24.5.23

"Simulacrum" e altri corti da vedere, alcuni davvero bellissimi (o anche la serata a Firenze da un insopportabile Nencioni che, se non andavi, non ti parlava mai più)

 


Vorrei inoltrare alcuni audio (quella cosa che voi chiamate "note vocali") minatori del Nencioni, audio violentissimi verbalmente in cui, in mezzo ad offese varie, ti intimava che se non ti facevi questi 280 km solo per vedere il suo corto, ecco, lui non ti parlava più, non veniva più a nessun raduno, non portava più cose sue da vedere etcetera etcetera.
A niente serviva dirgli "ma sono solo, mi mette pensiero fare questo viaggio e ripartire la notte", no, se non andavi sei un mostro, un ingrato, un pezzo di merda o, come mi pare abbia detto lui (conosco il fiorentino ma non completamente) un "bandone".
Poi però trovi la compagnia di tuo fratello e di un altro amico e vai, a dargli questo scacco morale che gli rinfaccerai per tutta la vita, te che ha già recensito 3 suoi film, te che al raduno hai fatto vedere le sue cose, te che parli sempre di lui e lo pubblicizzi, te che sei anche andato a Firenze a presentargli un'anteprima, te che, qualsiasi cosa hai fatto per lui (più di qualsiasi altro) rimani sempre uno stronzo se poi una non riesci a farne una.
Quindi siam partiti, trovando una coda di un'ora in autostrada e tornando a casa (o almeno io) quasi alle 3 di notte.
La fregatura, la grossa fregatura, è che la serata è stata davvero bella bella e il livello dei corti molto alto (credo di aver visto circa 8 rassegne o festival di corti e quelli di questa serata sono, come media, al primo o al secondo posto), insomma, manco a potergli dire "mi hai fatto fare tutti sti km per dei corti di merda".
No, super belli.
E la serata (in un centro sociale comunista fino al midollo) era organizzata benissimo.
E la gente tantissima.
Insomma, mi sta così sulle palle il Nencioni che vorrei parlar male ma niente, non trovo difetti.

Andando ai corti me ne sono piaciuti soprattutto 4.
E' giusto ricordare però anche gli altri due, uno è Love Story della giovanissimissima Beatrice Fin (quando ho saputo l'età mi son detto "allora cavolo, complimentissimi!"), un corto davvero ben fotografato, con un'attrice principale molto brava e che, alla fine, è metafora dell'amore, della ricerca di esso e di quanto da questa ricerca cerchiamo noi stessi nutrimento (non uso la parola a caso...).

(Tra l'altro malgrado il cognome della regista questo corto ci è stato presentato per primo, mah...)


L'altro è Astronomo di Giulio Melani (con l'attore feticcio di Nencioni, Giacomo Dominici).
Un corto "da Mubi", molto lento e strizzante l'occhio al cinema contemplativo.
Bellissimi campi lunghi (anzi lunghissimi) di montagne e terra brulla per la storia minima di un pittore e del suo cavalletto.
Forse (sempre se il regista ne aveva uno in mente) un pò arduo capire il senso dell'opera ma chi ama la fotografia lo apprezzerà molto.


Per gusti personali metto questi due corti sotto agli altri ma, insomma, un applauso lo stesso.

Degli altri 4 uno ne avevo già visto, ovvero Tiny Matters della dolcissima Guendalina Vannini.
Rivederlo è stato ancora più bello.
Girato con la sempre magnifica tecnica della stop motion (fluida, perfetta, professionale) Tiny Matters è un corto divertente e anche dolcissimo (per tornare alla regista), senza alcuna profondità, senza nessun messaggio ma con un'ironia e una grazia rari.
Delle monete che vogliono scappare dal famelico borsellino, due gruppi di dadi che, come fossero due gang, si sfidano a chi è più potente e un bicchiere che trova la sua anima gemella in una brocca d'acqua.
Davvero sorprendente come con questi pochi oggetti e con un uso perfetto dei suoni si sia potuto raggiungere un gioiellino così divertente e, a suo modo, poetico.



(ah, questo potete anche vederlo, è su Vimeo!!)

Un altro gran bel corto è Blu, dell'amico Tommaso Ferrero (me l'aveva già mandato quasi due anni fa ma io niente, ancora non l'avevo visto. Il fatto è che sapevo che dopo due anni Nencioni avrebbe organizzato sta serata).
Blu è una specie di one man show di uno straordinario giovane attore, Alberto Fumagalli, capace di sdoppiarsi in 6 diversi ruoli mantenendo sempre un livello altissimo di recitazione (paradossalmente l'ultimo frammento, con lui "nudo" e "senza ruolo" è addirittura il più bello, questo per far capire quanto abbia talento).
Questo è un corto in cui bisogna arrivare alla fine per poter darne un senso, in un finale talmente "perfetto" per cui anche tutte le cose che fino a quel momento ti avevano fatto storcere un pochino il naso (frammenti troppo lunghi e apparentemente nessuna coerenza narrativa) finalmente puoi rileggerle e capirle.
Ottimi alcuni frammenti, meno ottimi altri, regia e fotografia di altissimo livello, alcune trovate super (lo sparo che sembra finire nel sugo dello stufato, ad esempio, ma anche tutte quelle istantanee su sfondo bianco a cui dover dare un significato) per un corto rapsodico che, come dicevo, svela la sua anima solo nel finale.
E quel monologo finale, col Fumagalli adesso nudo, vero, "senza ruolo", puro, che ci dà una chiave di lettura a tutto quello che abbiamo visto, a questo nostro sempre nasconderci dietro a delle maschere facendoci perdere la nostra autenticità, è qualcosa di eccezionale, e molto emozionante.
E quel confronto col camaleonte che, mimetizzandosi, viene considerato codardo quando invece, quando lo fa, è perchè "non riesce a fare a meno di emozionarsi" è, se posso permettermi, da pelle d'oca.


