Ed eccoci alla seconda e ultima parte del nostro resoconto di Venezia.
Se non sbaglio abbiamo un film più di ieri e anche una voce in più (Lorenzo).
Buona lettura!
Se non sbaglio abbiamo un film più di ieri e anche una voce in più (Lorenzo).
Buona lettura!
come sempre ricordo di cliccare "continua a leggere" per vedere tutto il post
TOMMASO FERRERO
THE ETERNAL DAUGHTER di Joanna Hog (Regno Unito)
Un po’ di citazionismo alla vecchia maniera di fare un horror, un po’ di albergo alla shining, un bel po’ di Tilda Swinton e, in teoria, il film è servito. Peccato che The Eternal Daughter sia venuto male, tempi di cottura errati a mio avviso per un film aritmico, senza la giusta tensione e un finale annunciato che sa un po’ di cliché.
Una regista si ritira con l’anziana madre (entrambe interpretate da Tilda Swinton) in un hotel che si dice essere infestato. La donna sta cercando di scrivere un film sul rapporto con la genitrice, che conserva numerosi ricordi dell’albergo, un tempo casa per le vacanze della sua famiglia. La donna non riuscirà a lavorare, tormentata da spifferi, finestre che sbattono e un rapporto da parte sua isterico e iperprotettivo nei confronti della madre.
La Swinton è estremamente brava, ma non abbastanza da salvare un film che esaurisce la bellezza della propria trama e il suo sviluppo in 10 minuti. Eliminando la parte centrale, avremmo ottenuto un ottimo corto, con un finale clichettoso ma comunque adatto a una produzione di 20 minuti. E invece il film dura un’ora e mezza circa, un’ora e mezza di nulla. Inquadrature riciclate per creare un senso ciclico di tensione che però sfocia nel nulla. Il film potrebbe raccontare molto di più e molto meglio, ma arriva alla fine con uno spettatore stanco, che ha compreso il gioco alla base e che non ha più voglia di sentire la morale sulla rielaborazione del lutto, sul rapporto con il passato e con i propri, pressanti, ricordi.
SHAB, DAKHELI, DIVAR (OLTRE IL MURO) di Vahid Jalilvand (Iran)
Un altro film che parte da un soggetto davvero interessante ma che alla fine scade in una narrazione retorica non degna di una sala cinematografica.
Un uomo che sta diventando cieco vive da solo in un appartamento. Il suo tentato suicidio é interrotto da un annuncio della polizia. Una fuggitiva si nasconde nel palazzo, chiunque abbia notizie deve immediatamente riportarlo. L’uomo nelle nebbie della sua malattia si rende conti che non e da solo in casa, e scopre lentamente il passato della donna, mentre dall’esterno, poliziotti e amministratori condominiali entrano ed escono a loro piacimento, sospettando qualcosa.
Il film parte, dunque, da un bel soggetto. La scelta registica e di scenografia è pure interessante e non è un film da bocciare. C’è da dire che il colpo di scena finale (proprio come in the eternal daughter) si annusa da tanti elementi finché, poi, effettivamente, arriva. Un altro bel clichettino cinematografico in chiusura per trasformare un bel film in una bella spatafiata retorica sulla prigionia e sulla malattia. Un film leggibile, non sconsigliato, con delle scelte interessanti e una coprotagonista fastidiosissima, che crea un bel setup per un finalino molto abbozzato.
BLONDE di Andrew Dominik (Stati Uniti)
Un bel biopic che si inserisce nella scia di un genere che ha riscoperto un certo successo negli ultimi dieci anni.
La vita di Norma Jean Baker, passata agli annali come Marilyn Monroe, una delle icone che hanno rivoluzionato l’immaginario pop mondiale.
La storia è intima, racconta il rapporto malato e opprimente fra Norma Jean e il suo alter ego, in una vita complessa fatta di abbandoni, aborti, soprusi e una incombente malattia psichiatrica ereditaria sostenuta da stress, alcol e tanti, tanti, sonniferi.
