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15.9.20

Festival del Cinema di Venezia 2020, giornate 9,10,11 e Considerazioni Finali


Ultimo post da Venezia.
Troverete gli ultimi film visti dai nostri due ragazzi e le considerazioni finali di entrambi, giusto due righe di Tommaso, molte di più (anche con "premi") di Enrico.
Un abbraccio

TOMMASO FERRERO

Nuevo Orden – Michel Franco, Messico  


Un matrimonio fra ricchi in Messico viene interrotto da una rivolta popolare. Omicidi, tanti omicidi. Violenza, tanta violenza. Nella follia in cui cade il paese la sposa viene rapita da un corpo militare. Con l’intento di chiedere un riscatto. La famiglia cerca una soluzione mentre la figlia subisce ogni genere di abuso. Non vivo in Messico, non sento la tensione sociale fra ricchi e poveri e non ho rabbia in corpo. Forse per questo Nuevo Orden mi è sembrato così folle, così esagerato. Franco racconta qualcosa di molto lontano per noi, ma che certamente potrebbe essere assolutamente plausibile, come, poi, dicono molti che invece la situazione l’hanno tastata con mano. Fino a un certo punto il film mantiene una bella tensione, ma dopo un po’ mi ha nauseato.  

Lahi, Hayop (Genus Pan) – Lav Diaz, Filippine  


Tre minatori tornano a casa dopo mesi di lavoro con i loro soldi duramente guadagnati. Mentre camminano nella giungla si raccontano la loro vita, i loro rapporti cambiano e mutano lentamente. La Pasqua si avvicina e uno solo di loro uscirà da quella giungla, ma non per sua scelta. Al villaggio però qualcuno vuole ciò che il sopravvissuto ha guadagnato. Lav Diaz ha creato un film che è un trattato sulla violenza umana, sulla rabbia e sulla cupidigia. Un film lunghissimo dove entriamo in un mondo sospeso, dove i buoni d’animo, coloro che vivono per cercare la verità e la bellezza del mondo, vengono brutalmente schiacciati da chi, invece, cerca solo tornaconto personale e violenza. Un percorso lungo, di penitenza e sospensione, dove, alla fine, vince il più forte.  

Due considerazioni finali
Io non ho visto Nomadland, sia chiaro, dunque non mi permetto di giudicare il premio assegnatogli. Credo che il festival quest’anno abbia offerto una selezione strana, ma comunque, in qualche modo, efficace. I film delle sezioni collaterali mi hanno emozionato tendenzialmente molto di più di quelli in concorso ufficiale, ma sono gusti personali. Apprezzo il premio a Doroghie Tovarischi, che però, a mio avviso, avrebbe meritato di gran lunga di più. Detto questo me ne vado con un sorrisino malinconico dalla mostra. Mi è mancato un po’ il caos delle attese in fila, le corse all’ultimo minuto, le folle che sparano cazzate sui film appena visti, le urla in sala. Quest’anno era tutto così ordinato, si è persa un po’ di magia. Ma chissà, magari tornerà l’anno prossimo, in fondo la magia funziona così.  

ENRICO G

Spy no Tsuma (Wife of a Spy)


“Se fosse stato fatto da persone competenti, questo sarebbe un bel film”. Per quanto mi sforzi non ho trovato sintesi migliore di quella di una ragazza che usciva accanto a me dalla sala, quindi tanto vale riportarla. Dubito che nell’ambito della “critica cinematografica”, ci sia qualcosa di più doloroso, per me innamorato del Sol Levante, di bocciare un film giapponese. Eppure Moglie di una Spia non convince, c’è poco da fare, e va detto per correttezza nei confronti di tutte quelle opere che ai miei occhi non hanno un vantaggio di provenienza, ma soprattutto di quei capolavori nipponici animati o live action, che non si accontentano di vivere di rendita.
La storia è pure atipica in questo panorama: 1940. Mentre l’Europa viene insanguinata dalla guerra, il Giappone vive uno stato di apparente calma. Un commerciante si reca assieme al nipote in Manciuria, zona di guerra, quella sino-giapponese che deflagrerà nella mondiale. Al ritorno sua moglie, attrice, nota in lui un cambiamento profondo e strani atteggiamenti. Chi conosce un poco questo straordinario paese sa della difficile educazione agli orrori perpetrati in quei tempi bui. In un atteggiamento purtroppo simile a quello italiano, si tende a cumulare fortemente le responsabilità del Patto d’Acciaio su uno solo dei firmatari, la Germania nazista. Per questo probabilmente Spy no Tsuma è un film più adatto ad uno spettatore del suo paese d’origine, che difficilmente sentirà altrimenti parlare di Armata del Kwantung o Unità 731. Ma se già si conosce anche vagamente questi nomi il film non sorprenderà più di tanto. Impossibile rimanere indifferenti a quei filmati d’epoca, agli esperimenti, alle pile di cadaveri, ai sorrisi di cosiddetti scienziati davanti alla totale distruzione della dignità umana; ma è facile rimanere indifferenti davanti ad un film senza dialoghi mordenti, troppo melodrammatico, troppo lineare per una storia spionistica. E con una fotografia che lascia sconcertati: in più occasioni, con la macchina in mezzo alla foresta, le scene in città, la pensione, dimostra di saper gestire perfettamente scene in esterna. Eppure, quando quegli esterni si trovano dietro una finestra d’ufficio o del tram diventano bruciati, orrendamente sovraesposti in una luce quasi divina, che disegna aloni e aureole dorate intorno ai protagonisti.
Si salva un colpo di scena finale onestamente inaspettato, la conclusione stessa, con quelle bombe incendiarie su Kobe che riportano allo straziante capolavoro Una Tomba per le Lucciole, una buona regia, fatta spesso di lente carrellate con ottima gestione delle comparse. A tal proposito, in quello che è il film giapponese più anti-giapponese che abbia mai visto (ma siamo sicuri che la fiducia incrollabile riposta dal marito nell’Occidente sia positiva?), ci sono amorevoli dichiarazioni al cinema dell’epoca, di Mizoguchi e Sadao Yamanaka, con tanto di pellicola spionistica ricreata nella realtà stessa del film: un gioco metacinematografico che si rivelerà con potenza nel finale, ma soprattutto nella migliore scena del film, la cassaforte aperta, dove quasi ti aspetti di vedere quel braccio afferrato come nella finzione. Invece la suspense scoppia all’urto della scacchiera, che la paranoia non aveva messo in conto, pochi secondi più tardi.
Purtroppo è poco, specie per un candidato al Leone d’Oro: non ci si trova davanti ad un brutto film, ma ad una cocente delusione.