Arriviamo poi al Main Event della serata, il corto del Nencioni, Simulacrum.
Ammetto che l'avevo già visto in privato (grazie Alessio) e, alla seconda visione, confermo l'assoluto livello.
Siamo in un'atmosfera post apocalittica, post atomica e direi pure post umana (non nel senso filosofico del termine, ben diverso, ma in questa sensazione di "uomo dopo l'uomo", come se i nostri ossi di seppia ci facciano tornare ad un livello primordiale ed animale).
Il corto richiama molto il precedente nencioniano Zolfo (sia per l'ambientazione, che per il malsano che per le stille luciferine che emana) ma è senz'altro un passo in avanti e ben più ambizioso.
Difficile capirlo, abbiamo sicuramente un manipolo di uomini "sopravvissuti" a qualche Apocalisse (molto probabilmente atomica) legato ancora in qualche modo alla tecnologia.
Uno di questi 3 sarà circuito da una specie di Sacerdotessa che lo ammalierà, cercando di portarlo in una simbolica caverna di perdizione. Caverna che sembra però anche l'ingresso ad un mondo ancora più animale e regredito dove, alla The Descent, vivono esseri umani ormai simili a bestie (difficile capire se sono lo stadio precedente o quello successivo all'altro gruppetto di sopravvissuti).
E niente, location favolose, gran bianco e nero, facce una più top dell'altra (ma da sempre il Nencioni è maestro di facce) per un corto malato, cupo, simbolico e interessantissimo per come unisce questa sensazione di umanità allo stato brado con dei neonosi (al neon) rimasugli di tecnologia.



Forse però il corto che più mi ha colpito è "Parabola di Fera Inferi" di Federico Ghillino.
C'è da dire che il lavoro di Ghillino, a ben vedere, è cosa ben diversa dagli altri.
Non parliamo di un vero e proprio corto ma di una specie di serie suddivisa in 16 brevissimi estratti (noi ne abbiamo visti soli due).
Serie che, insieme al libro da cui è tratta - dello stesso Ghillino - , potete trovare da acquistare.
Insomma, difficile parlare di un qualcosa di cui hai visto solo "un/ottavo" e difficile comparare questo progetto a dei corti fatti e finiti come tutti quelli sopra.
Eppure sti poco più di 4 minuti di immagini mi son sembrati straordinari.
Difficile spiegare quello che abbiamo davanti.
In una tecnica apparentemente poverissima (sembra di trovarci davanti ad un programma da Commodore 64) fatta di split screen, scritte in sovrimpressione di tutto quello che ascoltiamo in voice off, effetti computerizzati volutamente scarsissimi, piccoli riquadri che si inseriscono e tante altre cose che, come queste qua sopra, non sono in grado di farvi capire, Ghillino riesce a tirar fuori un prodotto "nuovo", talmente informe che poi capisci quanto invece sia eccezionale nella forma e, soprattutto, mette dentro questo bellissimo pastrocchio visivo un testo della madonna, poetico, intenso, profondo, recitato dalla voce fuori campo in maniera velocissima, tutto a renderlo ancora più straniante.
Non so di cosa parlerà tutto il progetto ma in questi primi due frammenti Ghillino riesce in pochissimi secondi a farti sentire il disagio dell'adolescente Fera Inferi (tra l'altro interpretata da un uomo, forse lo stesso Ghillino, ma non ne sono sicuro), a farti capire la disfunzionalità della sua famiglia, a raccontare in modo crudo ed emozionante allo stesso tempo il mondo della scuola, dei suoi disagi, delle sue cattiverie.
Quattro minuti vorticosi, a 100 all'ora, in cui le parole ti entrano in testa e negli occhi, lasciandoti la sensazione di perderti ma anche quella, paradossalmente, di poter afferrare tutto il senso delle cose.
Straordinario


22.5.23

Recensione: "Suzume" - Anime e Core, la grande passione per l'animazione giapponese - 17- di Enrico G.



Torna la rubrica sugli Anime del nostro Enrico!
L'abbiamo organizzata al volo perché domani e dopodomani, il 23 e il 24, torneranno al cinema (ma solo per quei due giorni) due film del maestro Makoto Shinkai, Il Giardino Delle Parole e Your Name.
E allora Enrico ha pensato di recensire l'ultimo film di Shinkai, Suzume (tra l'altro ancora presente in qualche sala) sia per farvi conoscere quest'ultima fatica che per avvertirvi di questa doppia occasione al cinema

vi lascio alla recensione!



Odiato, amato, finalmente al cinema è arrivato il nuovo film di Makoto Shinkai. Incredibile, per chi lo ricorda ancora come quel giovane sconosciuto, esordiente una ventina di anni fa con quel meraviglioso corto che si chiama “Lei e il suo gatto” (e vedendo Suzume, direi che certi concetti ti rimangono per tutta la vita). Oggi i suoi progetti ricevono la pompa di evento cinematografico anime dell’anno, che le critiche dei suoi innumerevoli detrattori non fanno che accrescere. E attenzione, non sono adattamenti di un manga di lunga pubblicazione, o tasselli di grandi proprietà intellettuali: sono solo i film di Makoto Shinkai, l’ennesima storia di un Giappone collettivamente ferito, di esseri umani dolci e sofferenti, della Natura divina, tremenda, imprevedibile, eppure splendida.

Spoiler sempre maggiori dopo ogni immagine.


