25.2.22

Recensione: "La persona peggiore del mondo"

 

Terzo film che vedo di Joachim Trier (dopo Oslo 31 August e Thelma) e terzo filmone (al quale forse resterò legato un filo meno degli altri due, ma sono inezie).
Questo relativamente giovane autore danese si dimostra ancora maestro nel tratteggiare le psicologie dei suoi personaggi.
Se Oslo 31 August era un film sul non voler vivere e sul non agire, se Thelma era un film invece sul non "poter" vivere (per poi esplodere) questo è un film sul voler vivere, sull'agire sempre e comunque.
La protagonista, Julie (grandissima attrice dal sorriso indimenticabile) è una ragazza quasi trentenne che si ritrova in una relazione con delle dinamiche diverse da quelle che potrebbero renderla felice.
Ne nasce un film con tre personaggi veri, reali, tre esseri umani che sbagliano, che commettono errori, che inevitabilmente fanno male uno all'altro ma che, tutti, provano in quello che ognuno di noi dovrebbe sempre provare in vita, fare il meglio che può.

Ancora una volta, l'ennesima, mi ritrovo a scrivere di un film a giorni e giorni dalla visione (qua addirittura 12). Ormai succede talmente tanto spesso che mi sto "specializzando" in questo nuovo tipo di scrittura, una scrittura meno di pancia, più distaccata.
Non è quello che voglio, non la preferisco, semplicemente è, per forza di cose, così.
Non so tra voi quanti abbiano mai provato a scrivere recensioni o pensieri lunghi (quanto i miei) sui film. Ecco, chi ha provato sa quanto sia dannatamente difficile scrivere dopo così tanto tempo. So che dovrei smetterla di dirlo e lamentarmi ma lo faccio per me, almeno se tra qualche anno ricapito per sbaglio in questi tipi di post capisco le varie genesi degli stessi.
E il blog, ricordiamolo, è un diario, niente di più.

Questo era il mio terzo Joachim Trier (dopo Oslo 31 August e Thelma) e, lo dico da subito, per me va leggermente sotto agli altri due.
Leggermente sotto vuol dire che ci troviamo davanti ad un film bellissimo ma, semplicemente, ho adorato gli altri.
Mi dicono - non lo sapevo - che sia il terzo di una trilogia "su Oslo" cominciata con Reprise (che non ho visto ma dovrebbe esse su Netflix) e proseguita con lo struggente e dolorosissimo sopracitato Oslo 31 August.
Dico subito che ho provato un brivido di emozione nel ritrovare qua Danielsen Lie, l'indimenticato protagonista di quel film.
E, caspita, ho dovuto soffrire per lui un'altra volta.
LPPDM (madonna brutti gli acronimi ma come se fa a scrive ogni volta tutto il titolo?) ha un grandissimo pregio, ovvero quello di mostrarci persone "vere", piene di pregi e piene di difetti, complesse, non catalogabili, sfuggenti, come sono del resto la maggior parte degli esseri umani.
Credo che ognuno di noi si ritroverà in qualche comportamento di Julie, Aksel ed Eivind, i tre magnifici protagonisti.
Tre esseri umani, come detto, non perfetti, che sbagliano cose, che non sanno come affrontare situazioni, che hanno idee opinabili ma che, tutti e tre, portano avanti le proprie esistenze nel modo migliore possibile. 
Ed è questo, del resto, quello che ognuno di noi dovrebbe fare nella propria vita, ovvero essere consapevole di non poter azzeccare tutto, di non fare sempre scelte giuste, di, a volte, fare male al prossimo (è inevitabile), ma semplicemente cercare sempre di fare del nostro meglio. E il nostro meglio non sarà mai il "meglio assoluto", in quanto esseri imperfetti. 
Ecco, questo gran bel film mi ha lasciato addosso questa piacevole sensazione, ovvero quella di trovarmi davanti tre belle persone che provano a fare di tutto per essere felici e cercare di ferire il meno possibile l'altro.