13.9.20

Festival del Cinema di Venezia 2020 - Giornate 7 e 8


Lo so, siamo fuori tempo massimo (ma per parlare di film non lo si è mai). Colpa mia che questi giorni avevo impegni.
E allora beccatevi questi due ultimi post da Venezia, pieni di film, uno oggi e uno domani.
Ah, alcune volte nella sezione di Enrico vedrete due titoli con un + in mezzo.
Ecco, sta a significare che Enrico ha recensito un corto e un film insieme.
Vi lascio a loro


ENRICO G.

The Man who sold his Skin 


Finalmente. Finalmente, dopo quattro giorni a Venezia, provo quel senso di scoperta che solo i Festival ti possono dare. Vai quasi alla rinfusa, specie in un’edizione come questa senza grandi nomi, e vedi tante opere. Alcune sono belle, altre ti deludono. E poi trovi The Man who sold his Skin.
Non parlerò della trama, basti sapere che parla di arte, e di come può cambiare la vita. Da qualche parte tra The Neon Demon e La Grande Bellezza c’è il lavoro di questa incredibile regista tunisina, metaforico ma senza la spocchia di esserlo, estetizzante ma profondo, moderno (ispirato al vero lavoro di un artista contemporaneo) ma discepolo del passato (incorpora grandi lavori della pittura e della musica, come la Tosca), pieno di tristezza e durezza ma mai rassegnato, anzi umoristico, persino simpatico, straordinariamente vitale.
Con il giusto ritmo nella frenesia e nella calma, un montaggio creativo, attori perfetti. Oddio perfetti, c’è pure Monica Bellucci… diciamo che non sfigura, col suo buon inglese e la inedita tinta bionda, in un personaggio antipatico ma non senza umanità. Nessuno ne è privo qui, e l’ho apprezzato in particolare nella figura dell’artista Jeoffrey (magnetica interpretazione). Inizialmente ricorda, anche nella fisionomia, il personaggio di Antonio Banderas in La pelle che abito; ma se lì il proseguo della vicenda rendeva quasi impossibile empatizzare con lui, in The Man si presenta immediatamente come colto Mefistofele, e ti viene pure il dubbio che lo sia. Ma no, è solo un artista, e gli artisti possono essere certo spietati, però capiscono il bisogno di libertà, per cui loro stessi combattono ogni giorno.

“Non sono io ad essere cinico, ma il mondo”

Il mondo cinico esiste anche oltre le frontiere dei musei (e dell’Europa), problematico, ingiusto, ma non privo di una sua dignità, una sua bellezza da godersi con le persone giuste, e celebrare ballando nei treni e nei bar. Vale la pena passarci quella grande avventura chiamata vita. E allora lunga vita al Cinema, e all’uomo che vendette la sua pelle.

Mainstream


 È incredibile come tutti i film dei Coppola parlino, in un modo o nell’altro, del vuoto. La vita di Frankie a Los Angeles nel nuovo millennio corrisponde a questo stilema, l’insoddisfazione, la voglia di emergere, di avere una scossa. Che arriva, sotto forma del successo come youtuber (anzi, “content creator”, per darsi un tono). Assieme a lei c’è il collega del bar, interpretato da Nat Wolff, e Link, la star del suo show interpretata da Andrew Garfield. Anche la presenza di quest’ultimo ha spinto certi a parlare di un nuovo The Social Network. Personalmente non sono d’accordo: quello è Cinema fatto e finito, dove lo zeitgeist veniva piegato ai bisogni di un grande autore come David Fincher. Mainstream nelle mani della giovane (sia di età che esperienza cinematografica) Gia si abbandona totalmente alla cultura contemporanea che sta raccontando, ne abbraccia la bruttezza. In un certo senso è la stessa operazione di Bling Ring della zia Sofia, solo che mentre quello ritraeva l’inutilità così a fondo da diventare smorto a sua volta, Mainstream si approccia con enfasi fanatica a ciò che vuole raccontare.