Ultimamente è un piacere andare al cinema per l’animazione: c’è stato Suzume, l’anniversario di Akira, persino nello scialbo 2022 abbiamo ricevuto Belle in sala. Almeno si può contare sul Giappone, oltre che gli indipendenti e studi europei, perché l’animazione dei grandi numeri americana ormai è al collasso qualitativo - sperando per il sequel di Into the Spiderverse, e con le dovute eccezioni, il secondo Gatto con gli Stivali era fenomenale - oltre che totalmente computerizzata. Ecco, anche nel film di Hosoda c’erano una ragazzina “risvegliata” improvvisamente nel nostro mondo, e un trauma legato alla madre. Qui però le similitudini si fermano, perché i due autori hanno una poetica totalmente diversa. E lo ammetto, nonostante consideri Belle alla stregua di un capolavoro, con quella di Shinkai mi identifico immensamente di più. È una gioia ritrovare un regista che mi ha formato, e mai ho smesso di sentirlo mio, anche adesso che tutto il mondo lo guarda. Anzi, in merito a cose piacevoli, meno male che gli appassionati di anime non sono più una nicchia manco in Italia; meno male che gli anime ormai li seguono un po’ tutte le età come in Giappone, e al cinema possono essere mandati come film normali, e non eventi da tre giorni in orari impossibili.

12.5.23

Recensione: "The Menu" - Quattro horror in quattro giorni - 3 - Su Disney Plus

 

Terzo film di questa "quattro giorni" di horror in climax ascendente di valore.
The Menu è un film che è stato criticatissimo e io fatico a capire perchè (in realtà lo sospetto, è stato talmente pubblicizzato che poi è finito nelle fauci del pubblico che non sopporta i film di cui parlano tutti).
Io l'ho trovato divertente, originalissimo, ben girato, cinico, perfettamente riuscito.

Un ristorante di altissimo livello in un'isola sperduta.
"Un'ultima cena" per lo chef Slowik.
Una serata che diventerà sempre più terribile per tutti gli invitati.
Un altro film, come Il Cigno Nero, come Whiplash, sulla ricerca della Perfezione.
Che poi un film con Fiennes e Anya è bello in partenza su.

PRESENTI SPOILER

Ma che vi ha fatto The Menu?
No, ditemelo.
Sono come al solito arrivato alla visione senza leggere commenti, recensioni, trama, niente.
Eppure ero reduce da mesi in cui mi comparivano davanti "quanto è brutto", "ridicolo" etc...
Ora... capisco che un film di cui tutti parlano e che vi compare 50 volte in home page lo odiate a prescindere ma, veramente, questo sarebbe un pessimo film?
The Menu è originale, "divertente", cattivo, nuovo, affascinantissimo per location e sviluppi.
Suvvia, come direbbero i saggi.

Una decina di ricconi e/o personaggi famosi vanno in una piccola isola dove ha un ristorante (e vive persino) Julian Slowik, straordinario chef, molto eccentrico.
Pensano di andare a godersi una straordinaria serata (del costo di migliaia di dollari) e mangiare cibo eccezionale.
Si sbaglieranno, per Slowik e il suo staff questa cena è molto di più che un semplice servizio.
E' LA cena.

The Menu (che ho visto ben due volte sia perchè lo ricordavo poco che per piacere personale) è uno dei film mainstream più originali che mi sia capitato di vedere questi ultimi anni.
Una commedia nera, un horror pieno di umorismo, un film satirico, tante cose insieme.
Una geniale declinazione di uno dei sottogeneri che più amo, quello delle sette.
Tutto poggia sullo straordinario personaggio di Fiennes, chef stellato, anticonformista e geniale arrivato ad un tale punto di consapevolezza (o, guardando la cosa dalll'altro lato della madaglia, ad una tale pazzia) da decidere che quella cena sia L'ULTIMA cena.
L'ultima cena sua, di tutto il suo staff (una ventina di ragazzi che lo idolatra e che, proprio come una setta, è contento di morire per lui quella sera) e di tutti gli invitati alla cena, accuratamente selezionati dallo stesso Slowik.
Ci sono persone che lo hanno rovinato nel lavoro come la critica Bloom (forse uno de 2/3 personaggi più riusciti) accompagnata dal suo leccaculissimo amico (i loro dialoghi sono tra i migliori del film), alcuni che invece quel suo lavoro non lo apprezzano come dovrebbero come la coppia di miliardari che è venuta 10 volte in quel ristorante senza ricordarsi un solo piatto, ci sono 3 giovani arrivisti legati al proprietario del ristorante e persino un attore che ha la sola colpa di essere il personaggio principale di un orribile film che Slowik ha visto nel suo unico giorno libero dal lavoro.
E poi c'è la nostra coppia protagonista, che differisce dagli altri.
Perchè lui, Tyler (personaggio insopportabile e apparentemente non credibile ma in realtà, come si svela nel finale, un vero malato di mente che addirittura sapeva di andare a morire) adora Slowik con tutto sè stesso (l'unico là dentro) e lei, Margot, è l'unica che non doveva essere presente (ha sostituito l'ultima ragazza di Tyler).
Ma anche Tyler, per Slowik, è uno che merita di morire perchè perfetto esempio di quelle marionette idolatranti e saccenti che poi, in realtà, di cucina capiscono nulla.
In questo senso la scena in cui Slowik lo costringe a cucinare, umiliandolo, è una delle più belle del film (ma sono tante).

11.5.23

Recensione: "Smile" (2022) - Quattro horror in quattro giorni - 2 -

 


Dopo l'ultimo capitolo de La Casa saliamo notevolmente di livello.
Smile è un horror da sala davvero "perfetto" vista l'eccellente confezione estetica (piena di ottimi e suggestivi movimenti di macchina), la sapiente costruzione delle scene di spavento (anche i vituperati jumpscares sono di livello), l'idea semplice ma inquietante di quei "sorrisi".
Tutte caratteristiche che fanno di Smile un buonissimo prodotto da cinema, come dicevamo.
Eppure il film tenta di andare anche oltre con un sottotesto molto importante e con una carica metaforica (forse un pelo troppo esplicita) non banale, tanto da potercelo far inserire in quel filone di horror simbolici che tanto amo, quello che ci ha dato capolavori come Babadook, grandi film come It Follows, perle nascoste come Relic o recenti sorpresissime italiane come Piove.
Un film che racconta di disturbi post traumatici e di sensi di colpa, forse mischiando in maniera non del tutto coerente le due cose.
Non siamo nemmeno vicini al parlare di un capolavoro ma, se gli horror distribuiti in sala fossero tutti come Smile, saremmo tutti più contenti.


