6.5.22

Recensione: "Bad Roads - Le strade del Donbass"

 

In questo periodo in sala non così ricco di bei film probabilmente Bad Roads è la miglior cosa che potrete vedere.
Siamo in Donbass (ma il film è del 2020, in tempi non sospetti).
Quattro piccole storie, quattro episodi tutti svolti in uniche location.
Un modo per raccontare il clima della guerra - di tutte le guerre - davvero notevole.
Dialoghi eccezionali, vicende tutte legate da fili sottilissimi che, in una sceneggiatura davvero stimolante, sarà bellissimo ricercare per lo spettatore.
Un posto di blocco, una panchina, un ex sanatorio distrutto, una fattoria.
Un film quasi teatrale che racconta dei "duelli psicologici" tutti giocati sul vero ed il falso, sull'impossibilità di capire le reali intenzioni dell'altro.
Ben recitato, benissimo girato, straordinariamente scritto.
Sarebbe piaciuto a Gogol


presenti spoiler

Per prima cosa ringrazio la Trent Film, la casa di distribuzione italiana del film che mi ha invitato a vederlo in sala.
Per chi mi conosce sa che questa cosa non influisce per niente nel mio giudizio sul film.
Che è bellissimo.
Bad Roads non è un instant film, non è stato girato (e come sarebbe stato possibile poi) dopo l'inizio della guerra in Ucraina ma, al contrario, è forse grazie a questa tragedia che, per fortuna, ha potuto vedere la luce della distribuzione italiana (il film è del 2020).
Io sono uno a metà, abbastanza informato sulle cose ma che non le approfondisce quasi mai.
Quindi eviterò di spiegar bene la situazione geopolitica che racconta il film perchè non sarei in grado. Lascio questa incombenza a chi ha le competenze per farlo.
Ma non è per giustificare la mia "ritirata" che mi sento di dire che se è vero che Bad Roads è film molto ancorato alla realtà che racconta (ovvero quella degli scontri, già cominciati nel 2014, in Donbass, la regione-fulcro di tutto quello che poi ha portato alla tragedia di oggi) è anche vero che secondo me il film può essere analizzato anche eradicandolo da tutto questo.
Ma del resto spesso capita ciò, ovvero che un film che racconta una guerra può essere paradigma di tutte le guerre.
Quindi lo affronterò come affronto sempre i film io, cercando di coglierne il cuore, le tematiche, le emozioni e la scrittura.


Ho trovato eccezionale in questo senso la struttura di Bad Roads.
Quattro episodi, tutti assolutamente ben definiti e diverso l'uno dall'altro.
Eppure, con una scrittura davvero magistrale, i 4 episodi sono legati in una maniera sublime, non certo soltanto perchè ambientati nella stessa zona e perchè raccontano lo stesso scenario.
Tutto Bad Roads è praticamente basato sui dialoghi tra i personaggi.
Ogni episodio è in un'unica location (nessuno supera 20 metri di spazio) e, quasi in maniera teatrale, tutto il pathos e la narrazione degli eventi è appunto affidata ai dialoghi.
Nel primo episodio abbiamo un posto di blocco dove due guardie ucraine fermano un preside ubriaco.
Nel secondo avremo 3 amiche su una panchina della fermata del bus.
Nel terzo una ragazza e il militare che l'ha rapita per abusarne.
Nell'ultimo una donna e due contadini.

Cosa accomuna tutti questi episodi?
Il fatto che, tranne che nel secondo, si instaura sempre un dialogo tra i personaggi in cui è quasi impossibile capirne le intenzioni, quasi impossibile discernere tra la verità e la menzogna, quasi impossibile capire se questi personaggi stanno "scherzando" o dicendo la verità.
Dei veri e propri duelli psicologici, scritti in maniera divina, che raccontano una realtà impossibile da comprendere, una realtà per cui non sai mai chi sia la persona che hai davanti, se sia pericolosa e, nel caso, quanto pericolosa.
In tre episodi su quattro arrivi alla fine con una sensazione stranissima, ovvero quella di non essere sicuro di chi hai avuto davanti.

Nel primo episodio, ad esempio, hai sempre il terrore che quei due militari facciano qualcosa di brutto.
O che il preside stia inventando balle.
Poi, man mano che andiamo avanti, lo spettatore comincia a cambiare idea, forse quel preside sta dicendo sempre la verità e quei due militari si stanno solo divertendo con lui, per passare il tempo.
E' così bella, inafferrabile e complessa la scrittura dei dialoghi di questo film che persino la scena dell' "apparizione", quella in cui il preside è sicuro di aver visto una sua allieva dietro la trincea, alla fine pensi che possa essere successa veramente (anche alla luce di tutto quello che accade negli episodi successivi).
La stessa struttura, quasi identica, l'abbiamo nel quarto episodio.
Ancora una volta un personaggio (in questo caso la donna borghese) in una situazione disagiante e di possibile pericolo, marionetta di altri due personaggi (i contadini in questo caso  come nel primo furono le due guardie).
Anche qui stessa sensazione, stiamo per assistere a qualcosa di terribile o tutto è solo un "gioco"?