 Le forme diventano quelle di una live su Twitch, il ritmo si piega al deficit d’attenzione da TikTok. Meravigliosa e quasi macabra la scena, dove la protagonista (bravissima Maya Hawke) vomita nel lavandino e le escono solo effettini grafici, che si liquefanno orribilmente nel sifone.
Questo film (e la mia recensione che ne parla) è destinato ad un precoce invecchiamento da applicazione telefonica. Per questo è così difficile decidere se sia bello o orribile, punta con molto coraggio e molta furberia ad essere una testimonianza dell’adesso, specie nella sua accezione più passeggera, sbagliata e inutile. Ma allora dove sta il Cinema, dove sta la parte di Mainstream destinata a durare? Non certo nelle relazioni tra i tre protagonisti, la bella ingenua che si innamora del fascinoso maledetto finché non realizza che è uno stronzo e si accorge del migliore amico sommesso ma gentile. O come avrebbe detto De Crescenzo: Isso, Essa, e o’ Malamente.

Direi che sta in Link, il personaggio di Garfield, diviso tra versione mattatore assoluto e versione “quante gliene darei a lui e alle sue maledette faccette buffe”. Ma credo innegabile quanto sia cinematografico questo personaggio, così ambiguo, così respingente. Non verrà mai chiarito il suo ruolo, se è di vittima che ha perso il controllo della situazione (infatti equipara i telefoni alla droga all’inizio), venditore di fumo nato solo per la manipolazione (“bisogna essere stupidi per essere furbi”), o colui che ha fregato tutti, che ha battuto il sistema sguazzandoci dentro (“bisogna entrare nella pancia della bestia”), scoprendone tutte le brutture per poi farsi acclamare da esso.
Peccato solo che abbia un atteggiamento irritantemente sopra le righe e fintamente alternativo fin dal primo incontro con Frankie, prova che è difficile dimostrarsi genuinamente profondi e anti-sistema quando sei stato Spiderman e ti fai dirigere dall’ultima rampolla della dinastia più longeva di Hollywood. Però se Gia può dirigere una scena meravigliosa come lo show finale, se può far fare a Garfield un sorriso come quello, allora forse si merita attenzione, si merita di provare che sa anche raccontare la bellezza, e non solo denudare il marcio. La attendo alla prova del nove.


Omelia contadina + Narciso em Ferias


“Quando il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e gli artigiani, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo del consumo, allora la nostra storia sarà finita.” Belle parole, ma non sono state scritte per Omelia contadina, e se ho scoperto che appartenevano a Pasolini è solo tramite un guizzo d’occhio sui titoli di coda. Si intravede già una certa furberia in questo corto, nonostante la lodevole critica alle colture intensive delle multinazionali e la promozione dei contadini. Volti scavati, scelti e ripresi con cura, sul posto, per questo funerale dell’agricoltura, celebrato seppellendo alcune gigantografie dei coltivatori stessi sotto le note scordate di una banda musicale. Certamente d’impatto, bello da guardare, forse abbastanza confuso nei suoi contenuti: un risultato tutto sommato soddisfacente.
Dopo il corto, un lungometraggio, anzi parlerei di un non-film. Prima dell’entrata in sala non avevo nemmeno la vaga idea dell’esistenza di Caetano Veloso, musicista brasiliano scampato alla prigionia militare durante la dittatura del ’68. Ce lo racconta lui, con il suo volto, un muro dietro, e tre oggetti: chitarra, fascicolo del suo interrogatorio, sedia su cui poggia. Una storia a tratti appassionante, ti immerge in quello sguardo che molto ha visto, nella sua voce e fisicità, anni dopo i fatti. Per questo dispiace un trattamento che non è solo, come l’ha definito uno dei registi nel messaggio prima della proiezione, di “asciugatura dell’eccesso”, ma è proprio sottrazione di qualunque cosa, Cinema compreso. Sarebbe stato un ottimo monologo da caricare online, così sottotitolato, per imparare, assorbire pezzetti d’informazione, magari stoppare fino al giorno dopo. La cinematografia non funziona così, è rappresentazione, immaginazione del singolo legata all’immagine per tutti, parola e suono creativo. Anche scarna, anche asciutta. Ma sempre Cinema: Narciso em ferias, semplicemente, non lo è.

Pieces of a Woman


Una sensazione riporta a The man who sold his Skin, guardando questo film. Forse non altrettanto positiva, non si raggiunge quel perfetto equilibrio di drammaticità e coraggio. Anzi, le sequenze iniziali del film sono tutte eccessive: un futuro padre, operaio nella imminente costruzione di un ponte, apre le porte del rumore, del caos, ad un fiume di parole. Stacco e siamo dalla sua compagna: assisteremo al parto domiciliare in piano sequenza, senza interruzioni, senza poter indietreggiare di neanche mezzo centimetro da quegli intensi e imbarazzanti momenti.

