli elementi onirici del caso.

MEN e' innanzitutto uno spunto per capire che ogni retaggio ancorato al dominio inumano dell'istinto e alla sua cecità è da sempre quanto ci separa dall'estremità luminosa del tunnel e solo il nostro sguardo può decidere chi e come possa farci tornare indietro.  E non c’è rivoluzione che non parta da quello.

N° 5 MELANCHOLIA- L'APOCALISSE DENTRO


Vista la profondità dei temi di Melancholia e la vivacità del confronto che suscita il suo autore,  mi trovo a riprendere quanto scrissi (molto tempo fa) su un altro blog che pure – proprio a proposito di questo film - non nascondeva una certa insofferenza nei confronti del (presunto) pessimismo “cosmico” di Von Trier, a maggior ragione disturbante per l’efficacia visiva con cui viene inflitto allo spettatore: uno shock che il più delle volte induce sulla difensiva. Personalmente però quello di Von Trier stento a reputarlo pessimismo, sebbene sembri  tale quando – implacabile - smonta l’attitudine a una visione rassicurante della condizione umana, soprattutto se costruita sul senso comune. Ma intanto faccio una premessa: ogni elemento della lettura di un autore è sempre in parte trasformato dallo sguardo altrui quando ne viene assimilato e di seguito c’è solo il modo in cui è rimasto a me, senza alludere ad alcuna oggettività. Lo so, è banalmente ovvio ma averlo detto è meglio.

 Melancholia ci parla dell’indifferenza degli eventi non solo a ogni ordine di aspettative, ma a qualunque umana visione per quanto edificante ai nostri occhi. Ciò in cui possiamo perderci (di fronte a quest’opera ma anche a molte delle iperboli di Von Trier) è non accettare che le luci con cui  - spesso a fatica - ravviviamo il nostro essere irradino soltanto noi stessi e al massimo quanto ci è  più prossimo, ma mai possano rischiarare quel buio che ci circonda ancor prima di nascere e a cui siamo destinati. Vorremmo non esistesse quel buio perché minaccia di svuotarci, sembra avvolgere l’infinito; tuttavia il vero problema è farsene sopraffare in quell’attimo tra l’inizio e la fine che si chiama vita. Melancholia è un j’accuse contro i lumi artificiali del raziocinio piegato alle lusinghe dell’illusione, in luogo di un’oscurità la cui purezza è casomai sfondo ideale al riverbero delle nostre vite. Egli non accetta questo sabotaggio all’esistenza e ci incalza con le tenebre per vedere fino a che punto vedremo solo quelle, salvo mortificarci in retoriche rassicurazioni collettive. Non pessimismo dunque, ma una visione dell’uomo (di ispirazione mitteleuropea) in un mondo da accogliere per ciò che è invece di  ridurlo a propria immagine per non sentirsi sparire; perché lo smarrimento è anche trovarsi impreparati quando – per qualunque ragione – quell’immagine rivela la propria inconsistenza davanti al vuoto che è sempre stato lì, privo d’intenzione. Può annullarci o essere l’unico fondale su cui scoprirsi finalmente visibili: ecce homo!




 Qualunque artificio consolatorio per Von Trier è una menzogna inflitta a se stessi ma anche  a chiunque si teme possa farla vacillare, imposta da ruoli sociali e maschere del pudore. Ed ecco Melancholia, astro immenso e luminoso, scagliato su quest’umanità persa ogni giorno nei convenevoli del quotidiano (eh sì,  quando si dice che uno è incazzato).

21.9.22

Recensione: "Watcher"

 

Watcher è un gran bel thriller, o senz'altro uno di quelli che la sala la merita davvero (andateci). La storia di una giovane coppia americana che si trasferisce, per il lavoro di lui, in Romania.
I due vivono in un bellissimo appartamento ma qualcuno, dalla finestra del palazzo di fronte, fissa di continuo Julia.
Tutto questo mentre in città imperversa un serial killer di donne.
Julia si sente pedinata, in pericolo, molestata. Ma nessuno sembra crederle fino in fondo.
Un film, l'ennesimo, che in maniera più che convincente affronta la condizione femminile dei nostri tempi, in questo caso quella del non essere credute malgrado si trovi il coraggio di parlare.
Una notevole Maika Monroe per un film, però, che non spicca mai il volo, che promette più di quello che mantiene e che negli ultimi 5 minuti gioca leggermente sporco con lo spettatore.
Ma, almeno in sala, ce ne fossero di Watcher

ad un certo punto, non ricordo quando, ci saranno spoiler

In questo ultimo decennio non si contano ormai più i film che direttamente, indirettamente, metaforicamente o come vera e propria denuncia trattano uno dei temi più importanti di questi nostri tempi, ovvero quello della condizione femminile.
Condizione femminile che sempre più, finalmente, sta arrivando agli occhi di tutti.
Molti traguardi, culturali e sociali, sono stati raggiunti ma la strada è ancora lunga e certe cose - tra tutte, il femminicidio - non potranno mai scomparire del tutto perchè più che cancro sociale sono un qualcosa di molto più atavico e animale, magari un giorno se ne parla.
Sì, gli uomini uccideranno le donne anche tra 10 anni, 20 o 100.
Oltre alla inevitabile sensibilizzazione (e le nuove generazioni credo in questo siano molto migliori di noi, anche perchè stanno crescendo in un mondo più tollerante e consapevole di quello che era il nostro) serve un tempo lunghissimo per far sì che - quasi "geneticamente" - il maschio cambi alcune delle sue connotazioni.
In ogni caso Watcher (perchè del film in qualche modo bisogna parlare) è un'opera che affronta un altro grande problema di questi tempi - correlato a quello sopra - ovvero il dramma di tutte quelle ragazze che trovano il "coraggio" di denunciare/confidare violenze subite (fisiche, psicologiche, stalking etc) ma non essere credute o, in ogni caso, aiutate.