 Quanto era stata forte la delusione con La Casa tanto forte è stata la sorpresa con questo Smile, horror di cui mi era capitato per sbaglio di vedere il trailer e, mamma mia, mi sembrava orribile.
E invece mi sono ritrovato davanti ad uno dei migliori recenti film del terrore mainstream, uno che fa il suo dovere alla grande sia con gli spaventi, la confezione perfetta e tutto quello che serve agli horror di sala, ma che si eleva dagli altri prodotti da catena da montaggio grazie al tentativo - direi abbastanza riuscito - di portare tematiche e giocare sul piano metaforico, un pò il mondo insomma che questi anni ci ha regalato capolavori come Babadook, grandi film iconici come It Follows e anche piccole perle nascoste da recuperare come Relic.

Smile, innanzitutto, è un film con una grande regia, di grande classe ed esteticamente notevole.
Basterebbe solo la prima inquadratura che parte dal volto della madre morta, si ribalta e poi senza stacchi illustra tutta la stanza fino ad arrivare alla figlia sulla soglia per renderci conto di trovarci davanti ad un pregevole lavoro (ricorda l'incipit di Midsommar, anche se molto più corto e, ovviamente, una spanna sotto quel formidabile inizio del film di Aster).
Ma anche la successiva God's eyes view che poi entra dentro l'ospedale o la città capovolta di poco dopo (questo capovolgimento lo vedremo 3/4 volte, sempre notevole) ci danno la conferma di avere davanti un horror che ha dietro una mano di gran gusto e che non si limita mai al compitino.
Secondo punto di forza del film è la perfetta costruzione delle scene spaventose.
La prima, il suicidio della giovane ragazza davanti alla nostra protagonista psichiatra, è un mezzo capolavoro per ritmo e resa visiva, oltre ad essere veramente disturbante.
Ma più volte Smile riuscirà a farci provare piccoli brividi come nella scena di quella ragazza che ride al compleanno mentre tutti sono scioccati (forse best scene), come quel "collo slogato" della sorella di Rose, come il video di sorveglianza del suicidio al distributore o la faccia martellata del professore morto.



In generale poi l'idea, banale ma vincente, di quei sorrisi funziona alla grande, sono veramente sempre molto inquietanti (io avevo un vago ricordo del trailer e mi sembrava che quei sorrisi fossero in CGI, per fortuna nel film sono invece assolutamente reali).
Quindi buonissima regia, scene di spavento ottimamente costruite e di grande resa.
Poi?
Ecco, poi Smile cerca di andare un filo oltre, anche riuscendoci.
Impossibile non pensare al sopracitato It Follows, per via della "trasmissione" della malattia/maledizione.
Ma, in questo caso, la metafora è diversa.
Il mostro che si passano le persone si nutre di "traumi".
Ogni persona che lo prende con sè, infatti, nel suo passato ha vissuto dei tremendi shock, quasi sempre (o addirittura sempre) la morte di un proprio parente (e ogni volta erano unici testimoni della cosa).
In futuro queste persone saranno come "destinate" a vivere un altro shock, il suicidio di una persona sconosciuta davanti ai loro occhi (persona che si ucciderà con un inquietante sorriso, quello di chi, ormai posseduto, sembra felice di cedere la maledizione in cambio della propria morte).
Una volta assistito a questo secondo trauma saranno loro stessi a contrarre la maledizione e, entro pochi giorni, "dovranno" suicidarsi a loro volta davanti un altro testimone (sempre persone "prescelte" però, ovvero persone che nel passato hanno subito uno shock incredibile).
E così via (speriamo di essermi spiegato...).

Smile diventa così un film su quei traumi che non riusciamo più ad abbandonare, talmente non eradicabili che ci accompagneranno fino alla pazzia e alla morte autoinflitta.
Questo mostro si nutre quindi di paure, shock.
Eppure nel finale (che ricorda tantissimo un film stupendo e sconosciuto come A Dark Song) Smile prende -  e non si capisce se sia un errore o una confusione - un'altra strada, ovvero quello del senso di colpa.
Rose non solo assistette alla morte terribile della madre ma non fece niente per aiutarla, pur potendolo fare.
Questo perchè talmente scioccata e psicologicamente distrutta dal vivere con quella madre eroinomane da non avere la lucidità per reagire.
E quindi quel mostro nel finale prenderà le sembianze della madre, facendogli così affrontare una volte per tutte quel trauma e quel senso di colpa.
(Tra l'altro mostro davvero notevole.)
Però, e qui ho le mie perplessità, nelle altre morti del passato che ci raccontano nel film non percepiamo mai questa faccenda del senso di colpa.
Semplicemente sappiamo di nonni morti davanti ai nipoti, mogli davanti ai mariti etc.., tutti traumi devastanti ma che mai (o almeno non ci viene detto) hanno a che fare con la "colpevolezza" di chi assistette alla loro morte.
Ecco quindi che nel finale di Smile si crea questa duplicità di interpretazioni (il mostro si nutre di shock o di senso di colpa? o di entrambi?) che mi ha messo leggera confusione e mi è sembrato tanto un mezzo errore di sceneggiatura.


Però - e anche qui grande plauso al film perchè di solito non accade - Smile ha il "coraggio" di andare fino in fondo e regalarci un finale cattivissimo e doloroso.
Come se da quei traumi alla fine non se ne esca mai, come se quei sensi di colpa, anche quando trovi il coraggio di affrontarli, anche quando decidi di combattere quel mostro che ti mangia vivo, ne esci comunque sconfitto, sono destinati ad ucciderti.
Un finale ancora più coraggioso di quello già non consolatorio di Babadook (dove vediamo che si può continuare a vivere tenendo i nostri mostri "al sicuro", in cantina).

