Ne ho fatti 4 ma quest'anno non sono andato.
Ho avuto però la fortuna che l'amica alessandrina Gaia Baruscotti fosse là presente a avesse pure la voglia di scrivere(mi) recensioni (è molto brava).
Devo dire che ha fatto un grandissimo lavoro, è riuscita a vedere ben 8 film (praticamente in soli due giorni) e recensirli anche in maniera parecchio esauriente.
Vi lascio a questo suo bellissimo reportage.
Appuntatevi i titoli perchè spesso film del ToHorror "emergono" poi nel cinema di sopra o diventano comunque cult del sottosuolo.
Buona lettura!
SAYARA
Per quanto non raggiunga gli eccessi truculenti di Baskin, Sayara, ultima fatica di Can Evrol , non è sicuramente per i deboli di cuore. Un po’ Kill Bill, un po’ The Villainess, il film si allontana dagli stilemi dell’horror soprannaturale per avventurarsi nel campo del classico rape and revenge, senza particolari innovazioni ma riempiendo la struttura di denuncia sociale.
La protagonista, immigrata turkmena che dà il titolo al film, lavora come donna delle pulizie in una palestra di Istanbul e cerca di rendersi invisibile agli occhi degli altri. Ma gli allenamenti all’alba in cui dimostra capacità fuori dal normale e le confidenze della sorella Yonca all’amante (e proprietario della palestra) Baris dimostrano che sotto l’apparente anonimato di Sayara è sopita una violenza cieca e primordiale. L’uccisione della sorella e il successivo tentativo di insabbiamento scatenerà una furia dirompente, che consumerà non soltanto gli assassini e i loro complici, ma anche, è il caso di dirlo, Sayara stessa, in una sorta di battesimo del sangue e successiva rinascita.
L’immagine con cui si apre il film, e cioè la Sayara bambina che dà alle fiamme i giochi d’infanzia, è il sunto del film stesso: in un mondo dominato dalla sopraffazione e dal consumismo (di oggetti, di droghe, perfino di persone), “vince”, se si può definire vittoria, chi è più spietato degli altri. Non c’è spazio per l’innocenza, la purezza o altri fardelli di questo tipo. Gli idealisti, come il padre di Sayara che le proibisce di usare la forza di cui è dotata, sono destinati, inevitabilmente, a soccombere. Nella società, sembra volerci dire il regista, si ritrovano, amplificate, le stesse dinamiche della palestra: se qui è necessario allenarsi ogni giorno per essere il migliore e lasciare indietro tutti, nel mondo fuori bisogna perdere quotidianamente un briciolo di umanità e calpestare nella scalata al successo chi ci sta intorno. E non si tratta di un fenomeno ristretto alla sola società turca, e neppure alla società moderna: le radici vanno ricercate nelle generazioni passate, o forse ancora più addietro e nelle profondità della natura umana. Entrambe le figure dei padri presenti nella storia, quello di Sayara, che la istruisce nella pratica delle arti marziali e lascia intendere di averle usate più volte per togliere la vita, e quello di Baris, che, quando quest’ultimo era solo un bambino, aggredisce un uomo reo soltanto di aver fatto ridere di gusto la moglie, sembrano suggerire che gli schemi di comportamento tossici sono ereditari, in un ciclo perpetuo impossibile da scardinare. Le vittime sacrificali della violenza sono, ovviamente, le donne, in particolare quelle immigrate come Sayara e Yonca, e il tema della violenza di genere è qui trattato senza alcuna delicatezza ma mostrato in tutta la sua brutalità (alcune scene, nel loro estremo realismo, sono davvero difficili da guardare senza distogliere lo sguardo). La soluzione, forse eccessivamente semplicistica, è che le donne diventino peggiori dei loro aguzzini, più spietate, più crudeli, in un olocausto catartico di sangue e fuoco.