Questo è un bel film, si parla della vita di una star che ha rappresentato per anni la frivolezza del sistema hollywoodiano, ma se ne parla senza fronzoli, in maniera dura e vera. La regia segue i sogni di una ragazza che cerca rivalsa dalla sua condizione, partendo da un’infanzia dove un padre mai conosciuto diventa una irraggiungibile stella polare per tutta la vita. Blonde é un film maturo, intelligente, citazionisticamente colto, che coglie degli aspetti nascosti di una persona complessa e interessante come Norma Jean. C’è da capire cosa sia finzione e cosa sia realtà, ma in fondo è il tema dell’intero film, il rapporto fra le aspettative e la vita, fra il sogno e la realtà, dove un sorriso in copertina e le gambe più belle d’america divorano lentamente la vita di una giovane ragazza libera e gioiosa. Il filtro dello schermo hollywoodiano sembra alzarsi e abbassarsi in continuazione e a tratti sulla vita della ragazza e davanti ai nostri occhi, creando un flusso di sogno che racconta una dura realtà.
GOLIATH di Adilkhan Yerzhanov (Kazakistan)

Un altro film di Yerzanov. Un altro film, come the yellow cat qualche anno fa, che credo di aver apprezzato solo io e qualche altro in sala.
Trama molto semplice: un signorotto locale domina la zona con la violenza e uccide la moglie del nostro protagonista, ex militare zoppo da una gamba e balbuziente. Il signorotto domina seguendo i dettami machiavellici del “Principe” creando un continuo rapporto fra violenza e favori elargiti. L’uomo viene così assunto come guardiano di una miniera, ma scalerà velocemente i ranghi con l’obiettivo di eliminare il signore e i suoi collaboratori dall’interno.
Un bel revenge movie, lo dice all’inizio, fa quello che promette, esci dalla sala gasato, un po’ di sparatorie, belle immagini, dialoghi validi. Un bel film, semplice certo, ma che non cerca di abbindolare il pubblico o di colpire con metafore campate per aria. Racconta una storia di poteri, dove il lupo mangia il lupo, dove la violenza detta legge in una terra di confine di cui la legge stessa si è dimenticata. Un cattivo principale illuminato, di grande qualità per un bel film di vendetta, con un protagonista atipico in una terra desertica che crea una nuova frontiera orientale di far west.
LES MIENS di Roschdy Zem (Francia)

Una simpatica commedia familiare che mette a nudo come, anche in famiglia, i rapporti possano essere non del tutto sinceri.
Un uomo, che sta affrontando un abbandono improvviso e non voluto da parte della moglie, cade ad una festa. Dopo un semi coma di alcuni giorni si sveglia, ma non è più capace di mentire, anzi ha reazioni apatiche a ogni emozione che richieda empatia. Questa condizione scatena il panico nella numerosa famiglia, compromettendo i rapporti costruiti in una vita assieme.
Una commedia che si sporca di dramma che riflette dolcemente sui rapporti familiari e su cosa sia, effettivamente, un rapporto fra fratelli. Il dire sempre quello che si pensa, senza filtri, porta alcuni ad allontarsi, altri ad avvicinarsi, in un gioco in cui l'accudito diventa, in fondo, l’unico sano. Una classica commedia alla francese, probabilmente più adatta al teatro che allo schermo, ma che trova comunque una sua dignità.
KHERS NIST (GLI ORSI NON ESISTONO) di Jafar Panahi (Iran)

Gli orsi non esistono, un bellissimo titolo per un film che è metacinematografico sia nel vederlo sia che a leggerne la storia produttiva.
Un regista dirige il suo film in esilio dal suo paese, senza la possibilità di poter passare il confine per poter seguire il documentario che sta girando per seguire due profughi che cercano un modo illegale di entrare in Europa. Per stare più vicino al film il regista si trasferisce in una città di confine, dove viene coinvolto in una vicenda locale di onore e amore. Lì segue la storia dei suoi protagonisti oltre il confine che è semplicemente un percorso di poche miglia che continua a richiamarlo.