Per quanto mi riguarda la penso come Babadook.
Ogni nostro trauma, ogni nostro senso di colpa può essere affrontato e sconfitto.
E possiamo essere felici, possiamo vivere.
Sapendo che quel mostro è laggiù, in cantina.
Sapendo che in fondo in fondo resterà sempre nelle cantine della nostra psiche.
Ma, adesso, siamo noi a dominarlo

7 / 7.5

10.5.23

Recensioni: "La Casa - Il Risveglio del Male" - Quattro Horror in quattro giorni - 1 -

 

Quest'ultimo mese ho visto 4 horror (anche se solo due ci rientrano con tutte le scarpe, gli altri sono ibridi).
Purtroppo è passato tanto tempo dalla visione di tutti e 4 ma ho deciso comunque di scrivere qualche riga per ognuno (solo meglio per voi, avrete recensioni più brevi).
Così per quattro giorni ne posterò uno al giorno, partendo dal più "brutto" fino ad arrivare al migliore.
Cominciamo con l'ultimo capitolo della saga di Evil Dead.
Qui oltre alla delusione c'è anche una mezza incazzatura.
Perchè considero questo "La Casa - Il Risveglio del Male" una vera occasione buttata.
Un grande incipit (primi 30 secondi geniali), una eccezionale scelta di location (un mega palazzo fatiscente alla The Raid) e dei personaggi che presupponevano profondità ed empatia per un film che, però, più va avanti più svacca, più si rende poco credibile (una cosa poi è inaccettabile), più flirta ogni tanto con l'umorismo smontando tutta l'atmosfera, più trasforma in un horror puro, sanguinolento e spaventoso un'impalcatura che sembrava portarlo ad ambizioni molto più alte e di classe.
Per quanto mi riguarda lontano anche dal remake (davvero buono) di Fede Alvarez.


 Il primo La Casa è nettamente il film più iconico della mia infanzia/adolescenza, forse il primo horror "spaventoso" che vidi da bambino (in vhs noleggiato) e quello più volte visto coi miei fratelli e amici.
Un film unico, fatto col nulla, a suo modo straordinario (anche oggi regge bene).
Poi venne La Casa 2, bellissimo anche quello anche se un pò più cazzone.
E poi L'Armata delle tenebre, lui sì cazzonissimo (ma stupendo).
Una trilogia perfetta, una di quelle che non ne toglieresti manco uno.
Poi c'è stato il remake (o reboot? ora non ricordo) di Fede Alvarez che mi piacque davvero tanto tanto, specialmente per l'estetica, per la sua cattiveria e "malattia".
Ora, dopo un bel pò d'anni, ecco questo ultimo capitolo.
Che poi il titolo originale, Evil Dead, in realtà nemmeno fa riferimento a "case" varie.
Ecco che quindi, paradossalmente, il titolo italiano (che ha voluto mantenere quello di "franchise" de "La Casa") si è "ritrovato" (ma davvero per puro caso) perfettamente calzante in quest'ultimo film, visto quanto l'abitazione la faccia da protagonista, anzi, sia forse la cosa migliore del film.
Film che, ammetto, comincia in maniera super, geniale.
Abbiamo subito l'indimenticabile soggettiva dei primi due film, quella velocissima del "Male" che si avvicina.
Ma poi, con grande sorpresa, scopriamo che è semplicemente un drone con cui si stanno divertendo dei ragazzi.
Davvero un modo straordinario per portare ai nostri giorni quel celeberrimo movimento di macchina.
In realtà tutto l'incipit è buono, così alla luce del sole, così cattivo, così bello visivamente, con quel riferimento al primo film (lei posseduta che conosce le parole del libro come allora la prima posseduta conosceva le carte che venivano girate) con quel titolo iniziale che esplode in quella maniera.
Top.
E anche quel "Un giorno prima" rende tutto ancora più bello, del tipo "come cazzo arriveremo a quello chalet sul lago con una già posseduta?".
E si va ancora avanti bene con quello straordinario palazzo fatiscente che già da fuori richiama The Raid e la conoscenza di quella famiglia così casinara, così confusa e vitale (mi sembrava la vita di casa Armellini nella mia infanzia, lotte, divertimento, casini, quell'aria disfunzionale "positiva").
Ecco, da qui in poi non dico che sarà un disastro ma qualcosa che gli somiglia.
Sicuramente questo ultimo Evil Dead è da premiare per la superba location, per l'idea "difficile" di ritrovarsi bloccati dentro un appartamento, per quell'aria malata che viene dalle stesse pareti.
E anche per una discreta caratterizzazione dei personaggi, una mamma con tre figli e sua sorella che torna a trovarla perchè in grandissima difficoltà.
Il problema di questo film è che è davvero mal scritto, è piano di scene quasi improponibili, non è sicuro che strada prendere (sembra drammatico, doloroso e cattivo ma mette dentro delle sfumature quasi comiche francamente terribili) e ha un problema ancora più gigantesco di cui parleremo poi.
(ah, a chi mi dice "anche gli altri Evil Dead avevano sfumature comiche ricordo che il primo non ne ha, il secondo è un perfetto mix tra horror e comico e il terzo è soltanto divertente. Questo invece è puramente drammatico e horrorifico e usa l'ironia giusto 3/4 volte, facendo un vero e proprio disastro ogni volta).

La sequenza turning point, quella del caveau sotterraneo, è un disastro di logica e costruzione.
Da lì in poi ci troveremo a un continuo "what the fuck?", una sequela di scene gratuite o mal costruite e comportamenti di impressionante inverosimiglianza.
E' proprio qui il difetto più grande di Evil Dead Rise, ovvero nel costruire delle fondamenta apparentemente molto solide sulla costruzione dei personaggi e sui loro rapporti e poi diventare un disastro proprio in quell'aspetto.