CONTINENTE
Una ragazza di origine brasiliana, Amanda, immigrata in Francia da bambina, decide di tornare nella fazenda della sua infanzia per poter dare l’ultimo saluto al padre morente, ignorando che il luogo nasconda un terribile segreto. Le premesse di Continente di Davi Pretto non sono certamente originali ma il regista si sforza, con alterne fortune, di rivitalizzarle, immaginando che sia il luogo stesso, nella sua lussureggiante e carnosa vegetazione solo parzialmente addomesticata dall’uomo, a essere infestato dai conflitti sociali e storici, incarnati in corpi che si nutrono a vicenda. Amanda, come ha tentato di fare suo padre, si sforza di mantenere un ordine in un mondo al limite del collasso e del sovvertimento di classe, dove i contadini sono costantemente emarginati, sfruttati e “zombificati” dal lavoro e la cui unica possibilità di sazietà è il cannibalismo. A fare da spettatrice c’è la natura, tanto bella quanto ostile, che amplifica la sensazione di isolamento e straniamento della protagonista, catapultata dalla civilissima Francia ai riti ancestrali della foresta amazzonica. La violenza e la disuguaglianza dovute, entrambe, al capitalismo, dipinti con toni da realismo magico, aprono la porta a immagini e suggestioni simboliche pressoché illimitate che, però, non vengono sfruttate al massimo grado per una certa difficoltà a tenere insieme elementi così complessi e distanti. Il tentativo di creare un mito storico si arena in una serie di scene girate con eccellenza tecnica - il “calvario antropofago” tra padrona e sottoposti e il rapporto sessuale tra il compagno con la dottoressa del villaggio, in una commistione di terrore ed erotismo grottesco - che non trasmettono la forza di un racconto corale di riscatto. Gli abitanti del villaggio e i personaggi secondari sono scarsamente caratterizzati, impedendo allo spettatore di empatizzare con loro e comprenderne i motivi, le intenzioni, gli impulsi dei loro corpi. Inoltre, la lentezza della narrazione, più che mantenere la suspence o permettere una maggiore immersione nella complessità del materiale, genera l’effetto opposto, anche a causa di dialoghi che appaiono un po’ forzati, pur riuscendo a restituire l’idea di una minaccia incombente e pronta a esplodere.
SOLVENT
Chi avrebbe mai detto che mi sarei trovata ad apprezzare un film dove il cattivo, come in un brutto libro dei Piccoli Brividi, è un tubo metallico conficcato nel terreno. Eppure, eccoci qua.
Johannes Grenzfurthner ritorna al genere del mockumentary con Solvent, dove un gruppo di personaggi stralunati capitanati da Holbrook, che registra con una videocamera tutte le sue attività - lavorative e non, viene contattato da Ernst Bartholdi, interpretato dallo stesso regista, per esplorare la casa, chiusa da anni, del nonno defunto alla ricerca di documenti e reperti storici del Terzo Reich. Eh sì, perché il caro vecchietto, mai pentitosi dei suoi misfatti, in gioventù era uno dei comandanti del campo di sterminio di Chelmno, dove i nazisti avevano sperimentato per la prima volta le innovazioni tecniche che avrebbero poi trovato applicazione su larga scala ad Auschwitz. Il tema portante del film è, infatti, il difficile rapporto con il passato e le colpe del proprio Paese, che, inutilmente, vengono rimosse in un inconscio collettivo, qui rappresentato materialmente dallo spazio sottostante la cantina dei vini da cui lo spirito del gerarca riesce a comunicare e possedere i vivi, attraverso il tubo di cui sopra. I traumi, però, se non affrontati, trovano il modo di riemergere prepotentemente e ripetersi, sia a livello personale, visto che Holbrook soffre di disturbo post traumatico per ciò che ha visto e fatto durante la Prima Guerra del Golfo e in Bosnia (dove ha ucciso “soprattutto militari” e comunque “nessuno sotto i quattordici anni”), sia a livello politico e sociale, con la recrudescenza, un po’ ovunque, di movimenti neo-nazisti e, specialmente dopo i fatti del 7 ottobre 2023, antisemiti. Non è certo un caso se la pellicola è stata presentata al grande pubblico nello stesso mese in cui le recenti elezioni nazionali in Austria hanno visto un aumento esponenziale di votanti del partito di estrema destra FPO.
Il film, ambientato nella fattoria e nei dintorni di un sonnacchioso villaggio austriaco di Egelsau, infestato non dagli spiriti dei defunti, bensì da quelli della Storia, è nettamente diviso in due parti: la prima è simile a tanti altri film dove gli youtuber di turno si intrufolano in luoghi abbandonati finché non avviene a tragedia, mentre la seconda è sicuramente più originale e mostra, senza paura di avventurarsi nel campo del body horror e del camp, la discesa nella follia del nostro protagonista e successivo riscatto. Non mancano momenti e personaggi grotteschi, che strappano una risata, non necessariamente a denti stretti, che nulla toglie al clima claustrofobico e malato dell’opera.
Attraverso il costante uso della ripresa in soggettiva, ci immergiamo completamente e senza possibilità di fuga nell’orrore morale e fisico, come se il regista volesse costringerci ad affrontare, volenti o nolenti, ciò che stiamo permettendo, senza renderci conto dei possibili rischi, e ciò che altri, in altri luoghi, in altri tempi, hanno permesso e hanno perpetrato.