Ed è così che lo stesso titolo diventa fuorviante, perchè qui di "persone peggiori al mondo" non ce ne sono, anzi. E non sappiamo nemmeno a chi riferirla questa definizione, se a lei o a lui (mi pare - ma vado a memoria - che l'unica volta che viene citata sia riguardo lui), semplicemente è un dolce e falso titolo.
Di sicuro Joachim Trier è un regista che basa le sue opere su quello che gli uomini hanno dentro più che su quello che mostrano fuori.
Tre film con una fortissima componente psicologica, molto diversi l'uno dall'altro.
Se in Oslo 31 August si affrontava la Depressione (uso la maiuscola per differenziarla da quelle che spesso impropriamente definiamo tali), quindi la non-vita per eccellenza, il non agire, il non voler provare, il non voler reagire (la scena della ragazza di spalle nuda dalla quale lui si allontana è simbolo di tutto questo) in Thelma invece passavamo attraverso quelle emozioni represse o proibite in maniera così forte che, prima o poi, esplodono quasi come fossero superpoteri, trascendentali.
Come il protagonista di Oslo 31 August non voleva vivere così la protagonista di Thelma è stata educata invece nel non poterlo fare (una specie di Stop the pounding heart) ma la sua voglia di emozionarsi e provare cose è così forte da deflagrare in qualcosa di sovrumano.
E invece in LPPDM avviene una terza cosa, opposta alle altre, ovvero trovarci davanti una protagonista così vogliosa di vivere, così vitale, che fa qualsiasi cosa le viene in mente, tanto da far mancare la terra sotto ai piedi a chiunque gli stia vicino.
Quindi tre film uno sul non voler agire, uno sul non poter agire che poi porta a una esplosione e uno sull'agire sempre e comunque, anche d'istinto.


Julie (una magnifica Renate Reinsve, con un sorriso che te lo porterai appresso per anni) è una ragazza che si innamora di un ragazzo sensibilmente più grande (dinamica che conosco molto bene).
Lui la affascina, con lui sta bene (la vediamo sempre ridere, cosa che potrebbe nascondere anche un aspetto meno bello che vedremo poi) ma si rende conto che questo gap generazionale la sta portando in un mondo, quello della genitorialità (tutti gli amici di lui sono padri) di cui ancora, e super legittimamente, non si sente ancora pronta.
Lui è dolce, un uomo complesso (è un fumettista che disegna strisce molto forti, ai confini della misoginia) che commette probabilmente l'errore di dare sulle spalle di Julie un peso troppo grande, quello appunto di "parlar di figli".
Lei invece ha bisogno d'altro, lei è un'iperattiva con troppa voglia ancora di vivere, sperimentare e muoversi.
La crisi sarà inevitabile.

14.2.22

Recensione: "Annette"

 

C'ho messo 8 giorni a scrivere questa recensione.
Ogni giorno mi dicevo di farla ma poi Annette mi sembrava così grande da dover lasciar perdere.
Alla fine ce l'ho fatta, in maniera probabilmente incoerente, confusa, troppo lunga (pochi arriveranno alla fine).
Ma tanto l'unica cosa che conta è solo una, ovvero che mi sento di dire che Annette è l'unico vero e proprio capolavoro del 2021 e, personalmente, uno dei film più grandi di questo millennio.
Un'opera d'arte impressionante, un musical moderno carico di dolore, una regia pazzesca, una colonna sonora indimenticabile, attori straordinari e una storia che vi strapperà, almeno nel finale, il cuore di dosso.
La storia di un comico, Henry, della relazione con la soprano Ann e della nascita della loro bimba, Annette, una bimba che non sarà mai amata ma usata come macchina da soldi.
Siamo davanti a qualcosa di veramente gigantesco.