Il film non è eccezionale. Rende molto bene la realtà di chi sta vivendo in esilio, l’attrazione per la fuga e la possibilità di chi può permettersi economicamente di fuggire a differenza di chi, come gli abitanti del villaggio, non può. Interessante diventa la lettura del film sapendo che per girarlo il regista (che è anche protagonista) è stato arrestato e messo in prigione per 6 anni per propaganda contro il regime iraniano. Il film assume la forma di manifesto di lotta di qualcuno che resta e che non scende a compromessi con la censura, ma decide di rispettare la legge del proprio paese. Un bel messaggio filmico di un regista impegnato e capace che ha deciso di lottare contro sistemi più alti di lui e che riconferma che, ad oggi, il cinema è un mezzo necessario, dovuto e che va oltre il frivolo estetismo.
COPENHAGEN COWBOY di Nicolas Winding Refn (Danimarca)

E di puro estetismo è stata la lunga visione (cinque ore ) della serie del nostro amato Refn. Non scrivo troppo della trama perché, sinceramente, non è davvero importante.
Una ragazza portafortuna viene comprata da una gestrice albanese di un bordello. La ragazza fuggirà, attirando l’attenzione della triade cinese e di una arianissima famigli di vampiri.
La serie è una mezza follia che racconta scene sconclusionate dalla coesione narrativa molto flebile. La sala era gremita di fan del regista, anche io lo sono, quindi l’accoglienza è stata calorosa a dir poco, ma se non avessimo avuto Refn a dirigerla non sarebbe stata in piedi. Esteticamente è qualcosa di stupendo, un teal and orange di grande qualità spalmato su un film che passa dal dramma, al film di mafia, al gangster movie, al film di arti marziali e al trash horror. Insomma, una bella visione completamente folle, che ha mostrato una versione ancora più tamarra di refn e della sua famiglia (impiegata quasi in toto nella produzione) creando un’opera non facilmente, se non del tutto, definibile.
THE HANGING SUN di Francesco Carrozzini (Italia, Regno Unito)

Tratto da un romanzo di Jø Nesbo the hanging sun parla di un uomo (Alessandro Borghi) in fuga dagli affari sporchi della sua famiglia adottiva. L’uomo, inseguito dal fratello, si nasconde in un paesino dell’estremo nord, dive non tramonta mai il sole, e dove la comunità si basa su una società altamente patriarcale e duramente protestante.
Il film è assolutamente piacevole. Borghi è oramai più internazionale che italiano come attore e questo gli permette di reggere una bella performance per tutta la durata di un bel revenge movie. Non si parla di un capolavoro, ma di un bel film che continua la scia di produzioni “diverse” del mercato italiano, donandomi una certa speranza sul futuro del nostro cinema e per i nostri mestieranti. Il film ha una bella scrittura e delle scelte registiche che favoriscono l’ambiente incredibile, quasi surreale, in cui il film prende vita. La bellezza della storia risiede nella sua semplicità, creando personaggi interessanti in una cornice interessante. Si poteva fare di più? Sicuramente si, ma spero solo che questo diventi lo standard del nostro cinema, produzioni diverse, un minimo coraggiose, capaci di portare la qualità italiana anche su mercati internazionali e non solo per il circolo romano del cinema. Speriamo davvero.
CONSIDERAZIONI FINALI
Questa festa del cinema è stata strana, forse fiacca. Complice il mio tardo arrivo, ma devo dire che non ci sono stati dei colpi di fulmine. Forse sto invecchiando e perdendo la capacitá di vedere il bello in ogni pellicola o, forse, quest’anno mi è parso di notare che la selezione ha abbassato i criteri minimi di entrata, favorendo un po’ il politicamente corretto e la paraculaggine. Vedremo l’anno prossimo cosa ci riserverà, magari arrivo prima che non si sa mai.