Solvent non offre risposte. Siamo noi che, uscendo dal cinema, dobbiamo trovarle.
STEPPENWOLF
Cos’è disposto a fare un lupo per il suo branco? Trovare un cucciolo scomparso (forse).
Brayuk, il “lupo della steppa” che dà il titolo all’opera del prolifico regista kazako Adilkhan Yerzhanov (15 film in 12 anni) è il sadico torturatore con gli occhiali da sole a forma di cuore rosso che la corrotta polizia assolda per costringere i prigionieri a confessare. Il suo branco è ridotto alla sola Tamara, una Madonna dalla pietà e dalla tolleranza alle umiliazioni infinite, una sorta di Santa che neppure i proiettili riescono a colpire o fermare, oltre che giovane affetta da una disabilità intellettiva (o forse traumatizzata da ciò che ha visto e subìto), alla ricerca del suo Timka, sparito durante gli scontri mentre dondolava sull’altalena. Dopo essere sopravvissuto all’assalto dei rivoltosi alla caserma di polizia dove si dilettava a tranciare dita con un ventilatore, il Lupo parte con Tamara alla ricerca del figlio, non prima di essersi fatto promettere un compenso in denaro. Inizia così il viaggio della strana coppia, in un Kazakistan pressoché disabitato e ormai sull’orlo della guerra civile, una sorta di Mad Max in salsa centro-asiatica: quanto più l’uomo è un anti eroe gretto, sgradevole, volgare, violento, lontanissimo dall’eroe senza macchia e senza paura che salva la fanciulla in pericolo, tanto più la donna appare la quintessenza della dolcezza e della purezza, di cui la società avrebbe tanto bisogno. Via via che la storia si dipana, i due personaggi iniziano ad assomigliare sempre più l’uno all’altro e ad aprirsi vicendevolmente; se per Brayuk si tratta ormai dell’ultima opportunità di riscattare una vita spesa male e di vendicare la famiglia trucidata dal signore del crimine Taha che ha rapito lo stesso Timka, per Tamara il viaggio si trasfigura nella ricerca di un significato “altro”, che vada al di là della materialità e che fornisca una spiegazione alla sua sofferenza e a quella degli “agnellini” a cui la donna chiede perdono, pregando, quando si imbatte in un cadavere o Brayuk uccide qualcuno. In poche parole, nella ricerca di Dio, come se le immense distese della steppa fossero pervase da un senso mistico che riscatta ogni possibile bruttura si possa incontrare e subire su questa terra, in un afflato religioso accomunabile a quello di Tarkovskij ne Lo specchio. Entrambi i personaggi sono esseri umani piegati da un destino crudele e imperscrutabile, che trovano consolazione in due elementi diametralmente opposti - nella violenza, il primo, nell’amore pietoso per ogni creatura, la seconda. In tutta la vicenda, gli uomini vengono presentati come crudeli e corrotti, poiché sono stati allevati da adulti altrettanto tossici e feroci (Brayuk, durante la visita alla casa natale, lascia intendere di essere stato abusato dal padre e di non averlo ucciso solo per non far soffrire la madre). Dal momento che questi detengono il potere, hanno plasmato una società a loro immagine e somiglianza. Sono le donne, a cui vengono attribuite tutte le qualità positive della dedizione agli altri, della resilienza, della pacatezza, l’unica possibilità, attraverso la cura di una nuova generazione di figli, di ingentilimento del mondo, ormai sul baratro della disfatta completa.
Questa favola nera di sangue e redenzione è brutale, tesa, nichilista ma qua e là brilla un barlume di speranza, oltre che una sotterranea ironia grottesca che alleggerisce ogni tanto la cupezza del racconto. Dal punto di vista stilistico, la pellicola è forse l’opera più matura di Adilkhan Yerzhanov, che riesce a mescolare sapientemente generi diversi (western, road movie, commedia nera, thriller), recuperando e rendendo propria la lezione dei maestri del passato (uno per tutti, il John Ford di Sentieri selvaggi), il tutto accompagnato da una colonna sonora synth anni ’80, che si sposa perfettamente con l’atmosfera allucinata del film. Tutto, dai protagonisti, ai colori sbiaditi dell’ambiente circostante, alle scelte stilistiche, fino al design dei costumi, concorre a creare una distopia, lontana forse geograficamente ma estremamente vivida e realistica.
Distanti anni luce dalla violenza estetizzata ed edulcorata di John Wick, in un mondo dove homo homini lupus, qualcuno è un po’ meno lupo degli altri.
SO UNREAL