Qualcosa va storto, e lì Pieces of a Woman svela la sua carta dalla manica, la rabbia. Questo intendevo paragonandolo al bellissimo belga-tunisino: ha la stessa vibrante energia, incanalata però non nella scrittura, regia e recitazione perfettamente equilibrate, ma nella furia, repressa in lei (bravissima Vanessa Kirby) e strabordante in lui (prendere Shia LaBeuf sul serio, sto sognando?), nella reazione di pancia, nel nervo. Sembra quasi un film di Scorsese imborghesito e senza pistole, e guarda caso Martin è produttore. Ci sono parole dalla linea grezza, ma taglienti come lame, specie nello splendido confronto natalizio della Kirby con la sua madre di finzione, una intensissima Ellen Burstyn.Dura tanto, impegna tanto. E proprio quando tale rabbia viene convogliata in qualcosa di estremamente positivo, dalla scena del processo in poi, perde un poco della sua vitalità. Eppure sento che si farà ricordare in questa selezione festivaliera, con le sue parole dure e relazioni tossiche, in mezzo alle quali mi sono ritrovato, mio malgrado, perfino commosso.

8.9.20

Festival del Cinema di Venezia 2020 - Giornate 4,5 e 6


Secondo appuntamento con i nostri resoconti da Venezia!
Ci sono un sacco di film, buona lettura

(aggiusteremo i problemi di interlinea quanto prima)

TOMMASO FERRERO

The man who sold his skin - Kaouther Ben Hania, Tunisia  

Un giovane rifugiato siriano decide di diventare un’opera d’arte vivente pur di raggiungere l’Europa, precisamente Bruxellles, dove la sua amata vive con un marito scelto dalla famiglia. Questa in soldoni è la trama di un film che decide di intrecciare due temi molto spinosi: cosa sia l’arte e quanto conti l’essere umano (o perlomeno le differenze di importanza fra diversi esseri umani). Li tratta in maniera nemmeno velata, anzi li dichiara provocativamente l’artista che nel film tatua la schiena del protagonista, ma non risulta retorico. Un finale molto all’acqua di rose però impedisce di godere del film nella sua totalità, anche se mantiene, oltre a un interessantissimo incipit, dei personaggi ricchi e un protagonista imperfettamente empatico. La sua storia d’amore dopotutto è il traino del film, è impossibile non amare i suoi capricci e i suoi sbalzi d’umore.  

The Duke – Roger Michell, Inghilterra  

Credo che chiunque viva in un paese come me abbia, almeno una volta nella vita, incontrato un personaggio come il protagonista di The Duke. Un uomo disoccupato, ma che fa delle lotte sociali più assurde il suo pane quotidiano. Quel vicino che non paga il canone perché “Tanto la tv non la guardo”, quello che non accetta l’impiego dei soldi del comune per far piantare delle aiuole fuori stagione. Insomma, uno che i cazzi suoi mai. Però in The Duke il protagonista (Jim Broadbent) è troppo inglese per non essere amato. La sua lotta sociale passa a un livello successivo quando, per ottenere un’agevolazione sul canone tv per i pensionati, ruba il ritratto del duca di Wellington. La commedia scivola bene, con uno humor mai fastidioso, anzi, riesce a intrecciare il comico col drammatico senza sbavature. Ovviamente non si parla di un capolavoro, ma di un film che nella sua anglosassone linearità regala quasi due ore di piacere. Alla fine, all’uscita dalla sala, avevo un dolce ed ebete sorriso in faccia. Quasi quasi smetto di pagare il canone.  

Miss Marx – Susanna Nicchiarelli, Italia  

Premetto che a me la Nicchiarelli non sta un gran simpatica. Premetto anche che Nico l’ho apprezzato tantissimo. Per questo in fondo mi dispiace, ma ci godo, che Miss Marx, a mio avviso, sia così insulso. Miss Marx, come dice il nome, racconta di Tussy Marx, la figlia di Karl, che per tutta la sua vita si è battuta per i diritti delle donne e dei lavoratori, ma che nella vita privata è stata sempre sottomessa, per scelta d’amore, a un uomo che la trattava come una bambolina. E nulla, il film si riempie di grandi temi che vengono però solo accennati e, se non accennati, Rappresentati con retoricissimi monologhi (immagino tratti dagli scritti della stessa Marx) ai quali la Nicchiarelli non aggiunge alcuna rielaborazione. La figura protagonista è volubile, spesso debole, il che sarebbe apprezzabile se non fosse poi rappresentata come una eroina che balla a suono di punk rock. Il film ha però un confezionamento pregevolissimo, con bellissime scenografie d’interni e una colonna sonora di gran livello. Un film che voleva essere estremamente rock, ma che, in fondo, puzza di vecchio.  