E pure in questo caso arriviamo alla fine senza nessuna certezza.
I contadini sin dal principio avrebbero voluto lasciarla andare?
Oppure le loro intenzioni erano diverse ma poi, parlandosi, si sono "umanizzati" ?
(non è un caso che la vecchia cambi atteggiamento quando sente piangere un bambino, come se quel pianto "atavico" le faccia riacquistare la ragione).

Un episodio al limite del surreale (questo film ricorda molto un certo tipo di letteratura in cui ironia e terrore si fondono insieme) in cui si mantiene lo stesso canovaccio, ovvero un serrato dialogo tra due "parti" di cui una delle due non sa le intenzioni dell'altra (come il sindaco non sapeva le intenzioni dei militari così nel terzo la ragazza non sapeva quelle del soldato così qui la donna non sa quelle dei contadini).
E' incredibile come più volte mi sia ritrovato a ridere in questo episodio malgrado una piccola tensione che mai m'ha lasciato.
Se dovessimo dire che il film è un insieme di 4 cortometraggi, ecco, questo è forse quello che si regge meglio sulle proprie gambe, quello che potrebbe funzionare meglio anche senza nessun contesto.
Eppure anche qua, come in tutto il resto del film, la "guerra" se non presente direttamente è quella cosa che dà colore all'atmosfera, che rende ogni azione ed ogni dialogo come minaccioso.
In questa terra dove è quasi impossibile capire chi sono gli amici e chi i nemici, chi i fratelli e chi no, chi legato all'Ucraina tutta e chi magari vuole l'indipendenza del Donbass, ecco che qualsiasi persona si incontra può essere pericolosa.
Ed ecco che in questo clima di guerra e di estrema povertà per gran parte degli abitanti, l'investimento di una gallina può diventare una pagina kafkiana (o perchè no, gogoliana, visto dove siamo) che bascula continuamente tra lo scherzo e il pericolo.


Del resto questa "umanizzazione" l'avevamo già vista nell'episodio più devastante, quello del rapimento e della violenza alla giovane ragazza ucraina.
Episodio a tratti veramente difficile da vedere ma davvero straordinario, ancora una volta, per scrittura.
Un gioco psicologico pazzesco tra i due, la ragazza che continua a dire di amarlo, che continua a cercare di trasformare ed uccidere il mostro che alberga in quell'uomo, che continua a parlare di vita e piccole cose mentre, al contempo, vive con la paura di morire di lì a poco.
Ma, come negli altri due episodi, anche qui ci chiederemo - senza risposta - quanto lei fosse sincera o se tutto fosse soltanto un "teatro" pensato dalla giovane per salvarsi. (tutto il film ha forte matrice teatrale, non solo nelle dinamiche ma anche, appunto, in questo saper fingere dei personaggi, saper recitar cose) 
Il finale - prevedibile ma perfetto - sembra raccontarci questo, che tutto fosse una tattica, l'unica possibile, per salvarsi dall'orrore.
Eppure quel militare sembrava davvero essersi ravveduto, sembrava davvero essere tornato un essere umano capace di provare affetto ed empatia (ed anche un'incredibile pudicizia, non riesce nemmeno a toccarla dopo che, per 5 minuti terribili, aveva tentato di stuprarla in tutti i modi).
Uno spettatore superficiale potrebbe quindi trovare il gesto di lei terribile, inumano, omicida.
Eppure no, eppure è impossibile dimenticare il mostro che era prima quell'uomo (e, sicuramente, è ancora adesso), impossibile dimenticare quella violenza.
E la paura di non uscire viva da lì, malgrado tutto, è altissima.
L'episodio è talmente ben scritto (sia nei dialoghi che negli accadimenti) che meriterebbe una recensione a parte per quanto complesse, delicate e interessanti sono le dinamiche psicologiche che racconta.
E straordinario, terribilmente straordinario, è il clima che si respira.
Sarà la location così angusta, sarà quell'intimità, ma raramente ho vissuto una scena di stupro in maniera così partecipe. Gli stupri al cinema sembrano spesso cose "fuori da noi" mentre in Bad Roads, secondo me, ne viviamo uno che ci fa davvero percepire l'orrore di quello che la ragazza subisce, ci fa dire "cristo, accade veramente così".