Il mio unico approccio a Carax fu con Holy Motors.
Successe una cosa particolare con quel film, ovvero che scrissi quasi tutta la recensione che il film non era ancora finito, in gran parte sui titoli di coda.
E' che ad un certo punto pensavo di aver colto il suo significato (resta un film complessissimo e sul quale è impossibile dare un'interpretazione univoca e sicuramente giusta) e allora niente, cominciai a scrivere di getto in preda all'emozione di quel significato che mi si era formato in testa.
Ritrovo dopo circa 10 anni Carax e quello che posso dire è che, ancora una volta, mi ritrovo davanti un film unico, uguale a nessun altro e, per quanto mi riguarda, un altro capolavoro.
L'anno scorso ho visto una quantità spropositata di grandi o grandissimi film al cinema.
Eppure Annette è qualcosa di diverso, non è solo un film, è un'immensa opera d'arte che, per me, non sta nemmeno al tavolo di tutti gli altri.
Gli altri sono film stupendi, qui andiamo oltre, qui andiamo incontro ad una di quelle opere che provano ad essere epocali, che sono talmente più grandi di quelle che a cui sei abituato che manco finisci di vederle e già ti sembrano conficcate nella storia del cinema, o almeno nella TUA storia del cinema.
Uno di quei film di cui, a parte percepire un'altezza forse non raggiungibile, ne vedi anche la grandezza oggettiva, ti dici quanto lavoro ci dev'essere stato, quanta cura, quanto sforzo, quanta volontà.
Quando vedi la Cappella Sistina (non sto paragonando le due cose, mi serve solo per il concetto) non resti solo abbagliato dalla bellezza e dalla maestosità, ma ti dici "come cazzo è stato possibile realizzarla?".
Ecco, Annette ha talmente tanto cinema, tanta scrittura e tanta messinscena dentro che rimani stordito.
Cioè, io i musical li odio.
Non mi piacciono e solo l'idea che la vita possa essere cantata mi dà il nervoso.
Eppure qua no.
Ma non tanto perchè Annette, a differenza della maggior parte dei musical, è perfettamente nelle mie corde per tematiche e genere, ma perchè il discorso che fa Carax è una cosa tutta sua, già partita con Holy Motors, ovvero questa riflessione su cosa sia il vero e cosa il rappresentato, su cosa sia vivere e cosa recitare, sull'essere e l'apparire.
Su attore e spettatore.
Su palco e platea.
Ed ecco così che il musical non diventa un genere, diventa metafora di una vita non autentica che viene raccontata come un grande spettacolo teatrale o televisivo.
Annette non è esteriormente un musical, ma lo è dentro. 
Annette è un musical perchè il suo protagonista, Henry (un sontuoso Driver), sta vivendo una vita come rappresentazione scenica, come finzione, come spettacolo.
Non è un caso che nell'infartuante finale (spoiler, uno dei più belli della mia vita) l'ultima cosa che Henry dice sia "Stop watching me".
E' l'ennesima rottura della quarta parete che fa Carax (tra l'altro una doppia rottura della quarta parete, ma ci arriveremo) ma questa volta per un motivo diverso.
Per tutto il film noi abbiamo visto lo spettacolo di Henry (non è un caso che prima che il film inizi ci venga detto di trattenere il respiro perchè lo spettacolo sta per cominciare) e solo alla fine, solo nell'ultima battuta, il nostro protagonista, piombato in maniera devastante nella vita vera (Annette vista finalmente come persona reale) si rende conto di tutto e ci chiede di smettere di guardarlo.
Lo spettacolo è finito, adesso sono io che devo fare i conti con l'esistenza reale.
E non voglio più che mi vediate.
Gigantesco.
Ecco quindi che la forma del musical e di tutte le altre rappresentazioni che sono dentro al film (che è una continua matrioska di medium artistici) non era un vestito del film ma un vestito dato dal suo protagonista, come assistessimo a un thriller psicologico visto da dentro la sua testa.


Io più volte guardando Annette ho ripesato ad uno dei capolavori di Trier, Dancer in the dark.
Ci sono un paio di brani in Annette che potevo quasi giurare di aver sentito o che comunque sarebbero stati perfetti nel magnifico film con Bjork.
Però c'è una differenza, nel film di Trier il musical era una scappatoia per la straordinaria protagonista per edulcorare, migliorare, rendere meno devastante la realtà che la circondava.
Quel musical era una medicina, se non salvifica almeno lenitiva.
In Annette invece il musical di Henry diventa una maschera, diventa finzione, diventa ipocrisia, diventa megalomania, diventa narcisistico spettacolo di un uomo mediocre.
Se Bjork voleva salvarsi attraverso la musica Henry vuole invece esaltarsi.
Ed assolversi.
Perchè sì, perchè tutte le colpe di cui quest'uomo si macchierà (la colpa quasi diretta della morte della moglie, l'omicidio del musicista, lo sfruttamento di Annette) saranno smorzate, giustificate, manipolate, attraverso la mente lo spettacolo teatrale di Henry, attraverso lo stesso film.
 Non sarà quindi un caso che in un film completamente cantato (metaforicamente quindi non autentico) gli unici due momenti di dialogo normali saranno quando Annette parlerà per la prima volta (allo stadio) e nel finale, all'inizio del confronto tra la stessa e il padre.
Quelli sono gli unici due momenti di "vera realtà", fuori dal musical, fuori dall'ipocrita rappresentazione di sè.