La Troisieme Guerre - Giovanni Aloi, Francia  

Sono entrato in sala con delle belle aspettative, poi ne sono uscito deluso. Non che il film sia brutto, anzi è girato bene, con ottimi interpreti e una buona regia per un esordio. Semplicemente non è un film che mi ha comunicato molto. Un giovane soldato dell’esercito francese, figlio di una madre alcolizzata, si traferisce a Parigi e vive le sue prime ronde per la città, dove la guerra al terrorismo diventa per lui un’ossessione. Non c’è molto da dire. La storia si sviluppa in maniera abbastanza piatta, ci sono alcuni punti di eccezionale tensione e Aloi ci fa entrare fin da subito nel clima di minaccia costante che vive il protagonista. Poi però l’eccessiva violenza interna del corpo militare, la storia d’amore simulata attraverso un cellulare requisito e la disceso in una pseudo follia del protagonista abbattono il film verso dei luoghi comuni cinematografici. Soprattutto il finale uccide il climax di formazione del ragazzo, non lasciandoci modo di crescere con lui.  

Omelia Contadina – Alice Rohrwacher e JR, Italia  

A differenza della Nicchiarelli la Rohrwacher mi piace molto. Per questo mi sono incazzato quando mi ha somministrato Omelia Contadina. Un corto di 10 minuti rotti in cui dei contadini dell’altopiano Tosco-Umbro portano delle gigantografie di se stessi in mezzo a un campo. Lì le seppelliscono recitando un’omelia a ritmo di marcia funebre. Riprese stupende, dronate aggressivi su boschi nebbiosi. Però tutto il resto è un gigantesco no. Un unico discorso retorico per cui le multinazionali cattive distruggono il paesaggio agricolo rurale devastando ogni tradizione. Io che vengo dalla campagna più contadina d’Italia, ovvero Bergamo, e mi sento un discorso così infantile esposto in maniera infantile resto basito. Il fatto di avere usato i contadini come attori non salva il corto, per quanto i visi siano espressivi e bellissimi. Frase finale del corto, per fare intendere cosa sto dicendo:  
EST. GIORNO  
Contadino guarda dritto in camera  
CONTADINO  
Ci avete seppellito! Ma non sapevate che siamo semi!  

5.9.20

Festival del Cinema di Venezia 2020 - Giornate 1, 2 e 3


Cominciamo i nostri resoconti dal Festival di Venezia.
Quest'anno gli inviati sono Tommaso Ferrero ed Enrico (della rubrica degli anime) che sostituisce Riccardo, impossibilitato a partecipare.
Ecco le recensioni che mi hanno mandato dei primi due giorni.
Ovviamente a volte i film combaceranno ma credo rende solo la cosa più interessante

ci sono piccoli problemi di font in due recensioni, aggiusteremo


ENRICO G.


Presentazione
Il film che ha aperto la Giornata degli Autori, certamente appassionato e con grandi potenzialità, ha purtroppo grandissimi problemi di struttura. Uno scheletro e una “carne” quasi inesistenti, che lo rendono purtroppo pesante e faticoso, e hanno presto alienato il mio interesse.

All’altra estremità dello spettro un noir coreano che vola molto più basso nei generi, ma che ha davvero tutto: stile, ritmo, montaggio, personaggi profondi e macchiette, tendenze riflessive ed eccessi fuori luogo, scrittura non sempre perfetta e anima sempre pulsante.

HONEY CIGAR


Bisogna concederglielo ad Honey Cigar, non è un film facile di cui parlare.

Nasce di per sé da un contesto non facile, quella ferita coloniale che si estende dalla Francia al Nord Africa, che forse noi italiani non potremo mai comprendere del tutto; dal suo tratto più doloroso e sanguinante, l’Algeria. E dal microcosmo altrettanto difficile come la vita di una ragazza adolescente, divisa tra la madrepatria che l’ha cresciuta, e l’ex colonia che le ha dato i natali. Questi due mondi purtroppo non si incontrano mai veramente: la situazione algerina si fa spazio solo nel finale, a fatica tra le maglie di una regia troppo claustrofobica, stretta sui primi piani sostenuti, lunghissimi, specie sulla protagonista. Selma, questo è il suo nome, vive di ciò che costruisce l’attrice e i personaggi attorno a lei, in particolare i suoi genitori fittizi: i personaggi migliori del film, interpretati benissimo (il padre ricorda vagamente il compianto Irrfan Kahn) nelle loro difficoltà di crescere una figlia, perlopiù da algerini, stretti tra il ripudio e le convenzioni del paese che hanno lasciato. Purtroppo non basta, perché la scrittura si perde, sceglie binari convenzionali o troppo assurdi (il ku klux klan studentesco che sembra scartato dai riti universitari di Raw o la scena quasi fantozziana dove il padre minaccia di buttarsi dalla finestra), insomma non supporta le grandissime interpretazioni. Anzi, sembra molto più interessata a infilare il sesso, per finta, per davvero, per allusioni, in almeno tre quarti delle scene, con una pedanteria esasperante. Forse anche il sigaro al miele titolare si inserisce in questa trafila, visto che non si vede fisicamente né l’uno né l’altro durante tutta la durata della pellicola…

Come dicevo, è difficile parlare di un film così, fatto con sentimento, visto con il cast e la regista in sala, tra l’altro esordiente, anche nella sceneggiatura. E, bisogna aggiungere, con interpreti capaci e musica meravigliosa, che purtroppo rendono ancora più evidente la mancanza di una direzione registica o di scrittura capaci di convogliarli. Peccato.