Julia (una bellissima Maika Monroe) deve seguire il marito (mezzo americano mezzo romeno) in Romania, dove quest'ultimo ha trovato un importante posto di lavoro.
L'appartamento dove vivono (una specie di albergo in realtà, coi numeri alle porte) è stupendo, anche se si trova in un quartiere molto più degradato, povero, il classico agglomerato di edifici vecchi, grigi e fatiscenti che siamo abituati a vedere nel cinema romeno.
Julia è quasi sempre sola a casa e si accorge che davanti a lei, nel palazzo di fronte, c'è un uomo che la osserva di continuo (da qui il titolo "Watcher").
Tutto questo mentre nella città sta imperversando un serial killer che uccide giovani donne...

I due meriti principali di Watcher - anzi, tre - sono la sua protagonista, l'ambientazione e la costruzione delle scene.
Maika Monroe (che abbiamo visto in un grande film come It Follows e in un mezzo grande film come The Guest) è davvero notevole. Riesce perfettamente ad impersonare una ragazza molto dolce, umana, timida ma con un fuoco che ribolle dentro.
E non mi riferisco tanto alle scene di "pericolo" (quelle con lo stalker) ma anche a quelle di vita quotidiana dove più volte di sentirà "esclusa", messa in secondo piano, non valorizzata.
Molto interessante in questo senso la scelta di lasciare parlare quasi tutti i personaggi in rumeno (senza che nemmeno noi spettatori avessimo sottotitoli per capire, così da identificarci del tutto con lei), scelta "straniante" che porta Julia molto spesso a sentirsi esclusa dalle conversazioni e, al tempo stesso, "tesa" e triste per ha la sensazione che si parli di lei. 
In questo senso la scena della cena è perfetta e, incredibile, richiama un pochino proprio quella - meravigliosa - di un film capolavoro guarda caso rumeno, "4 mesi, 3 settimane e 2 giorni". Quel sentirsi a disagio della protagonista mentre gli altri mangiano, parlano, parlano e mangiano me l'ha ricordato molto (anche se le due tensioni derivano da due motivi diversi e anche la bellezza della due scene non è equiparabile).
Ho amato moltissimo gli occhi di Maika, gli occhi di una ragazza che chiedono aiuto, comprensione, amore, gli occhi di una ragazza che non vuol dar fastidio ma al contempo non accetta quanto sia messa da parte. Davvero perfetta la Monroe in questo.
 E, andando alle scene con lo stalker, impossibile non ripensare proprio ad It Follows (chissà se la regista l'ha scelta vedendola lì), visto che molte sequenze lo ricordano per atmosfere (anche questo film poteva chiamarsi It Follows, a ben pensarci).




Poi, ho amato molto l'ambientazione in Romania, sia per il fatto in sè sia, usando la lente d'ingrandimento, per il contrasto tra i due palazzi protagonisti. Diciamoci la verità, un serial killer a Bucarest rende tutto molto più figo e il fatto di trovarci nella terra di Dracula (il film un pochino ci gioca) crea una specie di metafora/doppio testo abbastanza intrigante.

Poi, come detto, la costruzione delle scene. Il film non eccelle in sceneggiatura (tutta giocata sul fatto "vi stiamo dando una storia prevedibile che fino alla fine potrebbe essere imprevedibile e invece è prevedibile davvero") ma 3/ 4 scene sono girate e montate da dio.
Quella al cinema (veramente ansiogena per la protagonista), quella al supermercato, quelle del gioco di sguardi tra i due palazzi (il top è quando ci accorgiamo che lui osserva lei anche a tende chiuse), la metropolitana, sono tutte scene con tecniche già viste, luoghi già visti, sensazioni già vissute, ma girate veramente bene.

15.9.22

Recensione: "Rimini"

 

Richie Bravo è un cantante da balera famosissimo decenni prima.
Adesso è "vecchio" e per arrotondare deve fare concertini con musica in playback davanti ad esangui - ma appassionate - vecchie fan, fan con le quali (e questo tipo di sesso-amore in Rimini è trattato in modo meraviglioso) va anche a letto a pagamento.
Tutto questo in una Rimini invernale, nebbiosa, con un'ossimorica neve che fa pure capolino.
Tutto questo in alberghi che hanno smesso di essere vivi da 30 anni, così come il protagonista.
"Rimini" è un film sulla solitudine, sulla sopravvivenza, sul cercare ancora di restare aggrappati a quello che si era.
Un personaggio principale straordinario e un soggetto che adoro in un film, però, che pur bello risulta un pochino fragile narrativamente, ha una seconda storia debole e un finale, ahimè, che è la parte peggiore di tutto.
In ogni caso da vedere di corsa

Conosco ancora troppo poco Seidl.
Ho visto solo due film suoi, questo e Im Keller (In the basement).
In tutti e due i casi posso dire che ho adorato i due soggetti, meno i film.
Ma se "Im Keller" (una sorta di documentario morboso sui possibili modi in cui possono essere usate le cantine...) mi deluse proprio devo dire che Rimini è e resta un gran bel film, perfettamente nelle mie corde.
Il problema è un finale che lo affossa e una narrazione che non riesce mai a spiccare il volo del tutto.
Insomma, soggetto perfetto, svolgimento super interessante ma poi leggera delusione per aver voluto, da parte mia, qualcosa in più.