7.2.22

Recensione: "L'uomo che uccise Hitler e poi il Bigfoot" - Su Prime

 

Prima volta alla casa nova del fratello minore.
Io cucino, Rocco mangia e lui deve sceglie il film.
Mi chiama il giorno prima e me dice (cercate di leggere la cosa senza sapere il titolo del film): "Vedemo L'uomo che uccise Hitler e poi Il Bigfoot"
"Ok, allora famo come con la doppietta di Vieri, due film in una sera"
"Non hai capito, vedemo L'uomo che uccise Hitler e poi il Bigfoot"
"Ho capito! li vedemo tutti e due, ok, che c'è da capì?"
"Non hai capito, vedemo L'uomo che uccise Hitler e poi il Bigfoot"
"Ascolta Tommaso, hai rotto il cazzo, t'ho detto va bene, basta"
"Quindi te va bene vedè L'uomo che uccise Hitler e poi il Bigfoot?"
"Sì!!!!! Dio caro!!!!!"

Poi scoprirò che "L'uomo che uccise Hitler e poi il Bigfoot" è un unico film.
Ho fatto questo test a 4 persone, a tutte e 4 ho detto "Ieri ho visto L'uomo che uccise Hitler e poi Il Bigfoot" e 3 su 4 mi hanno chiesto come era andata, se facevano schifo tutti e due.
Ok, allora non sono scemo.
Ripetete il test a dei vostri amici che non conoscono il film e fatemi sapere il responso.

Fatto sta che dopo avè mangiato (ho rischiato de rovinà la buonissima pasta che avevo fatto con un ingrediente pazzo, l'ho sicuramente peggiorata ma per fortuna ce semo salvati, altrimenti non ne mangi 750 grammi in 3...), dicevo che dopo avè mangiato mettemo allora sto "L'uomo che uccise Hitler e poi il Bigfoot".
Ovviamente con un titolo del genere almeno io ero pronto o a una trashata, o a una commedia brillante, o anche a un film "serio" ma in qualche modo magico, come ad esempio lo splendido, veramente splendido, Troll Hunter.
E invece che ce ritrovamo davanti?
A un film non solo serio, ma serioso.
Un film che ha un soggetto del genere, che ha un TITOLO del genere, poi vole esse un drammatico serio, un romantico serio, cerca de svolge una trama seria e credibile.
E facendo tutto questo crolla quasi miseramente, diventa un film nè bello nè brutto (di quel brutto che poteva esse bello), semplicemente un film che si prende sul serio e che rende un soggetto potenzialmente insensato e geniale una rottura de coglioni che raramente ne ho provate ultimamente.
Il film è verbosissimo, c'è la parte iniziale de quello che fa la barba al nostro protagonista che vi giuro sognavo de prendela io quella lametta e tagliamme i coglioni all'istante.
Dieci minuti insostenibili.
Ma in generale il film è pieno di dialoghi noiosi, a volte persino esistenziali, che non prendono mai lo spettatore, lo ammorbano soltanto.
Il legame tra la storia di Hitler e quella del Bigofott è penoso.
C'è sto ex militare americano che in epoca di guerra scovò Hitler e lo uccise.
E niente, QUINDI quando 30 anni dopo in Canada iniziano a morì delle persone e degli animali per una infezione, il Governo scopre che st'infezione la provoca il Bigfoot (????) e quindi se questo 30 anni prima aveva trovato Hitler non conta niente se ora è un vecchietto de 70 anni (che fatica ad andà in camera da letto ma poi vedremo scalare vette a mani nude e perpendicolari manco fosse Manolo), dicevo, non conta niente se è un vecchietto, evidentemente per il governo canadese è l'unico che pò trovà il Bigfoot perchè trovò Hitler (come se trovare un animale seguendo le orme possa esse simile a fa una cosa de intelligence pe scovà Hitler, okkkkkkkkkk), dicevo, per il governo mica ce sono dumila cacciatori giovani in grado de fa sta cosa, no, lo devono chiede al vecchietto che uccise Hitler, ma pe giustificà sta stronzata che dicono? che lui ha un sangue particolare, è l'unico in tutto lo stato (?????) che pò andà nella zona del Bigfoot e non prende l'infezione, quindi praticamente sto vecchietto su 6 miliardi di persone è unico per du cose, è sia l'omo che uccise Hitler e, che culo!!!!!!!!!!!!!,  anche l'unico che ha il sangue che non se infetta per la malattia del Bigfoot, e io ve giuro che ste due cose non sono collegate eh, sono collegate solo nella mente perversa degli sceneggiatori, e allora niente, a chiedeglie sto favore ce vanno due rappresentanti del Governo e uno è identico a quello dei Pills grasso, solo con 10 anni in più, e il vecchietto inizialmente non accetta ma poi sì, come sempre, e poi va nel bosco, nella zona infetta dove se aggira il Bigfoot e niente, mica se vede che lo cerca du giorni o cose così, no, appena entra nel bosco tempo 13 secondi lo vede e glie spara, talmente subito che noi che ancora pensavamo alla pasta manco ce semo accorti e abbiamo rimandato la scena indietro un'ora dopo, glie spara subito, SPAM, ma non lo ammazza, poi se vede sto vecchio che scala pareti perpendicolari di roccia, senza protezioni, che vaga per il bosco e alla fine, birillo o baralla, trova sto Bigfoot morente e noi scopriamo che sto Bigfoot in realtà è mezzo rachitico, alto quanto lui, con il 40 de scarpe, è un Littlefoot improbabile, brutto, un omo con un vestito da scimmia, ed è lì morente e il vecchio ha compassione per lui e poi ve giuro anche se sono passati solo du giorni da quando l'ho visto non me ricordo come lo ammmazza, fatto sta che anche il vecchio sembra morto, anzi, tutti lo credono morto, tanto che fanno addirittura il funerale al paese ma poi boh, invece è vivo, torna in paese e va a teatro E NESSUNO DICE NIENTE, è un morto sepolto ma è lì a teatro col su fratello in mezzo a tutti, e poi niente, m'ero scordato de divve che per tutto il film vedemo questo che c'ha na scatola sotto il letto e niente, 4 volte fa pe aprilla e non la apre mai, come se non sapesse l'immensità del cazzo che ce ne frega a noi de sapè che c'è dentro e poi sta scatola insomma gliel'avevano sepolta insieme al su "non corpo", che lui non è morto, ve l'ho detto, e lui allora va a diseppellì sè stesso, riprende sta scatola e, colpo de genio, manco stavolta vedemo che c'è dentro, uno dei mcguffin più incredibili della storia del cinema credo, ma intanto noi avevamo visto tanti flashback de na sua storia d'amore del passato e capiamo che sicuro quella scatola ha a che fa con quello ma niente, non la apre, e poi c'è una scena senza senso e lui se allontana de spalle nel buio tipo fosse Charlot.