ENRICO GASPARI
ARU OTOKO (UN UOMO) di Kei Ishikawa (Giappone)
Una delle prime sorprese del Festival, forse quella che più mi è rimasta dentro, sicuramente corrisponde a questo misterioso film giapponese. La prima scena è diretta, senza fronzoli: una giovane donna singhiozza, in una cartoleria. Entra un uomo, come da titolo, compra e se ne va. Questa donna, scopriremo poi, ha perso un bambino, e quell’uomo tornerà, più per interesse verso lei che per strumenti da disegno. Questa la premessa, e da qui sarebbe doveroso tenere le rivelazioni al minimo, perché indovinare dove Aru Otoko vuole portarci, credo ben pochi vi riuscirebbero. Inizialmente sembra un dramma familiare e romantico, anche parecchio ben costruito. Eppure c’è sempre qualcosa di strano, un non detto, una sfumatura indistinguibile finché la cattiveria di questo film non emerge. Ecco che succede il peggio, in realtà solo il braccio visibile di una lunga spirale, che porta alla luce un dubbio inquietante: conosciamo veramente le persone che ci stanno accanto? Forse l’altro da sé è destinato sempre a rimanere ignoto, o di spalle, geloso dei propri segreti come l’uomo dei quadri di Magritte? Il film svolta totalmente, la prospettiva si sposta da Rie all’avvocato che la nostra protagonista assume per tutelare i suoi diritti, ma soprattutto scoprire la verità. È lui il vero protagonista, il signor Kido, un uomo buono, capace, di cui ci si può fidare, e reciprocamente si fida della propria famiglia. Eppure persino questo baluardo di sicurezza vacilla, niente sembra certo, niente sembra indiscutibile in questo film, le identità, i passati, la precaria situazione dei coreani in Giappone (investiti da ondate di xenofobia), i legami famigliari, coraggiosamente descritti come marci fino al midollo, tenuti assieme solo dal perbenismo. Le indagini vanno avanti, costruite in modo appassionante, piene di rompicapi, dettagli sfuggenti, personaggi (a volte troppi, per esempio quelli della palestra occupano eccessivo spazio, si potevano smussare); e come in ogni buon thriller-noir che si rispetti, l’investigatore non ci passa attraverso indenne, ma anzi giunge a uno stato di profonda crisi individuale. Crisi che sembra risolversi in un finale quasi tenero, speranzoso se non verso la sincerità almeno l’affetto dei rapporti umani, solo per tirarci il definitivo schiaffo quando si rivelano gli altarini della famiglia Kido. E poi c’è quella meravigliosa ultima sequenza nel bar, che quasi ci dimenticavamo di quell’elemento datoci fin dall’inizio (volutamente da me non citato, perché questo film va visto), dove tutto crolla, e persino la domanda più semplice rimane senza risposta.
KOROSHI NO RAKUIN (LA FARFALLA SUL MIRINO) di Seijun Suzuki (Giappone)

Edizione gloriosa, questa Venezia 79, per la Nikkatsu, più che una casa di produzione un pezzo di storia del cinema, visto che è stata fondata nel 1912 (!) ed è tuttora attiva in Giappone 110 anniversari dopo. Non solo ha portato Aru Otoko qui alla Biennale, dimostrandosi almeno per il sottoscritto ancora sulla cresta dell’onda, ma ha presentato ben 3 restauri dal suo illimitato catalogo: il già citato “Una gallina nel vento”, “Il Profondo desiderio degli Dei” di Shohei Imamura (purtroppo non fatto in tempo a vederlo), e appunto “La Farfalla sul Mirino”. Caso particolare quest’ultimo, visto che lo screzio del regista con la Nikkatsu stessa è uno dei più famosi della storia nipponica, e se col senno di poi viene spacciato dagli eredi di quei produttori come un gioiello, non si può biasimare completamente chi nei ranghi all’epoca lo definì “francamente incomprensibile”. Anzi, tenete bene a mente queste parole, e diffidate di chi vi dirà di aver capito la trama, perché questo è uno dei cult più folli e imprevedibili usciti da quel cinema folle e imprevedibile del Giappone. Rettifichiamo: la maggior parte del cinema mainstream è impostato, lì come altrove. Non