Facendo una battuta nella famiglia Seidl preferisco ancora di gran lunga i due film della moglie, Veronika Franz.
Mi riferisco a Goodnight Mommy e The Lodge, due perle (specie il secondo per me).
Però "sento" che io e Seidl un giorno possiamo innamorarci, devo solo trovare il film giusto.


Rimini è la storia, un pò The Wrestler un pò Birdman, di un ex cantante tedesco (da balera, canzoni terribili) di grande successo in Italia, Richie Bravo.
Ormai "vecchio" e completamente fuori dalla cresta dell'onda, Richie si guadagna da vivere con piccoli concerti (con musica in playback) in alberghi riminesi dove suoi connazionali (più giovane 70 anni) hanno ancora la voglia - stanca - di ascoltarlo.
In più si concede alle sue attempate fans con incontri di sesso a pagamento.
Non ha nessuno intorno, solo un vecchio padre ormai demente in una clinica tedesca (o austriaca, non ho capito) e un fratello che vede solo in occasione del funerale della madre (fratello, mi dicono, su cui Seidl ha fatto un altro film che deve uscire).
Una storia quindi di solitudine, di tremenda malinconia, di ancoraggio ad un passato glorioso e irripetibile.
Un film, in qualche modo, di sopravvivenza.

Il soggetto è bellissimo.
Adoro i film sulla solitudine, su personaggi ai margini, su storie minime.
Il vero capolavoro di Rimini è questo, la figura (stupenda) del protagonista incastonata in una ambientazione fredda e desolata, quella quasi ossimorica della Rimini d'inverno.
Spiagge fredde e ventose, neve nel finale, nebbia, hotel anni 80 morti fuori e morti dentro (anche chi li abita), scantinati, poster di tempi che furono, luci al neon che illuminano il nulla cosmico, lustrini anacronistici, musica in playback.
Lui stesso mette pancere per esibirsi, gira continuamente in una grottesca mise di canottiera e pelliccione, beve sempre, è la classica immagine, penosa, di un sessantenne che non accetta la resa.
Seidl è straordinario nel restituirci questa desolazione, e la sua Rimini, in qualche modo, è più "bella" di quella del caldo afoso, delle spiagge piene, dei culi in mostra, delle feste.
Inutile dire che questa Rimini-non-Rimini è perfetta personificazione del personaggio principale, un rovescio della medaglia di quello che fu, la sua parte invernale che fa da coltraltare all'estate della gioventù.
In questo magnifico scenario Seidl - e anche qui lo fa in modo perfetto- racconta anche altro, dimostrando una sensibilità che, conoscendolo poco, non sapevo gli appartenesse.
Richie Bravo va a letto (un sesso geriatrico ma assolutamente passionale e in qualche modo eccitante più di tante scene di sesso viste al cinema tra giovani) con le sue fan.
A pagamento.
Ecco, uno spettatore per me superficiale potrebbe intendere questo come squallido, penoso.
Anche perchè, oltre ad essere a pagamento, gli incontri sono tutti in camere d'hotel rimaste a 30 anni prima, se non in luoghi peggiori.
Eppure non è così.
Gli incontri sessuali tra Richie e le sue anziane donne sono pieni d'amore.
Sembra assurdo ma lo sono.
Perchè Richie le tratta veramente come principesse, le fa sentire bellissime, eccitanti, porche, attraenti. E dà veramente tutto sè stesso.
Sta recitando?
Può essere, ma non cambia la sostanza.
Per donne ormai anziane e sole questo sesso con un loro idolo, sesso passionale e condito da così tante attenzioni, è comunque qualcosa di bellissimo, qualcosa che le fa sentire ancora vive. In qualche modo è veramente amore. Non l'amore vero, quello dei sentimenti per un'altra persona, quello del non ci lasceremo mai.
Ma sono piccoli atti d'amore che, recitati o no, restano comunque straordinari.


Quindi no, il sesso di Rimini non è squallido, chi lo dice lo dice solo perchè fa la somma di tutti gli elementi (l'essere pagato, loro vecchie, gli hotel anni 80) senza invece avere la sensibilità e l'oggettività di vedere il contenuto.
E' semmai un sesso malinconico, doloroso, il sesso di chi sa che fuori da quei 5 minuti di "vita" si tornerà poi alla freddezza e solitudine della vecchiaia. Non a caso una scena del film (la più bella?) ci fa vedere quella donna che appena un secondo dopo aver fatto sesso con Richie va nella stanza vicino a piangere sul fianco dell'anziana madre. Cinque minuti di terribile poesia, con dentro una vita intera.
Richie è veramente un uomo che regala amore, e lo fa anche attraverso le sue terribili canzoni.

13.9.22

Festival del Cinema di Venezia 2022 - Parte 2 di 2 (18 film!)