Era meglio vedè L'uomo che uccise Hitler.
E poi il Bigfoot.
Era meglio se vedevamo sti due film.






3.2.22

Recensione: "Il sale delle lacrime" - Scritti da Voi - Rocco



FILM DISPONIBILE (AL 2/2) SU RAIPLAY

Il mio amico Rocco torna a scrivere per il blog recensendo l'ultimo film di Philip Garrel, ovviamente sempre nel suo stile colto (ho già letto "spinoziano" nella prima riga, cominciamo bene...).
Vi lascio prima alle 3 righe di presentazione e poi alla recensione.
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L'ultimo film di Philip Garrel segue, in un melanconico e quanto azzeccato bianco e nero, il complicato percorso sentimentale di un giovane tra sogni e delusioni e come esse si intreccino nei volti di tre donne.

Partiamo da un assioma semplice, spinoziano, l’idea di un qualunque modo in cui il Corpo umano è affetto dai corpi esterni, deve implicare la natura del Corpo umano e, simultaneamente, la natura del corpo esterno. E già perché la natura dei sentimenti che pare sfuggire dappertutto mentre se ne è trasportati, il più delle volte obbedisce a leggi antiche, che scorrono incessanti e profonde come il corso di un fiume carsico. Ogni conoscenza che facciamo di un corpo che incontriamo, spiega qualcosa della natura dell'altro, ma anche qualcosa della natura della nostra complicata essenza. E' come se lo stesso processo di conoscenza schiudesse al mondo anche qualcosa del nostro mistero. Qualcosa di improbabile, nascosto nelle pieghe del nostro corpo.
Luc arriva a Parigi dalla Provenza per sostenere un esame per la scuola di ebanisteria, vuol fare il mestiere del padre, l'intagliatore, in un certo senso vuole essere all'altezza dei desideri del padre. Un desiderio è grande quando permane tale, pur sottoposto alla distrazione del mondo. Il desiderio di Luc non viene meno alla grandezza di Parigi, ma Parigi contamina le aspirazioni e i desideri di Luc. Così, presto, per Luc Parigi diventa anche il volto pulito di Djemila, una giovane e bella proletaria che da indicazioni allo straniero su quella città caotica. Ciò che è spaesante diviene subito rassicurante accanto a lei e alla sua dolcezza. Djemila è una ragazza semplice che, a sua volta, rimane colpita dalla dolcezza e dai modi cordiali del ragazzo venuto dalla campagna, le sue attenzioni fanno presto breccia nel cuore della giovane donna. 