E' inaccettabile per lo spettatore, soprattutto per quelli che, come me, stavano cercando di trovare empatia per quella famiglia (quasi riuscendoci...) vedere per tutto il film questo branco di fratelli, sorelle e zie che continua a trattare la madre (o sorella) in modo "umano".
Volto da mostro, comportamenti da mostro, voce da mostro, resurrezione dopo MORTA, omicidi, lei che vola e si attacca al soffitto, una decina di eventi paranormali devastanti e questi figli che continuano a dirle: "Mamma, che succede? STAI BENE??".
Ma porco D.. !
L'ho accettato la prima volta, la seconda, non la terza e andando avanti.
Un film con una buona idea, un grande inizio, una superba location, dei rapporti credibili, che diventa poi una continua macchietta, che fa diventare quei personaggi così belli delle figurine decerebrate.
Può comunque essere divertente visto quanto sangue e mostruosità accadono (belle le scene della padella con le uova, dell'ascensore che la impicca, dell'arrivo del Male al palazzo, anche quello della citazione a Shining del mare di sangue) ma un film nato benissimo, proseguito bene e con mille potenzialità per diventare un grande titolo d'autore si trasforma in un horror stupido, banale, disastroso quando si fa comico (l'occhio in bocca, la madre che sceglie la vittima col ditino) mandando letteralmente affanculo tutte le possibilità che aveva per essere credibile, "secco", profondo pure.
Peccato, se fin dall'inizio fosse stato così l'avrei anche apprezzato, ma un crollo così vertiginoso non mi è andato giù

5.5

4.5.23

Comparazioni tra Joker/Freaks Out - Anime Nere/A Chiara - La persona peggiore del mono/Thelma - A Luci accese (divagazioni illuminate) - 4 -di Nicola C.

 


Finalmente un altro pezzo dell'amico Nicola.
Un pezzone.
Nicola mette in comparazione - in tre diverse "coppie" - sei bellissimi film (io ne ho visti 5 e amati tutti, uno più bello dell'altro).
Prima analizza le due figure del Joker di Phoenix e di Franz (Freaks Out).
Poi ci parla di due grandi film italiani, A Chiara (mezzo capolavoro) e Anime Nere.
Poi confronta due film di uno dei migliori registi europei emergenti, Joachim Trier.
I due film, anche questi imperdibili, sono La Persona peggiore del mondo e Thelma.
Starà a voi scoprire come e perchè Nicola ha creato queste tre coppie.


N° 7 JOKER E FRANZ (DI FREAKS OUT) – DUE MASCHERE AGLI ANTIPODI

 

“Siamo la Mont Blanc con cui ti faccio fuori
Siamo la risata dentro al tunnel degli orrori”


Se i pensieri avessero una colonna sonora questa qui di Ligabue adesso sarebbe perfetta.

Le osservazioni riguardo Franz e Joker su cui non ho potuto evitare di cimentarmi maturano da un debito intellettuale (ma anche, diciamo così, emotivo) con le analisi sempre illuminanti in cui ci si imbatte nel Blog, dove è impossibile non essere catturati dalla suggestione di una visione nuova, comunque diversa da quella che si aveva prima. Dico diversa nel senso che ti accorgi che ogni cosa avessi avuto in mente ormai non basta più e andare oltre è lo stimolo che feconda una necessità: quella dei viaggi dello sguardo interiore che altrimenti non avresti fatto e che ti conducono verso la tua parte migliore. Questo è successo grosso modo ogni volta che ho letto le recensioni del Buio (da cui nascono la maggior parte delle cose presenti in questo spazio) come risultato di un dialogo spontaneo, perché sarebbe stato impossibile convivere con gli innumerevoli sospesi sollecitati dalla profondità del contenuto e del linguaggio.

Le risposte che di volta in volta mi sono dato sono diventate altrettante parti qui pubblicate, insieme ad altre volente o nolente avvinte da quelle stesse suggestioni.

Quando nella recensione di Freaks out ho visto accostati Franz e Joker da Giuseppe, non ho potuto fare a meno di seguire quell’iperbole, trattandosi non solo di due personaggi ma di due “topos” del dramma contemporaneo. Approfondire per comparazione singoli aspetti o personaggi (come in questo caso) di un film è un esercizio che consente la lettura trasversale dei diversi piani del "testo", fino a dilatarne parti che possono divenire un discorso in sé.

Franz e Joker, quindi.
Due maschere condannate all’emarginazione perché il fallimento è reietto.
Il successo è lo status dominante.
Ma il disprezzo tradito dalle sue maschere rassicuranti trafigge l’anima.

Il ghigno di Joker è controcampo al sorriso di ogni melliflua benevolenza, ma anche e soprattutto all’insolenza con cui è inflitta la propria immagine vincente, tale perché sempre dal lato giusto dei muri invisibili dell’esclusione. E infine della smorfia di dolore e rabbia che è impossibile trattenere. Una maschera che si rivolge alle espressioni più civili del disumano, di cui si arrogano le persone ammodo nei gesti politicamente corretti in cui si compiace l’indifferenza. La crudeltà di Joker ci sbatte dall'altra parte di quel sorriso, conducendoci alle estreme conseguenze delle crescenti sfumature dell'isolamento. Una società  che non pratica apertamente la violenza soltanto perché preferisce delegarla dove, forte della propria invisibilità, può colpire fino in fondo mentre si è impegnati a fabbricare giustificazioni morali.  La maschera di Joker mostra chi e' quell'uomo se solo perseguisse fino alla fine la propria mostruosità, infliggendola a sua volta come uno specchio in cui è riflessa tutta la crudeltà della Storia. Il paradosso di Joker risiede proprio nella purezza della propria follia che ne rende l’aspetto più autentico di quanto ci sia dietro qualsiasi maschera.