a caso negli anni ’60 andavano fortissimo le storie di yakuza, un po’ come nel Belpaese il decennio dopo si faranno solo gialli all’italiana, e La Farfalla sul Mirino non fa eccezione: ma ecco che erompe la forza di controcultura, quella sì capace di scombinare le regole e i canoni. Dunque il protagonista è sì il solito killer infallibile al soldo di una potente organizzazione, e gli succedono sì le solite cose, ovvero innamorarsi, fallire il lavoro che lo farà cadere dalle stelle alle stalle, vendicarsi alla fine dei vecchi padroni. Solo che questo killer per concentrarsi ha un bisogno che sfiora la perversione di annusare il riso bollito, e s’innamora di una donna ossessionata con la morte, che compare solo quando piove (o comunque l’acqua scorre, vedere i geniali stacchi con la doccia) e vive in una casa quasi argentiana coi bacherozzi appesi al muro e gli uccellini trafitti da aghi, e invece della classica sfida all’ultimo sangue col killer numero 1 (ovviamente c’è la graduatoria in pieno stile anime) questo gli fa i dispetti a distanza tipo Fantozzi per poi, in una svolta assolutamente geniale, andare a vivere direttamente con lui in attesa di ucciderlo. Ah, e naturalmente c’è il motivo dell’omicidio fallito, quasi da parabola zen: una piccola farfalla, che col proprio peso sul mirino sposta il proiettile di quei pochi millimetri fatali. Questo è certamente uno dei vertici espressivi di Seijun Suzuki, anche se non il mio preferito (personalmente rimane “Ufficio Investigativo 23”), qui in usuale collaborazione col suo attore feticcio, l’altrettanto iconico e compianto Joe Shishido. Un regista che definire di culto è riduttivo: virtuoso dell’inquadratura “parlante”, che racconta quasi più della storia stessa, oltre ad essere ovviamente bellissima, come testimonia il bianco e nero restaurato di questa pellicola; sperimentatore audace con quel suo montaggio sincopato alla Peter Hunt; immensamente influente, basti pensare alla saga di Lupin III di cui dirigerà pure un film, L’Oro di Babilonia (come si fa a non amarlo!?); in generale vulcano di idee, dalle più sorprendenti come l’omicidio tramite il tubo di scarico, alle più divertenti che qui veramente non si contano, specie nella già citata fase di “convivenza” col numero 1. Le parole non rendono però giustizia: guardate, e scoprirete.
OBEŤ (SACRIFICIO) di Michal Blaško (Slovacchia)
Thriller ceco tanto ansiogeno quanto ben costruito, da vedere assolutamente. Meglio dire il meno possibile per non rovinare la sorpresa, basti dire che racconta di una madre ucraina, che nella prima scena vediamo di ritorno in Repubblica Ceca per tornare da suo figlio. Apparentemente, all’ospedale per percosse. Ma è davvero così? Sorprendente, davvero sorprendente, specie per un esordio, che forse mostra l’insicurezza dell’opera prima solo in quei dieci minuti finali dove la tensione tende ad allentarsi (ma si rifà subito con un gran finale). In tutto il resto del film la guardia è altissima, alla ricerca di una minaccia che si trova nascosta, oppure, cosa ancora peggiore, non smette di far paura anche se forse nemmeno esiste. Viviamo con la protagonista le sue ansie, la pena per la vita distrutta del figlio (lo sport, quella ragazzina allontanata che era l’unica presenza umana nella sua vita), ma soprattutto l’opprimente sensazione di essere un impostore, un membro estraneo nella società, su più livelli, perché bugiarda, perché immigrata ucraina in Cechia, perché frutto di attenzioni estremamente ipocrite. Forse è la falsità del contesto a rendere tanto potente quel finale, quella sindaca che si muove solo per fini elettorali, l’attivista egocentrico interessato solo a soffiare sul fuoco, pennellate nell’affresco di un paese, ma se vogliamo un’intera umanità, che può celebrarsi quanto vuole negl’inni e nelle fanfare, ma rimane inesorabilmente fondato sull’inganno. Concludo dicendo che la Vittima, nel contesto del Festival, sarà proprio questa pellicola, talmente lineare, ben scritta e poco pretenziosa, che sicuramente non vincerà nulla. (Aggiornamento: avendo visto il palmares posso dire di aver avuto ragione, anche se non lo sapevo ancora)