 

Ed eccoci alla seconda e ultima parte del nostro resoconto di Venezia.
Se non sbaglio abbiamo un film più di ieri e anche una voce in più (Lorenzo).
Buona lettura!

come sempre ricordo di cliccare "continua a leggere" per vedere tutto il post



TOMMASO FERRERO


THE ETERNAL DAUGHTER di Joanna Hog (Regno Unito)


Un po’ di citazionismo alla vecchia maniera di fare un horror, un po’ di albergo alla shining, un bel po’ di Tilda Swinton e, in teoria, il film è servito. Peccato che The Eternal Daughter sia venuto male, tempi di cottura errati a mio avviso per un film aritmico, senza la giusta tensione e un finale annunciato che sa un po’ di cliché.
Una regista si ritira con l’anziana madre (entrambe interpretate da Tilda Swinton) in un hotel che si dice essere infestato. La donna sta cercando di scrivere un film sul rapporto con la genitrice, che conserva numerosi ricordi dell’albergo, un tempo casa per le vacanze della sua famiglia. La donna non riuscirà a lavorare, tormentata da spifferi, finestre che sbattono e un rapporto da parte sua isterico e iperprotettivo nei confronti della madre.
La Swinton è estremamente brava, ma non abbastanza da salvare un film che esaurisce la bellezza della propria trama e il suo sviluppo in 10 minuti. Eliminando la parte centrale, avremmo ottenuto un ottimo corto, con un finale clichettoso ma comunque adatto a una produzione di 20 minuti. E invece il film dura un’ora e mezza circa, un’ora e mezza di nulla. Inquadrature riciclate per creare un senso ciclico di tensione che però sfocia nel nulla. Il film potrebbe raccontare molto di più e molto meglio, ma arriva alla fine con uno spettatore stanco, che ha compreso il gioco alla base e che non ha più voglia di sentire la morale sulla rielaborazione del lutto, sul rapporto con il passato e con i propri, pressanti, ricordi.


SHAB, DAKHELI, DIVAR (OLTRE IL MURO) di Vahid Jalilvand (Iran)


Un altro film che parte da un soggetto davvero interessante ma che alla fine scade in una narrazione retorica non degna di una sala cinematografica.
Un uomo che sta diventando cieco vive da solo in un appartamento. Il suo tentato suicidio é interrotto da un annuncio della polizia. Una fuggitiva si nasconde nel palazzo, chiunque abbia notizie deve immediatamente riportarlo. L’uomo nelle nebbie della sua malattia si rende conti che non e da solo in casa, e scopre lentamente il passato della donna, mentre dall’esterno, poliziotti e amministratori condominiali entrano ed escono a loro piacimento, sospettando qualcosa.
Il film parte, dunque, da un bel soggetto. La scelta registica e di scenografia è pure interessante e non è un film da bocciare. C’è da dire che il colpo di scena finale (proprio come in the eternal daughter) si annusa da tanti elementi finché, poi, effettivamente, arriva. Un altro bel clichettino cinematografico in chiusura per trasformare un bel film in una bella spatafiata retorica sulla prigionia e sulla malattia. Un film leggibile, non sconsigliato, con delle scelte interessanti e una coprotagonista fastidiosissima, che crea un bel setup per un finalino molto abbozzato.


BLONDE di Andrew Dominik (Stati Uniti)


Un bel biopic che si inserisce nella scia di un genere che ha riscoperto un certo successo negli ultimi dieci anni.
La vita di Norma Jean Baker, passata agli annali come Marilyn Monroe, una delle icone che hanno rivoluzionato l’immaginario pop mondiale.
La storia è intima, racconta il rapporto malato e opprimente fra Norma Jean e il suo alter ego, in una vita complessa fatta di abbandoni, aborti, soprusi e una incombente malattia psichiatrica ereditaria sostenuta da stress, alcol e tanti, tanti, sonniferi.
Questo è un bel film, si parla della vita di una star che ha rappresentato per anni la frivolezza del sistema hollywoodiano, ma se ne parla senza fronzoli, in maniera dura e vera. La regia segue i sogni di una ragazza che cerca rivalsa dalla sua condizione, partendo da un’infanzia dove un padre mai conosciuto diventa una irraggiungibile stella polare per tutta la vita. Blonde é un film maturo, intelligente, citazionisticamente colto, che coglie degli aspetti nascosti di una persona complessa e interessante come Norma Jean. C’è da capire cosa sia finzione e cosa sia realtà, ma in fondo è il tema dell’intero film, il rapporto fra le aspettative e la vita, fra il sogno e la realtà, dove un sorriso in copertina e le gambe più belle d’america divorano lentamente la vita di una giovane ragazza libera e gioiosa. Il filtro dello schermo hollywoodiano sembra alzarsi e abbassarsi in continuazione e a tratti sulla vita della ragazza e davanti ai nostri occhi, creando un flusso di sogno che racconta una dura realtà.


GOLIATH di Adilkhan Yerzhanov (Kazakistan)



Un altro film di Yerzanov. Un altro film, come the yellow cat qualche anno fa, che credo di aver apprezzato solo io e qualche altro in sala.
Trama molto semplice: un signorotto locale domina la zona con la violenza e uccide la moglie del nostro protagonista, ex militare zoppo da una gamba e balbuziente. Il signorotto domina seguendo i dettami machiavellici del “Principe” creando un continuo rapporto fra violenza e favori elargiti. L’uomo viene così assunto come guardiano di una miniera, ma scalerà velocemente i ranghi con l’obiettivo di eliminare il signore e i suoi collaboratori dall’interno.
Un bel revenge movie, lo dice all’inizio, fa quello che promette, esci dalla sala gasato, un po’ di sparatorie, belle immagini, dialoghi validi. Un bel film, semplice certo, ma che non cerca di abbindolare il pubblico o di colpire con metafore campate per aria. Racconta una storia di poteri, dove il lupo mangia il lupo, dove la violenza detta legge in una terra di confine di cui la legge stessa si è dimenticata. Un cattivo principale illuminato, di grande qualità per un bel film di vendetta, con un protagonista atipico in una terra desertica che crea una nuova frontiera orientale di far west.