NIGHT IN PARADISE


Folgorante.

La prima cosa che salta all’occhio, iniziando Night in Paradise, è la regia. Non c’è un’inquadratura fuori posto. È metodica e precisa, come il protagonista Tae-gu. Come il cinema coreano, che non sbaglia un colpo, e anche qui trova un suo esponente, che senza eccellere particolarmente in un singolo componente ha tutto ciò che serve, tecnica, anima, capacità di saper narrare (il regista ha fatto tutto per conto suo, sceneggiatura compresa).

Siamo in quel cinema di gangster all’orientale, fatto di coltelli, cosche mafiose che si fanno la guerra per l’onore o i soldi, sgherri ricoperti di tatuaggi o di completi neri e bianchi tutti uguali. E siccome è un neo noir, i passati sono tragici, il presente fosco, il futuro atteso autodistruggendosi, con in mano pacchi di sigarette o bottiglie d’alcol scadente.

Questo è il mondo di Tae-gu, rispettato dai capi, dai subalterni, persino dai rivali. Fino al giorno in cui tutto comincia ad andare terribilmente storto, e il nostro monoespressivo eroe si ritrova in fuga, via dalla maledetta e oscura Seul. Quando dico monoespressivo non bisogna pensare all’incapacità di esprimere emozioni, quanto alla durezza monolitica del Ryan Gosling di Drive. Quello sguardo che sa (e se lo metti alla prova sono guai), qui appartiene ad un uomo capace di uccidere a sangue freddo nelle terme per poi fuggire nudo. Che dopo una settimana di inattività, fumo e bevute, può sostenere un inseguimento in autostrada alla The Raid 2, e poi come Rama combatte in macchina, lui solo contro almeno 15 che lo assediano. Un uomo così granitico che durante la fuga non si degna di fermare la macchina per le medicine, ma si fa mordere la mano per calmare la ragazza in preda agli spasmi.

Ed è lo stesso che arriva per salvarsi la vita nella piccola isola di Jeju, ospite di un vecchio gangster e sua nipote (che bella questa contrapposizione di mafia cittadina e indigena, con i loro territori e competenze). Lì non si può fare nulla, solo aspettare.

E paradossalmente il film funziona ancora meglio in questa parte centrale, fatta di lente conversazioni, di ristorantini vuoti, senza neanche cameriere o proprietari. E di zuppe al pesce che sanno dell’infanzia, povera e in riva al mare, senza i boati delle pistole e i sibili delle lame.

Non che ciò che accada nella capitale sia meno interessante, anzi, c’è forse la mia scena preferita di tutto il film, il colloquio a tre. Capo Ma, Capo Park e Yang. Il primo è una faccia da cazzo indimenticabile, bellicoso e iracondo, che eppure si scoprirà in seguito dotato di una sorta di codice etico (come Tae-gu). Il secondo un “funzionario”, poliziotto corrotto (poteva mancare in un film coreano?) prestato al ruolo di paciere, fanaticamente legato all’avanzata di carriera (determinata dalla tregua che riesce a mantenere tra le gang). Il terzo il capo a cui Tae-gu è legato da immensa lealtà, che mano a mano si scoprirà sempre più viscido opportunista, marcio fino al midollo.

L’atto finale vira nuovamente nello stile, raggiungendo eccessi sanguinolenti a tratti degni di un film splatter. Per far capire in quali dintorni ci si trova, ad un certo punto vi è la scena di una porta che viene sbarrata, in modo identico a Kingsman, o se si preferisce al cinema di Bastardi senza Gloria. E anche lì avviene un massacro, fulmineo, il giorno dopo quello lungo e penoso (a tratti, anche per lo spettatore) della pescheria.

Il finale, nonostante le lungaggini, ripiglia la coraggiosa tragicità dell’inizio.

Restano solo le schiere di morti, di donne che non hanno potuto vivere e uomini che hanno scelto di morire. Una spiaggia, un sorriso per quel passato prossimo, così duro eppure così felice. E l’ultimo viaggio alla fine del giorno, sulle ali di una pallottola per raggiungere quella Notte in Paradiso.   
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09:53 (6 minuti fa)

Dashte Khamoush (The wasteland) è un film iraniano poverissimo, squadrato come il suo format di ripresa, desolato come la sua mancanza di colori (è filmato in bianco e nero). La storia di un giorno, l’ultimo, di una fabbrica di mattoni persa nel nulla. E del suo straordinario guardiano.
Nuovamente agli antipodi, un film francese moderno, cinetico, dalle tinte fosche e amare. Con una protagonista dalla bravura e bellezza quasi insostenibile.