JANG-E JAHANI SEVOM (TERZA GUERRA MONDIALE) di Houman Seyedi (Iran)
Shakib è un uomo umile come tanti, nell’Iran di oggi, mai come in questo film freddo, piovoso e inospitale. Dorme a casa di un amico, vive di lavoretti alla giornata nonostante non sia più giovanissimo, l’unica cosa che lo caratterizza in modo particolare è saper comunicare con la lingua dei segni, in particolare con una prostituta verso cui sembra provare più affetto che desiderio. Un giorno nel cantiere dove lavora scopre che stanno allestendo un set per un film bellico, e finisce suo malgrado a fare la comparsa. Ma quando l’attore principale che interpreta Hitler (già questo è geniale, attori persiani che fanno ebrei e nazisti) si sente male, il regista sembra vedere qualcosa in lui… Non è da tutti i giorni un film così, politicamente schierato contro la dittatura, con violenza, prostituzione, tentato suicidio, occultamento di cadavere, da un paese autocratico, se non fosse che quel paese dimostra continuamente di avere una delle industrie cinematografiche migliori al mondo. A suo modo ricorda parecchio l’Unione Sovietica, dove trovava spazio cinema addirittura sperimentale di grandissima qualità, che circolava nei festival e pure in Occidente, anche se magari condannato in patria e il regista arrestato (basti pensare all’incarcerazione di Panahi, che proprio a Venezia ha inviato il suo ultimo film “Gli orsi non esistono”). Cangiante, questo la Terza Guerra Mondiale, che parte quasi come satira sul cinema stesso, e si fa piano piano parabola sociale, col nostro protagonista che sale i ranghi di questo set, senza per questo sentirsi meno a disagio (non è un caso che il primo “Hitler” sia finito all’ospedale col senno di poi), impostore come la protagonista di Obet. Poi torna in ballo la prostituta dal cuore d’oro a scombinare le carte, ma non voglio dire di più perché questa premessa così cliché ti porta suo malgrado ad una vera empatia per la sua storia, infine risolta in una maniera cattivissima, momento totalmente inaspettato che ha lasciato la sala nel gelo. E il finale, sebbene la tiri un po’ lunga con quel litigio/rissa nel fango (con 20 persone che urlano in farsi sottotitolato mi stava venendo mal di testa), è la degna conclusione di questo ritratto senza speranza, consigliato a chi ha lo stomaco forte e voglia di farsi travolgere da risate amare, dolcezza, rabbia, terrore.
DEAD FOR A DOLLAR di Walter Hill (Stati Uniti)
Confesso immediatamente: non avevo mai visto prima un film di Walther Hill. Lo so, è una lacuna grave considerata la caratura del regista, semplicemente non c’è stata occasione. Ho pure uno dei suoi film in dvd, “48 ore”, che conosco anche senza aver mai visto come famoso esempio di buddy cop movie, ovvero quei film di coppia, coi poliziotti/investigatori opposti in tutto, spesso anche nel colore della pelle, di cui è stato pioniere ad esempio il mio amato Shane Black. A questo ho subito pensato vedendo accoppiati il soldato nero Poe, e il cacciatore di taglie Max Borlund, sebbene in un contesto western di fine ‘800, in una missione per recuperare la moglie di un influente politico fuggita verso il Messico con un disertore afroamericano. Dunque sì, anche non avendo visto nulla di Hill ho riconosciuto quel vecchio stile di regia da poliziesco, dritto al punto, solido come una roccia, al servizio della storia e dell’azione. Nel bene e nel male, va detto, perché il cinema nel frattempo s’è evoluto, e hanno avuto ragione molti a prendere in giro quella marea di dissolvenze che sembrano fatte con photoshop, o quella visione del “mondo ad Ovest” senza particolari guizzi o cura. Però che bello da questa Venezia venire catapultati