LES MIENS di Roschdy Zem (Francia)



Una simpatica commedia familiare che mette a nudo come, anche in famiglia, i rapporti possano essere non del tutto sinceri.
Un uomo, che sta affrontando un abbandono improvviso e non voluto da parte della moglie, cade ad una festa. Dopo un semi coma di alcuni giorni si sveglia, ma non è più capace di mentire, anzi ha reazioni apatiche a ogni emozione che richieda empatia. Questa condizione scatena il panico nella numerosa famiglia, compromettendo i rapporti costruiti in una vita assieme.
Una commedia che si sporca di dramma che riflette dolcemente sui rapporti familiari e su cosa sia, effettivamente, un rapporto fra fratelli. Il dire sempre quello che si pensa, senza filtri, porta alcuni ad allontarsi, altri ad avvicinarsi, in un gioco in cui l'accudito diventa, in fondo, l’unico sano. Una classica commedia alla francese, probabilmente più adatta al teatro che allo schermo, ma che trova comunque una sua dignità.


KHERS NIST (GLI ORSI NON ESISTONO) di Jafar Panahi (Iran)



Gli orsi non esistono, un bellissimo titolo per un film che è metacinematografico sia nel vederlo sia che a leggerne la storia produttiva.
Un regista dirige il suo film in esilio dal suo paese, senza la possibilità di poter passare il confine per poter seguire il documentario che sta girando per seguire due profughi che cercano un modo illegale di entrare in Europa. Per stare più vicino al film il regista si trasferisce in una città di confine, dove viene coinvolto in una vicenda locale di onore e amore. Lì segue la storia dei suoi protagonisti oltre il confine che è semplicemente un percorso di poche miglia che continua a richiamarlo.
Il film non è eccezionale. Rende molto bene la realtà di chi sta vivendo in esilio, l’attrazione per la fuga e la possibilità di chi può permettersi economicamente di fuggire a differenza di chi, come gli abitanti del villaggio, non può. Interessante diventa la lettura del film sapendo che per girarlo il regista (che è anche protagonista) è stato arrestato e messo in prigione per 6 anni per propaganda contro il regime iraniano. Il film assume la forma di manifesto di lotta di qualcuno che resta e che non scende a compromessi con la censura, ma decide di rispettare la legge del proprio paese. Un bel messaggio filmico di un regista impegnato e capace che ha deciso di lottare contro sistemi più alti di lui e che riconferma che, ad oggi, il cinema è un mezzo necessario, dovuto e che va oltre il frivolo estetismo.


COPENHAGEN COWBOY di Nicolas Winding Refn (Danimarca)



E di puro estetismo è stata la lunga visione (cinque ore ) della serie del nostro amato Refn. Non scrivo troppo della trama perché, sinceramente, non è davvero importante.
Una ragazza portafortuna viene comprata da una gestrice albanese di un bordello. La ragazza fuggirà, attirando l’attenzione della triade cinese e di una arianissima famigli di vampiri.
La serie è una mezza follia che racconta scene sconclusionate dalla coesione narrativa molto flebile. La sala era gremita di fan del regista, anche io lo sono, quindi l’accoglienza è stata calorosa a dir poco, ma se non avessimo avuto Refn a dirigerla non sarebbe stata in piedi. Esteticamente è qualcosa di stupendo, un teal and orange di grande qualità spalmato su un film che passa dal dramma, al film di mafia, al gangster movie, al film di arti marziali e al trash horror. Insomma, una bella visione completamente folle, che ha mostrato una versione ancora più tamarra di refn e della sua famiglia (impiegata quasi in toto nella produzione) creando un’opera non facilmente, se non del tutto, definibile.


THE HANGING SUN di Francesco Carrozzini (Italia, Regno Unito)



Tratto da un romanzo di Jø Nesbo the hanging sun parla di un uomo (Alessandro Borghi) in fuga dagli affari sporchi della sua famiglia adottiva. L’uomo, inseguito dal fratello, si nasconde in un paesino dell’estremo nord, dive non tramonta mai il sole, e dove la comunità si basa su una società altamente patriarcale e duramente protestante.
Il film è assolutamente piacevole. Borghi è oramai più internazionale che italiano come attore e questo gli permette di reggere una bella performance per tutta la durata di un bel revenge movie. Non si parla di un capolavoro, ma di un bel film che continua la scia di produzioni “diverse” del mercato italiano, donandomi una certa speranza sul futuro del nostro cinema e per i nostri mestieranti. Il film ha una bella scrittura e delle scelte registiche che favoriscono l’ambiente incredibile, quasi surreale, in cui il film prende vita. La bellezza della storia risiede nella sua semplicità, creando personaggi interessanti in una cornice interessante. Si poteva fare di più? Sicuramente si, ma spero solo che questo diventi lo standard del nostro cinema, produzioni diverse, un minimo coraggiose, capaci di portare la qualità italiana anche su mercati internazionali e non solo per il circolo romano del cinema. Speriamo davvero.

CONSIDERAZIONI FINALI

 Questa festa del cinema è stata strana, forse fiacca. Complice il mio tardo arrivo, ma devo dire che non ci sono stati dei colpi di fulmine. Forse sto invecchiando e perdendo la capacitá di vedere il bello in ogni pellicola o, forse, quest’anno mi è parso di notare che la selezione ha abbassato i criteri minimi di entrata, favorendo un po’ il politicamente corretto e la paraculaggine. Vedremo l’anno prossimo cosa ci riserverà, magari arrivo prima che non si sa mai.