E proprio in questo Franz e Joker rappresentano cose molto diverse.
Franz non  è non e' nulla di quanto detto fin qui.



Egli incarna l'impotenza patologica dell'uomo forte, l'anima infantile che è sempre all'origine del potere e della sua capricciosa ostinazione (di cui in troppi portano i segni sulla pelle finché non diventi scorza). I suoi caratteri sono ovunque marcati dall'isteria: quando fracassa la testa dell'uomo con le branchie (per il fallito esperimento) e' il bambino deluso e infuriato che distrugge il proprio giocattolo difettoso. E’ perennemente schiacciato dalla frustrazione delle proprie aspettative: anche lui patisce un’esclusione impietosa ma ad essa offre l’ostinata obbedienza in cerca di riabilitazione, fino a cadere nella grottesca cecità di chi ha negato se stesso. Franz amputa di sé l'unica parte che ne sospendeva la disumanità, perché nel suo mondo (il nazionalsocialismo) ha solo questa per essere accettato e redimere il proprio fallimento. Matilde è quel mondo affettivo che gli è ormai precluso perché amputata è quella parte sua dell’anima, in quelle dita che ne erano la residua appendice. In questo sì è una vittima, essendo quella mutilazione inferta dall’odio di cui è stato nutrito, ma la colpa di Franz è l’efferato rifiuto di ogni possibilità diversa che avrebbe dato un senso a una fine che egli aveva il privilegio di vedere come inevitabile; e quindi perché non renderla meravigliosa visto che crudele è comunque destinata ad esserlo? Non è un caso che la sua “comprensione” di Matilde coincida con la fine del “mostro”, ma un’altra creatura sarebbe stata possibile se solo nr avesse avuto il coraggio. L’emarginazione di Franz passa per delle scelte: aspira a essere carnefice solo come la via più semplice per uscire dal ruolo di vittima. Tradisce se stesso e lo sa. Egli non ha mai voluto essere speciale ma esattamente come tutti gli altri, perché il conformismo è l’unico carattere che riduce alla normalità qualunque abominio. Pateticamente non ci riesce, deludendo le aspettative che sente su di sé. Franz incarna la psicosi collettiva del nazismo, che peraltro interpreta magistralmente. Vuole sentirsi parte dell’ordine costituito, esserne cullato e protetto come tra le braccia di un padre spietato la cui benevolenza faccia sentire al sicuro, ma soprattutto una volta per tutte speciale. Vero è che nessuno dei Freaks avrebbe cambiato la storia, ma è tutt’altro che una debolezza di sceneggiatura (questo capolavoro infatti non ne ha): con la cattura di uno di loro egli insegue il colpo di scena, come il bambino che si sogna prodigio per fuggire dallo sforzo di crescere. Vuole essere credibile al mondo perché credere in se stesso richiede un coraggio che non ha o in cui semplicemente non vuole imbattersi. Prevede il futuro sapendo bene che in quanto tale non può essere cambiato: e infatti non vuole cambiarlo, vuole solo entrare nel presente prima che il suo mondo finisca. Ma il tempo stringe impietosamente e lo sa.


Joker, a modo suo, ci restituisce la maschera che irride sprezzante le ferite dell’anima e che ha ridisegnato con il gusto beffardo del paradosso. Franz, al contrario, è fedele al suo mondo e cerca con ogni mezzo di farne parte, immolandone agli altari la diversità  in segno di devozione filiale. Perché – a differenza del Joker –  non ha nessuna coscienza critica ma solo l’incosciente obbedienza infantile che non sa e non può giudicare gli adulti, ma solo disperatamente assecondarli per esserne accolto.

 

N° 8  A CHIARA E ANIME NERE - LA SCHIAVITU’ DEL SANGUE


Guardando A Chiara continuava a tornarmi in mente Anime nere, che avevo visto molto tempo prima. Allora ho dovuto proprio rivederlo (e ho fatto bene) per capire meglio cosa pungolasse la mia memoria. La comparazione (come atto istintivo, non scolastico) ha anche il merito di creare qualcosa che vale più del contributo delle singole opere, eppure le valorizza per ciò che sono nella sostanza. 

A Chiara e Anime nere sono due pellicole assolutamente sovrapponibili nell'essenza di ciò che rappresentano, ognuna però a modo suo. A Chiara ci mostra la sua storia dall'interno, scovando l’anima di un volto che condensa tutto ciò che accade intorno, al punto che non avremmo neanche bisogno di vedere. Siamo tutt’uno con quell'intensità' meravigliosamente umana e non ci serve altro. In Anime nere protagonisti sono i fatti e i personaggi li percorrono come un destino cui obbediscono secondo le regole classiche (e sempre valide) della tragedia. Ma sono due film che, sebbene di autori diversi, snocciolano lo stesso teorema offrendo epiloghi opposti pur partendo dalle medesime premesse: vicenda familiare nell'ambiente 'ndranghetista calabrese, mercato della droga nel deserto di qualunque altra economia, amori traditi di padri e figli che si scontrano sull’assurdità dei principi imposti dal “sangue”.

2.5.23

Recensione: "Beau ha paura" - Al Cinema 2023 - 8 -

 

Il terzo film di Aster rappresenta un notevole cambiamento rispetto ai primi due.
"Beau ha paura" è un film "alla Kaufman", metaforico, grottesco, un insieme di mille cose, un viaggio delirante nella mente e nel tempo.
La storia di un uomo impaurito da tutto e che vive in un perenne senso di colpa.
Tutto questo a causa di una madre totalizzante, egoista, esaltatrice di un amore (il proprio) che in realtà non è mai riuscita a dare.
Beau è sempre stato il suo "paziente" preferito, il bimbo (e l'uomo) malato e impaurito che lei con il suo affetto e i suoi prodotti farmaceutici sapeva curare.
Un film lungo, forse troppo lungo, e che non ha la forza, per tornare a sopra, di raggiungere l'esistenzialismo di un Kaufman.
Eppure un film impossibile da dimenticare e sul quale si possono scrivere interi saggi per quante cose ha dentro.
Io ho provato a mettere qua tutte le infinite suggestioni che mi ha dato.