THE WASTELAND

The Wasteland è il capolavoro di un grande uomo di penna, Eliot. Quella desolazione di cui parlava non sta però ai nostri piedi, nella sua accezione fisica, ma dentro gli animi. Nella corruzione morale, spirituale e sociale che frammenta anche l’umanità del film omonimo.
Ci troviamo nel mezzo di una terra incolta e friabile, adatta ad una sola cosa: l’impasto dei mattoni. Se ne occupano poche famiglie, abitanti di questa fabbrica-dormitorio, con un padrone proveniente dalla città, e Lotfollah, intermediario tra i due mondi. Dico subito che quest’ultimo personaggio è la vera ragione per vedere un film che soffre di una lungaggine finale spesso snervante, e un tasso di rivedibilità pari a zero. Un guardiano obbediente, stoico, la cui esistenza non si è mai separata dal quel forno, capace solo di sputare fuori mattoni inutili, che nessuno vuole più, nessuno userà o richiederà una sola volta nell’arco del film. Lui ha già fatto tutto in quella fabbrica, prima e con meno aiuti e meno salario delle famiglie di ora, lui è il Sostitutore, che copre le mansioni di chi va dal capo a chiedere gli arretrati e sparlare di lui. In una specie di incastro, vedremo più volte questo copione svolgersi intorno al discorso di chiusura della fabbrica: avere problemi, consigliarsi con Lotfollah, andare dal capo a chiedere soldi. La famiglia azera, quella iraniana, quella curda, tutti con stipendi arretrati, tutti miserevoli (e non solo perché poveri), tutti senza un tavolo, a bere tè e riposare sotto un sudario. Comandati da un uomo che più di loro ha solo la macchina e le sigarette che fuma ad ogni colloquio. A suo modo straordinario anch’esso, questo capo che promette sempre un futuro migliore che mai arriverà.
Paradossalmente è questo il pregio e il difetto maggiore del film, la ripetitività dell’intreccio, che contagia il ritmo e allunga penosamente il finale. Che quando però arriva colpisce fortissimo, non solo per il tragico reiterarsi di una desolazione dalla quale è impossibile scappare, ma soprattutto per quei mattoni inutili, che finalmente trovano uno scopo, l’ultimo possibile.

AMANTS

Gran bel film Amants. Pur non avendo probabilmente nulla (un motivo sì in realtà) che fa gridare al miracolo, è essenzialmente senza difetti. Soprattutto, non annoia per nemmeno un secondo della sua ora e quaranta di durata. Ecco, non ha pause, e questo potrebbe essere un problema per chi ama (come me) la poesia del silenzio, dell’immobilità. Ma indubbiamente la regista Nicole Garcia ha saputo dare ad ogni scena la sua importanza, ad ogni dialogo la sua musica, rimanendo dove era giusto rimanere e tagliando dove era necessario tagliare. Qui si vede l’occhio d’insieme, quello di chi ha una visione e può fare da sé anche senza una fotografia stellare (è questo il caso). In un certo senso mi ha ricordato l’atmosfera creata da Oriol Paulo in Contrattempo, forse per lo stile patinato in salsa francese o per la fosca storia dei due amanti protagonisti.
Parentesi: così fosca da meritarsi un vietato ai 14 dalla Biennale, mentre Night in Paradise, senza nudi ma con la sua truculenta carneficina finale ha un allegro lasciapassare per tutte le età. Bizzarrie della censura.
 Tornando al paragone, non parliamo però né della stessa genialità, nè di genere tout court, tanto che nel terzo atto avviene una fase di confusione dove il film non sa se virare sul thriller o rimanere un drammatico romantico.
Ma bando alle ciance, Amants va visto per due sole ragioni, e una è Stacy e l’altra è Martin. Questa attrice, un’emerita sconosciuta nove anni fa in Nymphomaniac del grande Lars von Trier, non avrei mai scommesso potesse diventare una delle mie preferite in assoluto. Sono presenti grandi attori, come la bellissima fulva che assomiglia vagamente a Saoirse Ronan, o i due protagonisti, l’aquilino Simon (che mi ha convinto mano a mano che proseguiva la storia) e il tozzo Leo con la sua mascella da Tom Hardy. Però non c’è niente da fare, Stacy si mangia l’intero film con tutti gli altri dentro. Ha uno sguardo intensissimo, che buca lo schermo in qualsiasi occasione, che sorrida o pianga, in costume o cappotto, truccata, affannata, appena svegliata, con le occhiaie, accaldata da una doccia o in vestaglia, spettinata, a fumare e autocommiserarsi. C’è un momento che mi è rimasto assurdamente impresso considerando l’influenza sulla trama. Lisa, il suo personaggio, è sull’orlo delle lacrime davanti al padre. Asciugandosi gli occhi con una mano si sbafa il mascara. Quella linea irregolare, che in novantanove attrici su cento avrebbe rovinato l’intero viso, sul suo, anch’esso irregolare e imperfetto, esalta ancora di più quanto sia bella ed espressiva.
Aiuta che lo stesso personaggio sia interessante, scritto molto bene. Lisa è una femme fatale del nuovo millennio, tanto consapevole del proprio potere e la propria sensualità quanto lacerata dalle sue stesse voglie e scelte, o dall’incapacità di averle ben chiare. Lo sintetizza pure, un personaggio del film: “Sembri… non mi viene, un quadro. Scuro, cupo”. Esattamente come quel volto misterioso, che incanta e smarrisce.
A Venezia c’era già stato un film, anche più bello di Amants, ovvero il meraviglioso e sottovalutatissimo Amanda, a regalarci una performance altrettanto speciale. Lì però tutto era molto più bilanciato, Stacy era una coprotagonista che doveva ritagliarsi il suo spazio negli strati di una storia bellissima e dolorosa. Qui, dove se possibile è ancora più brava, come protagonista gli spazi che cede il film li occupa tutti, dando un’interpretazione travolgente: se sta bene allo spettatore, vale da sola la visione di un già ottimo film.