ENRICO GASPARI


ARU OTOKO (UN UOMO) di Kei Ishikawa (Giappone)



Una delle prime sorprese del Festival, forse quella che più mi è rimasta dentro, sicuramente corrisponde a questo misterioso film giapponese. La prima scena è diretta, senza fronzoli: una giovane donna singhiozza, in una cartoleria. Entra un uomo, come da titolo, compra e se ne va. Questa donna, scopriremo poi, ha perso un bambino, e quell’uomo tornerà, più per interesse verso lei che per strumenti da disegno. Questa la premessa, e da qui sarebbe doveroso tenere le rivelazioni al minimo, perché indovinare dove Aru Otoko vuole portarci, credo ben pochi vi riuscirebbero. Inizialmente sembra un dramma familiare e romantico, anche parecchio ben costruito. Eppure c’è sempre qualcosa di strano, un non detto, una sfumatura indistinguibile finché la cattiveria di questo film non emerge. Ecco che succede il peggio, in realtà solo il braccio visibile di una lunga spirale, che porta alla luce un dubbio inquietante: conosciamo veramente le persone che ci stanno accanto? Forse l’altro da sé è destinato sempre a rimanere ignoto, o di spalle, geloso dei propri segreti come l’uomo dei quadri di Magritte? Il film svolta totalmente, la prospettiva si sposta da Rie all’avvocato che la nostra protagonista assume per tutelare i suoi diritti, ma soprattutto scoprire la verità. È lui il vero protagonista, il signor Kido, un uomo buono, capace, di cui ci si può fidare, e reciprocamente si fida della propria famiglia. Eppure persino questo baluardo di sicurezza vacilla, niente sembra certo, niente sembra indiscutibile in questo film, le identità, i passati, la precaria situazione dei coreani in Giappone (investiti da ondate di xenofobia), i legami famigliari, coraggiosamente descritti come marci fino al midollo, tenuti assieme solo dal perbenismo. Le indagini vanno avanti, costruite in modo appassionante, piene di rompicapi, dettagli sfuggenti, personaggi (a volte troppi, per esempio quelli della palestra occupano eccessivo spazio, si potevano smussare); e come in ogni buon thriller-noir che si rispetti, l’investigatore non ci passa attraverso indenne, ma anzi giunge a uno stato di profonda crisi individuale. Crisi che sembra risolversi in un finale quasi tenero, speranzoso se non verso la sincerità almeno l’affetto dei rapporti umani, solo per tirarci il definitivo schiaffo quando si rivelano gli altarini della famiglia Kido. E poi c’è quella meravigliosa ultima sequenza nel bar, che quasi ci dimenticavamo di quell’elemento datoci fin dall’inizio (volutamente da me non citato, perché questo film va visto), dove tutto crolla, e persino la domanda più semplice rimane senza risposta.


KOROSHI NO RAKUIN (LA FARFALLA SUL MIRINO) di Seijun Suzuki (Giappone)



Edizione gloriosa, questa Venezia 79, per la Nikkatsu, più che una casa di produzione un pezzo di storia del cinema, visto che è stata fondata nel 1912 (!) ed è tuttora attiva in Giappone 110 anniversari dopo. Non solo ha portato Aru Otoko qui alla Biennale, dimostrandosi almeno per il sottoscritto ancora sulla cresta dell’onda, ma ha presentato ben 3 restauri dal suo illimitato catalogo: il già citato “Una gallina nel vento”, “Il Profondo desiderio degli Dei” di Shohei Imamura (purtroppo non fatto in tempo a vederlo), e appunto “La Farfalla sul Mirino”. Caso particolare quest’ultimo, visto che lo screzio del regista con la Nikkatsu stessa è uno dei più famosi della storia nipponica, e se col senno di poi viene spacciato dagli eredi di quei produttori come un gioiello, non si può biasimare completamente chi nei ranghi all’epoca lo definì “francamente incomprensibile”. Anzi, tenete bene a mente queste parole, e diffidate di chi vi dirà di aver capito la trama, perché questo è uno dei cult più folli e imprevedibili usciti da quel cinema folle e imprevedibile del Giappone. Rettifichiamo: la maggior parte del cinema mainstream è impostato, lì come altrove. Non a caso negli anni ’60 andavano fortissimo le storie di yakuza, un po’ come nel Belpaese il decennio dopo si faranno solo gialli all’italiana, e La Farfalla sul Mirino non fa eccezione: ma ecco che erompe la forza di controcultura, quella sì capace di scombinare le regole e i canoni. Dunque il protagonista è sì il solito killer infallibile al soldo di una potente organizzazione, e gli succedono sì le solite cose, ovvero innamorarsi, fallire il lavoro che lo farà cadere dalle stelle alle stalle, vendicarsi alla fine dei vecchi padroni. Solo che questo killer per concentrarsi ha un bisogno che sfiora la perversione di annusare il riso bollito, e s’innamora di una donna ossessionata con la morte, che compare solo quando piove (o comunque l’acqua scorre, vedere i geniali stacchi con la doccia) e vive in una casa quasi argentiana coi bacherozzi appesi al muro e gli uccellini trafitti da aghi, e invece della classica sfida all’ultimo sangue col killer numero 1 (ovviamente c’è la graduatoria in pieno stile anime) questo gli fa i dispetti a distanza tipo Fantozzi per poi, in una svolta assolutamente geniale, andare a vivere direttamente con lui in attesa di ucciderlo. Ah, e naturalmente c’è il motivo dell’omicidio fallito, quasi da parabola zen: una piccola farfalla, che col proprio peso sul mirino sposta il proiettile di quei pochi millimetri fatali. Questo è certamente uno dei vertici espressivi di Seijun Suzuki, anche se non il mio preferito (personalmente rimane “Ufficio Investigativo 23”), qui in usuale collaborazione col suo attore feticcio, l’altrettanto iconico e compianto Joe Shishido. Un regista che definire di culto è riduttivo: virtuoso dell’inquadratura “parlante”, che racconta quasi più della storia stessa, oltre ad essere ovviamente bellissima, come testimonia il bianco e nero restaurato di questa pellicola; sperimentatore audace con quel suo montaggio sincopato alla Peter Hunt; immensamente influente, basti pensare alla saga di Lupin III di cui dirigerà pure un film, L’Oro di Babilonia (come si fa a non amarlo!?); in generale vulcano di idee, dalle più sorprendenti come l’omicidio tramite il tubo di scarico, alle più divertenti che qui veramente non si contano, specie nella già citata fase di “convivenza” col numero 1. Le parole non rendono però giustizia: guardate, e scoprirete.