in una pellicola d’avventura così retrò, con la colonna sonora d’accompagnamento spezzata continuamente da un motivetto (da quanto non si sentiva un film con un vero e proprio tema principale?), dove ciò che vedi è ciò che succede, mentre i sottotesti sono minimali. Un esempio per tutti, la scena dove a Max Borlund viene chiesto se sia “olandese, svedese, o tedesco forse?”, e lui risponde semplicemente “sono americano”, e questo è tutto ciò che serve per farti capire cosa pensa il regista sull’identità statunitense. A proposito, il cacciatore di taglie è interpretato da un redivivo Christoph Waltz in splendida forma, praticamente in una versione disillusa e anche abbastanza crudele del suo King Schultz da Django; purtroppo anche sul cast gioie e dolori, perché invece l’altro personaggio prominente, la moglie “rapita” sia come scrittura che recitazione si è meritata tutta la mia antipatia. Poi chiamatemi vecchia scuola, chiamatemi anche retrogrado, ma rimango dell’idea che al cinema rappresentare le donne emancipate come algide antipatiche senza il senso dell’umorismo non faccia bene a nessuno, tantomeno al genere femminile. Infatti, tornando al cinema, mi sono goduto alquanto tutte le scene con Borlund che la contraddice con argomenti sensatissimi: d’altronde è lui il nostro (anti)eroe, intransigente ma umano, venale ma onesto, con cattivi da uccidere e una nemesi da affrontare (Willem Dafoe), e mi sento assolutamente di consigliare il film anche solo per vederlo.
LOVE LIFE di Kôji Fukada (Giappone)
Ancora una volta, sembra che le maggiori soddisfazioni di Venezia ’79 vadano ricercate nel cinema asiatico, e giapponese in particolare, che quest’anno tiene alta praticamente in solitaria la bilancia della qualità. Sol Levante, terzo millennio. È un giorno di felicità per una famiglia come tante, dove si festeggiano le vittorie di Keita, piccolo campioncino in un gioco da tavolo. Sua madre Taeko è sposata in secondo matrimonio, e con questa occasione si vuole convincere il padre di lui ad accettare lei e il nipote acquisito. Finché inaspettatamente, proprio come nel connazionale “Aru Otoko”, non succede un incidente che ribalta ogni prospettiva. E le similitudini incredibilmente non finiscono qui, in questo piccolo film, visto che c’è anche la presenza dei coreani in Giappone, e lei parla nella lingua dei segni proprio come il protagonista di La Terza Guerra Mondiale. Love Life però mi ha ricordato più di tutto quel piccolo, grande capolavoro dimenticato uscito da Venezia, Amanda (noto in Italia come “Quel giorno d’estate”), con la sua prima parte di una felicità quasi sciocca e sdolcinata, spazzata via in un attimo dalle casualità della vita, dopo le quali ogni conflitto precedente (un suocero rigido, un appartamento conteso, un ex non dimenticato) appare come triviale e insensato. Ecco, probabilmente Love Life non raggiunge i livelli stratosferici del film francese, ma ha quello stesso passo, permettete l’ossimoro, di serena infelicità, che nel mezzo di Sala Grande ha saputo commuovermi e ridurmi quasi alle lacrime. Non parliamo di perfezione d’altronde, ma di un racconto di temi noti che prova ad essere originale, talvolta riuscendo benissimo, come nella rappresentazione quasi apatica di un lutto che non si sa come affrontare, nelle sottotrame dei due coniugi che valutano il tradimento (lui, Jiro, con la sua compagna precedente in campagna, lei nel flashback di quando vide il padre di Keita al parco), talvolta riuscendo in modo strano, come in quel finto finale verso il matrimonio coreano che sembra preso da Spiderman 2, che poi porterà invece ad una vera conclusione aperta al futuro sebbene tutt’altro che consolatoria. Devo ancora formare una mia opinione definitiva su questa pellicola, ma di una cosa sono sicuro, quel titolo non è immeritato: Love Life ti fa davvero, a suo strano modo, amare la vita. Cosa si può chiedere di più da un film?