Ma l'amore è questione di tempistiche faceva dire Wong Kar Wai al suo personaggio in 2046, e sostenuto l'esame con profitto Luc deve tornare a lavorare presso la bottega del padre, perciò un grande e struggente primo piano dei loro volti in una banlieue marca un addio composto e affettato pieno di lacrime e promesse. Luc torna quindi in Provenza ai suoi lavori manuali ed ecco una seconda legge degli affetti ancora da Spinoza: "Se il Corpo umano è affetto da un modo che implica la natura di un certo Corpo esterno, la Mente umana contemplerà lo stesso corpo esterno come esistente in atto o come a sé presente, fino a quando il Corpo non venga affetto da un affetto che escluda l’esistenza o presenza dello stesso corpo." Sì certo, Luc conserva il ricordo affettivo di Djemila, ma arriva presto Genevieve, una ragazza con cui aveva avuto una storia in passato e con cui è facile tornare in intimità. Difficile dimenticare come dare piacere ad un corpo, anche a distanza di tempo quando se ne è conosciuta fino in fondo l'intimità più recondita. La corporeità di Genevieve, i suoi fianchi larghi e la rotondità del suo seno occupano fino a sostituire la giovane parigina. Djemila, ancora illusa e fulminata dalla passione organizza una trasferta per rivedere il suo amante, ma rimarrà presto delusa e sola in una stanza vuota ad attendere un uomo che non si presenterà mai, mentre il trucco cola dal suo volto di fronte allo specchio. Intanto Luc si abitua a Genevieve e alla sua appassionata corporeità, ma è forse quella abitudinaria frugalità l'amore? Luc ha il sospetto di non averlo ancora conosciuto, e bene che si presenti finalmente l'occasione di tornare a Parigi, la prestigiosa scuola di ebanisteria lo ha accettato come studente. Il desiderio di affermazione è ancora grande, ed esso si è nutrito già di due donne. Luc infatti lascia Genevieve, incinta, accusandola di averlo ingannato. Non era il suo sogno quello di fare un figlio.
Non c'è peggior incubo che quello di essere presi nel sogno di un altro, scriveva Deleuze. Luc arriva a Parigi all'acme del suo desiderio e ad un richiamo tanto alto risponde Betsy, una giovane infermiera ritratto della carnalità e della passione. Ma non è la passione famiglia e focolare di Genevieve, Betsy è un serpente le cui spire stringono Luc nel vortice fino a perdere se stesso. Betsy ama Luc, ma anche il suo amico Paco. Così ben presto, il giovane, stretto e oppresso dal vincolo della passione, finisce per amare la sua propria schiavitù e la sua propria umiliazione.
Tornare a vedere Djemila per rimpiazzare Betsy è solo l'ultimo errore della catena di rimandi, la giovane l'ha ormai dimenticato e intrapreso un'altra vita. 
Ancora Spinoza con un ultima inesorabile legge: "La Mente umana non conosce lo stesso Corpo umano, né sa che esso esiste, se non per mezzo delle idee delle affezioni dalle quali il Corpo è affetto." In qualche modo, cioè, non conosciamo adeguatamente un'altra persona se non attraverso i sentimenti che proviamo per lei.
In una certa misura non potremmo mai conoscere davvero bene una persona che amiamo. Solo dopo un forte trauma possiamo riconoscere chi siamo e chi essa sia veramente.
Così Luc, alla morte del padre sembra improvvisamente spazzare via tutti i fantasmi e le illusioni.
Così, in una impenetrabile solitudine nascosta alla nostra vista dentro un piccolo bagno che la curiosità della macchina da presa non riesce a scalfire, Luc elabora il pensiero più nero.
Dal momento che non crede in Dio non potrà mai più rivedere il proprio padre.
Dal momento che tutte le illusioni sono morte, sarà difficile rivedersi e riconoscersi ancora.