OBEŤ (SACRIFICIO) di Michal Blaško (Slovacchia)


Thriller ceco tanto ansiogeno quanto ben costruito, da vedere assolutamente. Meglio dire il meno possibile per non rovinare la sorpresa, basti dire che racconta di una madre ucraina, che nella prima scena vediamo di ritorno in Repubblica Ceca per tornare da suo figlio. Apparentemente, all’ospedale per percosse. Ma è davvero così? Sorprendente, davvero sorprendente, specie per un esordio, che forse mostra l’insicurezza dell’opera prima solo in quei dieci minuti finali dove la tensione tende ad allentarsi (ma si rifà subito con un gran finale). In tutto il resto del film la guardia è altissima, alla ricerca di una minaccia che si trova nascosta, oppure, cosa ancora peggiore, non smette di far paura anche se forse nemmeno esiste. Viviamo con la protagonista le sue ansie, la pena per la vita distrutta del figlio (lo sport, quella ragazzina allontanata che era l’unica presenza umana nella sua vita), ma soprattutto l’opprimente sensazione di essere un impostore, un membro estraneo nella società, su più livelli, perché bugiarda, perché immigrata ucraina in Cechia, perché frutto di attenzioni estremamente ipocrite. Forse è la falsità del contesto a rendere tanto potente quel finale, quella sindaca che si muove solo per fini elettorali, l’attivista egocentrico interessato solo a soffiare sul fuoco, pennellate nell’affresco di un paese, ma se vogliamo un’intera umanità, che può celebrarsi quanto vuole negl’inni e nelle fanfare, ma rimane inesorabilmente fondato sull’inganno. Concludo dicendo che la Vittima, nel contesto del Festival, sarà proprio questa pellicola, talmente lineare, ben scritta e poco pretenziosa, che sicuramente non vincerà nulla. (Aggiornamento: avendo visto il palmares posso dire di aver avuto ragione, anche se non lo sapevo ancora)


JANG-E JAHANI SEVOM (TERZA GUERRA MONDIALE) di Houman Seyedi (Iran)



Shakib è un uomo umile come tanti, nell’Iran di oggi, mai come in questo film freddo, piovoso e inospitale. Dorme a casa di un amico, vive di lavoretti alla giornata nonostante non sia più giovanissimo, l’unica cosa che lo caratterizza in modo particolare è saper comunicare con la lingua dei segni, in particolare con una prostituta verso cui sembra provare più affetto che desiderio. Un giorno nel cantiere dove lavora scopre che stanno allestendo un set per un film bellico, e finisce suo malgrado a fare la comparsa. Ma quando l’attore principale che interpreta Hitler (già questo è geniale, attori persiani che fanno ebrei e nazisti) si sente male, il regista sembra vedere qualcosa in lui… Non è da tutti i giorni un film così, politicamente schierato contro la dittatura, con violenza, prostituzione, tentato suicidio, occultamento di cadavere, da un paese autocratico, se non fosse che quel paese dimostra continuamente di avere una delle industrie cinematografiche migliori al mondo. A suo modo ricorda parecchio l’Unione Sovietica, dove trovava spazio cinema addirittura sperimentale di grandissima qualità, che circolava nei festival e pure in Occidente, anche se magari condannato in patria e il regista arrestato (basti pensare all’incarcerazione di Panahi, che proprio a Venezia ha inviato il suo ultimo film “Gli orsi non esistono”). Cangiante, questo la Terza Guerra Mondiale, che parte quasi come satira sul cinema stesso, e si fa piano piano parabola sociale, col nostro protagonista che sale i ranghi di questo set, senza per questo sentirsi meno a disagio (non è un caso che il primo “Hitler” sia finito all’ospedale col senno di poi), impostore come la protagonista di Obet. Poi torna in ballo la prostituta dal cuore d’oro a scombinare le carte, ma non voglio dire di più perché questa premessa così cliché ti porta suo malgrado ad una vera empatia per la sua storia, infine risolta in una maniera cattivissima, momento totalmente inaspettato che ha lasciato la sala nel gelo. E il finale, sebbene la tiri un po’ lunga con quel litigio/rissa nel fango (con 20 persone che urlano in farsi sottotitolato mi stava venendo mal di testa), è la degna conclusione di questo ritratto senza speranza, consigliato a chi ha lo stomaco forte e voglia di farsi travolgere da risate amare, dolcezza, rabbia, terrore.