TOMMASO FERRERO 

Cala il buio su Venezia
Non metto voti, non ho la capacità né la voglia di farlo, è solo come ho vissuto il film. I voti odiavo prenderli, non credo potrei mai, dunque, darli. Saranno riflessioni, forse un po’ romanzate, su quella assurdità che è la mostra del cinema.

Mila (Apples) – Christos Nikou, Grecia


Opera prima dell’assistente alla regia di Dogtooth che, come ci oramai ci hanno viziato il buon Lanthimos ed il cinema greco, parte da un soggetto fortissimo. Una pandemia sconosciuta causa negli infetti un’amnesia totale, portandoli a dimenticare ogni dettaglio sulla loro vita precedente. Il governo greco, dunque, crea un programma di riabilitazione atto a portare i pazienti a vivere esperienze indimenticabili (come possono essere un incidente o un salto nel vuoto), così da ricreare una propria storia di vita. Il nostro protagonista senza nome si muove in un film pulito con grandi trovate dal risvolto comico e amaro. La sua inattendibilità come protagonista è l’elemento più interessante del film, che ci porta a essere spettatori involontari di un uomo che ha deciso di arrendersi alla paura del dolore. All’uscita della sala comunque si esce con un sorriso di dolcezza.

Meel patthar (Milestone) – Ivan Ayr, India


Ogni anno a Venezia amo vedermi un paio di film dell’area indiana-tibetana. Non perché mi piacciano, ma perché mi portano lontanissimo, in luoghi e abitudini che sono per noi quasi incomprensibili. Questo è successo in parte anche con Milestone che, dopotutto, è la storia di un camionista. I camionisti in India non sono tanto diversi che i camionisti qui, vivono di miglia e sono spesso lontani da casa. E di questo parla Milestone, di un uomo solo, solo per scelta di vita, perché la sua lontananza da casa ha portato la moglie a suicidarsi in seguito ad un litigio. Questo lo porta a gettarsi nel lavoro in maniera maniacale e autolesionista, così da condannarsi a un eterno mal di schiena. L’arrivo di un giovane apprendista porta, però, la possibilità di un licenziamento. La cosa interessante del film, dai ritmi comunque dilatatissimi, oserei dire liturgicamente strazianti, è il paradosso di base. Il protagonista non vuole andare avanti nonostante non stia fermo nemmeno per un minuto di film. Gli ultimi venti minuti sono carichi dell’umanità dei personaggi, debolezze e desideri implodono su se stessi. Il resto sono belle immagini di una brutta India.

Gaza Mon Amour – Nasser Brothers, Palestina


Dopo l’israeliano Tel Aviv on fire dell’anno scorso Venezia cambia fazione e passa ridacchiando in Palestina. Gaza mon amour è un film elegante, lieve, forse come ha definito la simpatica signora tre file davanti a me “’na cazzata”. Però a me è piaciuto. E non poco. Un anziano pescatore si innamora di una sarta del souk, anch’essa non giovanissima. Quando l’uomo trova in mare una statua di Apollo la polizia inizierà a bloccare ogni suo tentativo di dichiararsi alla sua amata. Basta. Nulla di più. Una storia che in pratica è un incipit, però ricca di quella realtà che a noi arriva solo filtrata tramite i giornali. La guerra, la povertà e la voglia di fuga vengono sparse ai contorni di una storia dolce, ma mai patetica, in cui il fiore dell’amore di due personaggi “sbagliati” diventa un traino enorme. Un film povero di tutto, ma non di sentimenti.

The Furnace – Roderick MacKay, Australia


Un film unico nel suo genere. Un western ambientato nell’outback australiano, il cui protagonista è un cammelliere afghano amico degli aborigeni. Il Ghan (nome dei cammellieri portati in Australia dagli inglesi) viaggia assieme ad un ladro d’oro verso una fornace, così da togliere il marchio della regina e rendere i lingotti non riconoscibili alle autorità. Il tutto inseguiti dalla polizia e da una personificazione di satana. La prima oretta non scorre bene, ma gli ultimi cinquanta minuti sono un western di grandissima qualità, dove la vendetta personale del protagonista si trasforma e cambia forma come i lingotti che porta in sella al suo cammello. Una storia affascinante sul tema dell’appartenenza, dove l’oro è veleno che uccide qualsiasi cosa tocchi.