Beau è un bambino che si è perso nella hall di un centro commerciale (o di un hotel, non ricordo).
La madre lo cerca, disperata.
Beau è al piano di sopra e nel vederla disperata si nasconde dietro una colonna.
L'Accusa parla di figlio degenere che non solo prima fa lo scherzo di scomparire a sua madre, ma poi nel vederla cercarlo continua a stare lì, nascosto.
Ma non è vero.
La verità è che Beau ha paura.
Ha paura di uscire da dietro quella colonna, la paura di tornare da quella madre così disperata, la paura che si arrabbi.
In questo minimo ma gigantesco ricordo che viene "trasmesso" nel grande finale del film c'è, almeno per me, quasi tutto il significato dello stesso.
Perchè "Beau ha paura" è il film che racconta di un bambino mai amato, di un bambino sempre odiato, di un bambino usato come parafulmine della propria incapacità d'esser madre e del proprio egoismo.
Una madre che celebra sè stessa, che celebra il proprio amore per il figlio, che celebra la propria forza nell'aver superato tutte le difficoltà, che rinfaccia le cose che ha perso a causa sua, che esalta la propria capacità, nonostante tutto, di aver amato quel figlio come nessuna.
E quel bambino (non) crescerà con quest'ombra gigantesca sopra di lui.
Avrà paura di qualsiasi cosa perchè cresciuto come una colpa ("Tuo padre è morto quando ti ho concepito", cosa che ricorda molto anche Babadook), perchè succube di una madre totalizzante che fagocita tutto, la sua possibile felicità, il suo possibile futuro, l'amore, il sesso, tutto.
Una madre a capo di un'azienda che produce medicinali e dispositivi per la sicurezza, che quindi vende salute e benessere al "mondo" e in tutte le pubblicità dei suoi prodotti mette il faccino del suo bimbo malato, del suo bimbo del quale lei si prende così cura (tanto che il film mi ha ricordato, in una delle tante possibili letture, anche quella della Sindrome di Munchausen per procura).
Beau cresce quindi consapevole di esser malato, consapevole che ogni cosa può ucciderlo, quel dolce che vede in vetrina con il suo primo e unico amore, il collutorio bevuto per sbaglio, una medicina presa senz'acqua fino ad arrivare al sesso, quel sesso che arrivato a 50 anni non ha mai fatto perchè, al momento del primo orgasmo, sa che morirà.
Come suo padre, come suo nonno, come il suo bisnonno.
Beau bambino dietro quella colonna è ormai un essere vivente devastato, un ragazzetto che anche se si è perso, anche se ritrovandosi solo ha avuto veramente paura, anche se "parte offesa", sa che ha fatto star male sua madre, sa che ha ferito la Regina.

Ari Aster gira un film diversissimo dai suoi due precedenti, un'opera "alla Kaufman" (ma anche alla Kafka), geniale e grottesca, che è una miscellanea incredibile di generi, di atmosfere, di personaggi, di collassi temporali, di simboli.
Non raggiunge i livelli di Kaufman perchè nessuno può raggiungere i livelli di Kaufman.
Non ha nè il suo genio nè la sua "pesantezza", intendendo con pesantezza non quella che causa nello spettatore ma il peso specifico della singola opera.
"Beau ha paura" fa collassare dentro di sè due capolavori come Synechdoche New York e The Truman Show senza riuscire ad arrivare alle vette di nessuno dei due ma avendo una sua notevole personalità, una sua urgenza di raccontare qualcosa di importante, una sua forza.
E' sicuramente il film più complesso di Aster e, come accade sempre per i film complessi, anche quello meno coeso, quello con più ferite scoperte dove gettare il sale della critica.
Ad esempio Midsommar, opera quasi perfetta, riusciva anche a suggerire straordinari ed importanti sottotesti (forse persino più dolorosi di Beau) in una struttura al tempo stesso niente affatto banale e molto solida, strutturata, granitica.
"Beau ha paura" sembra invece un film costruito della stessa materia di una seduta dallo psichiatra, e per questo è "debole", e per questo è "tante cose insieme", e per questo ha la volatilità di un ricordo, di una riflessione, di un trauma, di un sogno.
E' un film dove è necessario rimettere insieme i pezzi, dove assistiamo continuamente alla disgregazione del puzzle di una vita, quella di Beau, e al disperato tentativo di ricostruirlo quel puzzle.
Ma è come se i pezzi ci siano stati rubati o l'immagine della scatola da replicare non sia la nostra ma quella che qualcun altro ha disegnato per noi.
E la ladra dei pezzi o la perversa disegnatrice è nostra madre.

Anche a livello formale il film è questo accumulo di tante cose, quasi sempre diverso da sè.
Non a caso una delle tante possibili letture (soluzioni) è proprio quella che l'intero film sia una seduta dal proprio psicologo, una seduta che, attraversando tutti i propri traumi, ci porta infine ad arrivare (o provare ad arrivare) alla "salvezza", che è il riuscire ad "uccidere" la propria madre attraverso la consapevolezza che quelli sbagliati non eravamo mai stati noi, che se ci eravamo persi e stavamo dietro ad una colonna eravamo noi quelli in difficoltà, che se abbiamo odorato la biancheria di lei non abbiamo fatto niente di male.
No, se abbiamo paura del mondo, se abbiamo paura di tutto, se vediamo la Morte poterci colpire ovunque è perchè qualcuno ci ha "costruito" nel modo sbagliato, facendoci sempre sentire in colpa, tarpandoci ogni volta le ali, privandoci sin da giovanissimi non solo delle nostre felicità ma addirittura della possibilità di averne.