DEAD FOR A DOLLAR di Walter Hill (Stati Uniti)


 Confesso immediatamente: non avevo mai visto prima un film di Walther Hill. Lo so, è una lacuna grave considerata la caratura del regista, semplicemente non c’è stata occasione. Ho pure uno dei suoi film in dvd, “48 ore”, che conosco anche senza aver mai visto come famoso esempio di buddy cop movie, ovvero quei film di coppia, coi poliziotti/investigatori opposti in tutto, spesso anche nel colore della pelle, di cui è stato pioniere ad esempio il mio amato Shane Black. A questo ho subito pensato vedendo accoppiati il soldato nero Poe, e il cacciatore di taglie Max Borlund, sebbene in un contesto western di fine ‘800, in una missione per recuperare la moglie di un influente politico fuggita verso il Messico con un disertore afroamericano. Dunque sì, anche non avendo visto nulla di Hill ho riconosciuto quel vecchio stile di regia da poliziesco, dritto al punto, solido come una roccia, al servizio della storia e dell’azione. Nel bene e nel male, va detto, perché il cinema nel frattempo s’è evoluto, e hanno avuto ragione molti a prendere in giro quella marea di dissolvenze che sembrano fatte con photoshop, o quella visione del “mondo ad Ovest” senza particolari guizzi o cura. Però che bello da questa Venezia venire catapultati in una pellicola d’avventura così retrò, con la colonna sonora d’accompagnamento spezzata continuamente da un motivetto (da quanto non si sentiva un film con un vero e proprio tema principale?), dove ciò che vedi è ciò che succede, mentre i sottotesti sono minimali. Un esempio per tutti, la scena dove a Max Borlund viene chiesto se sia “olandese, svedese, o tedesco forse?”, e lui risponde semplicemente “sono americano”, e questo è tutto ciò che serve per farti capire cosa pensa il regista sull’identità statunitense. A proposito, il cacciatore di taglie è interpretato da un redivivo Christoph Waltz in splendida forma, praticamente in una versione disillusa e anche abbastanza crudele del suo King Schultz da Django; purtroppo anche sul cast gioie e dolori, perché invece l’altro personaggio prominente, la moglie “rapita” sia come scrittura che recitazione si è meritata tutta la mia antipatia. Poi chiamatemi vecchia scuola, chiamatemi anche retrogrado, ma rimango dell’idea che al cinema rappresentare le donne emancipate come algide antipatiche senza il senso dell’umorismo non faccia bene a nessuno, tantomeno al genere femminile. Infatti, tornando al cinema, mi sono goduto alquanto tutte le scene con Borlund che la contraddice con argomenti sensatissimi: d’altronde è lui il nostro (anti)eroe, intransigente ma umano, venale ma onesto, con cattivi da uccidere e una nemesi da affrontare (Willem Dafoe), e mi sento assolutamente di consigliare il film anche solo per vederlo.


LOVE LIFE di Kôji Fukada (Giappone)


Ancora una volta, sembra che le maggiori soddisfazioni di Venezia ’79 vadano ricercate nel cinema asiatico, e giapponese in particolare, che quest’anno tiene alta praticamente in solitaria la bilancia della qualità. Sol Levante, terzo millennio. È un giorno di felicità per una famiglia come tante, dove si festeggiano le vittorie di Keita, piccolo campioncino in un gioco da tavolo. Sua madre Taeko è sposata in secondo matrimonio, e con questa occasione si vuole convincere il padre di lui ad accettare lei e il nipote acquisito. Finché inaspettatamente, proprio come nel connazionale “Aru Otoko”, non succede un incidente che ribalta ogni prospettiva. E le similitudini incredibilmente non finiscono qui, in questo piccolo film, visto che c’è anche la presenza dei coreani in Giappone, e lei parla nella lingua dei segni proprio come il protagonista di La Terza Guerra Mondiale. Love Life però mi ha ricordato più di tutto quel piccolo, grande capolavoro dimenticato uscito da Venezia, Amanda (noto in Italia come “Quel giorno d’estate”), con la sua prima parte di una felicità quasi sciocca e sdolcinata, spazzata via in un attimo dalle casualità della vita, dopo le quali ogni conflitto precedente (un suocero rigido, un appartamento conteso, un ex non dimenticato) appare come triviale e insensato. Ecco, probabilmente Love Life non raggiunge i livelli stratosferici del film francese, ma ha quello stesso passo, permettete l’ossimoro, di serena infelicità, che nel mezzo di Sala Grande ha saputo commuovermi e ridurmi quasi alle lacrime. Non parliamo di perfezione d’altronde, ma di un racconto di temi noti che prova ad essere originale, talvolta riuscendo benissimo, come nella rappresentazione quasi apatica di un lutto che non si sa come affrontare, nelle sottotrame dei due coniugi che valutano il tradimento (lui, Jiro, con la sua compagna precedente in campagna, lei nel flashback di quando vide il padre di Keita al parco), talvolta riuscendo in modo strano, come in quel finto finale verso il matrimonio coreano che sembra preso da Spiderman 2, che poi porterà invece ad una vera conclusione aperta al futuro sebbene tutt’altro che consolatoria. Devo ancora formare una mia opinione definitiva su questa pellicola, ma di una cosa sono sicuro, quel titolo non è immeritato: Love Life ti fa davvero, a suo strano modo, amare la vita. Cosa si può chiedere di più da un film?