Si torna al cinema che sa raccontare, che si prende i suoi tempi, che non affida alla fretta, all'obbligo del colpo di scena facile, al sensazionalismo. Il Profeta è un piccolo romanzo e sarà apprezzato al massimo da chi ama la lettura, il racconto, l'attesa delle cose.
E' se vogliamo un romanzo di formazione sui generis perchè racconta la "maturazione", il cambiamento radicale che attraverserà il protagonista, un sontuoso Tahar Rahim, capace di manifestare in maniera impressionante tutti gli stati d'animo possibili, dalla paura al coraggio, dalla diffidenza alla determinazione, dalla sottomissione alla leadership, dalla tenerezza alla ferocia. Radicale cambiamento come quello del protagonista di Cella 211 anche se là il tutto avviene in sole 24 ore, qua nell'arco di 6 anni.
Malik è un giovane ragazzo analfabeta di origine maghrebina che finisce in carcere per l'accoltellamento di un poliziotto, carcere praticamente diviso in 2 fazioni, quella dei nazionalisti còrsi da un lato (come non richiamare i baschi di Cella 211) e gli arabi dall'altro. Il capo degli isolani (altra straordinaria interpretazione quella del danese Niels Arestrup) mette subito alla prova il giovane Malik col più difficile dei compiti, uccidere un detenuto arabo. Malik non ha scelta, o lo fa o sarà ucciso lui stesso. In una scena magistrale e terribile allo stesso tempo (che mi ricorda un pò quella di Niente da nascondere di Haneke benchè quella sia decisamente più improvvisa, meno preparata), Malik riesce nell'intento. Questo è il turning point del film sia perchè il primo passo di quella che sarà la scalata di Malik nel mondo criminale, sia perchè il fantasma dell'assassinato non abbandonerà più il giovane ragazzo ma diventerà paradossalmente la sua guida (a mio parere unico punto di debolezza del film).
Malik è sì analfabeta ma ragazzo intelligentissimo. Con un pò di istruzione ed esperienza diventerà ben presto molto più di un semplice tirapiedi ma un vero e proprio stratega, una mente criminale. Malik è furbo, all'apparenza serve tutti ma in realtà serve solo se stesso. Metaforicamente è come quel rottweiler protagonista della storia che un suo amico gli racconta durante il film, sta col suo padrone, ma appena questo si assenta un attimo diventa una belva feroce capace di qualsiasi cosa. Grazie anche ad una sceneggiatura perfetta, Malik riesce ad accaparrarsi il favore di tutti, còrsi, arabi, italiani e nordafricani mettendo gli uni contro gli altri. Diverrà Il Profeta, punto di riferimento per tanti. Emblematico a questo proposito l'ottimo finale con le automobili che gli si mettono in coda appena uscito dal carcere.
Lascia poco al lirismo o alla retorica questo film. La storia è cruda e credibile, i personaggi azzeccati, l'intreccio perfetto. Magnifica la scena dell'aereo in volo, concettualmente la cosa più lontana possibile dal carcere, la libertà contro la costrizione, il volare opposto alla reclusione, "essere" nell'aria in contrapposizione all'unica ora d'aria carceraria.
Non sappiamo com'era il Malik di prima del carcere e non sappiamo quello che sarebbe stato senza quel primo omicidio. Audiard ci racconta come l'uomo che si macchia di un peccato originale (anche se costretto come in questo caso) non riuscirà mai più a liberarsene e nel bene o nel male ne risulterà completamente cambiato.