Come tutti gli altri episodi notevolissimo l'uso della location.
Il posto di blocco del primo in cui il fuori campo - come quando il preside dice di aver visto la sua allieva - ci è totalmente precluso, la fermata dell'autobus del secondo (l'episodio forse più debole ma non per questo ben riuscito) fotografata splendidamente e luogo quasi "metafisico" che sembra stare tra pace e guerra e tra passato (la nonna) e presente (la nipote) - luogo che, tra l'altro, mi ha ricordato Dogman - e infine l'ex sanatorio distrutto del terzo in cui la regista (a proposito, regista donna, ci torneremo) usa gli spazi in un modo sublime (quando vediamo lei aggirarsi da sola per le stanze o l'inquadratura in campo quasi lungo di lei che si spoglia sono due chicche di regia mica da poco), la fattoria dell'ultimo.
E' incredibile come in tutti gli episodi i nostri protagonisti non facciano mai più di 10 metri, a rimarcare ancora di più l'impostazione teatrale (anche se in location formalmente poco consone al teatro) del film.
Ma ecco che arrivo al punto che mi preme di più, alla cosa che più mi ha emozionato.
Ci tengo a dire che sono considerazioni (intuizioni) mie, e per questo magari completamente sbagliate.
Nel primo episodio, ad un certo punto, il preside (solo lui, noi non sappiamo se dica la verità) vede una sua allieva nella trincea.
Da lì in poi sarà un continuo chiedere ai militari di trattarla bene, di non stuprarla.
Il preside dice che la giovane vive in casa con la nonna.
E nel secondo episodio cosa capiamo alla fine?
Che quella è ragazza che vive con la nonna.
Ma il nome, se ho notato bene, non è quello fatto dal preside nel primo episodio.
Durante lo stesso secondo episodio vediamo una ragazza allontanarsi con un militare (il suo ragazzo, dice) presumibilmente per far sesso.
E cosa vediamo nel terzo episodio?
Una ragazza appartata con un soldato che la stupra (e che lei dice di amare, come fosse un suo fidanzato, a rendere ancora più forte il legame col secondo episodio).
Ma, anche stavolta, questa ragazza non è la stessa, ma un'altra.
E ad un certo punto racconta al soldato che l'ha violentata che un giorno aveva investito un pollo e detto ai proprietari di quest'ultimo di volerli risarcire.
Esattamente quello che vedremo nel quarto episodio.
Ma non è un flash back, non è lei quella ragazza.
Ogni episodio quindi "annuncia" quello successivo, sembra legatissimo ad esso (con gli stessi personaggi) eppure no, ogni volta le persone coinvolte sono altre, anche se vivono esperienze raccontate nell'episodio precedente.
Una costruzione pazzesca che mi ha portato a questa lettura.
La regista (Natalya Vorozhbyt) in questi 4 episodi ha voluto raccontare una condizione di guerra, specialmente quella delle donne, che può essere comune a tutte.
E' come se avessimo un'unica Donna con un unico ricordo comune, un'unica esperienza.
Uno spettatore poco attento potrà pensare che alcuni personaggi tornano in vari episodi.
E invece no.
Si parla di 4 ragazze diverse (la studentessa, la ragazza con la nonna, quella dello stupro, la donna alle fattorie) ma ognuna di esse in questo contesto di guerra avrebbe potuto vivere/potrebbe vivere l'esperienza delle altre.
C'è un altro film dell'Est meraviglioso, Sole Alto, che usava un artificio simile ma in maniera completamente opposta, e deve mordere la lingua per non parlarvene, ve lo rovinerei.
Però, ecco, ho avuto questa sensazione che attraverso tutti i personaggi femminili che vediamo la regista ci abbia voluto raccontare un unico grande e tragico personaggio, la donna in tempi di guerra.
E a rendere questa narrazione così particolare e quasi "onirica" ci sono anche tante altre piccole cose che uno spettatore attento può notare, come quelle patatine fritte che la nonna vuole fare alla nipote ma che poi vedremo solo nel quarto episodio, come quella goccia che cade incessantemente nel terzo e poi ritroviamo come ultimo frame del quarto (e la goccia è simbolo di lentissimo e infinito stillicidio, fantastico), come il discorso del prezzo più giusto da dare ai kilogrammi di esseri viventi morti (uomini o polli che siano) che rimbalza ancora una volta tra terzo e quarto episodio, come il regalo da parte dei fidanzati che torna tra secondo e quarto.
E chissà una seconda visione quanti altri piccoli rimandi potrebbe tirar fuori.
Un film quindi che ha dentro un amore per la scrittura commovente, che si mostra "semplice" quando invece nasconde mille porte invisibili (un filone che ha in Kaili Blues il massimo che si può chiedere), che ha coraggio nel giocare con l'ironia per poi farci piombare nell'incubo senza reti di protezione.
Un film che racconta un caos dell'anima, un'impossibilità di capire cosa stia accadendo.
Ma che ha dentro un'umanità quasi commovente, in tutti questi personaggi "buoni" che provano a salvarsi credendo ancora nella vita, nell'amore e nei principi.
E io non lo so quanto "politica" sia quest'opera, come sempre ho questo difetto di ricercare altro.
E quello che ho trovato mi è bastato, mi ha riempito lo stesso

8

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