Roma è quasi un non film.
Somiglia più ad un album di ricordi in movimento.
Ricordi personali che però, a vederli tutti, sembrano i ricordi di ognuno di noi, come se l'infanzia fosse un terreno comune da cui poi la vita ci prende e porta via, rendendoci sempre più diversi l'uno dall'altro.
Ma Roma è anche il racconto di una donna straordinaria che in questo mondo che sembra perdere ogni giorno di più dignità e umanità pare quasi piovuta dal cielo
Si parte con un piano sequenza, come Gravity.
Ma questa volta non fluttuiamo nell'Infinito, ma sempre in uno Spazio siamo.
Ed è lo Spazio dei Ricordi, se possibile ancora più grande, ancora più indefinito, ancora più immenso.
E questo è Roma, una specie di non-film che usa il cinema non come fine ma come mezzo.
Cuaron sente il bisogno di ricordar cose e lo fa con un film.
Beato lui, noi che invece quei ricordi non sappiamo come ricostruirli quasi mai, e quando li afferriamo sono più le volte che ci scivolano dalle dita che quelle in cui riusciamo a tenerceli stretti.
Io in un film del genere fatico a parlar di cinema, chè il contenuto è troppo più forte del contenitore.
E allora mi perdo.
E rivivo tutte le cose che Cuaron ha voluto rivivere.
Le macchine troppe grandi dei nostri padri.
Il fumo delle sigarette, ipnotico e fastidioso.
Il rumore del cucchiaino che sbatte sull'uovo alla coque.
Le ninne nanne che cercavano di portarci dolcemente nel mondo dei sogni.
I panni stesi fuori.
Tutti noi sul divano insieme a vedere un solo programma in tv.
Le tisane o i thè del pomeriggio.
Le ovatte e quell'alcool che brucia.
I pavimenti e l'acqua che li pulisce.
La magia della sala, del cinema, un qualcosa che sembrava sempre troppo bello per esser vero.
I salti nelle pozzanghere sotto la pioggia, quegli hoppipolla magnifici che adesso sembrano non esistere più.
Lasciarsi scivolare sul corrimano delle scale.
Sentire i tuoi litigare da dietro la porta e piangere di dolore.
Le gigantesche feste di famiglia di Natale e Capodanno.
Giocare con i circuiti delle macchinine.
Tutto quello che ho visto in Roma ha fatto parte del mio passato.
E poi ci sono cose ancora più particolari ma, incredibilmente, ho vissuto anche quelle.
L'incendio devastante che distrugge una collina intera.
Il terremoto che ti terrorizza.
L'arrotino che arriva nel paese.
E poi nel finale, in questo film che sembra quasi raccontare Giuseppe invece che Alfonso, arriva anche quel rischio di morte per annegamento, il ricordo più terrorizzante che ho.
E quel giorno la mia tata, la mia Cleo, aveva invece le sembianze di un mio fratello, bambino come me.
Poi c'ho pensato meglio.
C'era qualcuno che diceva che la morte è una livella perchè quando avviene tutti siamo uguali, ricchi e poveri, buoni e cattivi, belli e brutti.
E vedendo Roma ho pensato che c'è un'altra livella, l'infanzia.
Perchè a prescindere da quanto bella l'hai avuta, da quanto sofferente, da quanto ricca o da quanto povera, da quanto piena d'affetto o quasi priva d'esso, tu quei panni stesi, quei pavimenti lavati, quei corrimano dove scivolare, quel fumo di sigaretta, quel divano dove esser famiglia o dove fingere di esserlo, tu tutte quelle cose là sopra l'hai provate e vissute.
E allora ho pensato che se è vero che non c'è un singolo uomo uguale ad un altro, è anche vero che alla fine saremmo tutti "più uguali" tra noi di quello che pensiamo, che l'imprinting è quello, che le cose che ci restano sono quelle, che le prime emozioni sono quelle.
Sarà poi la vita a farci diventare così diversi e, in tanti tanti tanti casi, a peggiorarci.
Roma è un tuffo dolce, sussurrato e un filo patinato in questo mondo comune, in questo mondo comune da cui poi usciamo quasi tutti divergenti.
C'è la testa che mi vorrebbe portare al film, questo film bellissimo ma che per un'ora e mezzo mi sembrava avere un passo troppo monocorde, questo film così estetico ma anche così profondo.
Eppure la testa va sempre a quei contenuti.
E a lei, Cleo, una donna straordinaria che ha una dignità e un'umanità che più il mondo va avanti più sembra si siano perse, come se l'umanità si fosse emancipata ma questa emancipazione avesse portato quasi esclusivamente a narcisismi, arroganze e celodurismi.
Invece lei è una di quelle donne capaci di amare, voler bene e rispettare, quelle che "stanno sotto", che fanno le governanti, ma a livello affettivo sono alla pari di tutti, che non soffrono di questa loro condizione perchè non è questo che a loro interessa in vita.
Una donna che disse
"Sono incinta"
e lui rispose
"Vado un attimo in bagno"
senza tornare mai più, come in qual capolavoro di scena di quel capolavoro di film che fu Laurence Anyways
Una che quel giorno fu uccisa nell'anima da quell'uomo.
E quello stesso uomo, per caso, la ucciderà ancora.
Anzi, ucciderà la cosa più bella che lei aveva.
E se ripenso a quella scena mi vengono ancora i brividi, era al tempo stesso un horror e un'emozione indescrivibile.
Una scena immensa, in camera fissa, con quel "dille addio" che mi ha ammazzato.
Dire addio a chi non avevi ancora avuto il tempo di dire "eccoti, ben arrivata"
Cuaron gira almeno 4,5 scene straordinarie e ci regala 40 minuti finali tra i più belli di quest'anno.
L'incendio mentre il ragazzo svedese canta, gli allenamenti di arti marziali con quello strano ma intenso insegnamento, ovvero di non pensare di fare o realizzare cose troppo difficili se già quelle apparentemente facili possono essere così complesse, un Gravity anni 70 visto al cinema, la panoramica a 360 gradi di lei che spegne le luci della casa, il gioco all'esser morti col bimbo.
Eppure niente potrà battere la sequenza al mare, tesa, struggente, straordinaria.
Una donna che non sa nuotare che parte per salvare tre bambini.
Il ritorno in spiaggia.
Quell'abbraccio collettivo che non riesco nemmeno a descrivere, forse l'immagine di più alta umanità di un anno di cinema.
E quel suo dire "non volevo che nascesse", dirlo in quel momento in cui più di ogni altro sente amore e affetto, dirlo in questo momento in cui il coraggio di dirlo può venir fuori, dirlo adesso dopo che 2 minuti prima hai pensato che altri bambini potessero morire.
Il mio uscire dall'acqua fu diverso, in una spiaggia affollatissima dove quasi nessuno si era reso conto che un bambino era praticamente morto.
E quelle 4,5 persone accanto a me che provavano a farmi respirare.
Ecco, se la scena della mia vita fosse stata cinema lo sceneggiatore avrebbe reso me protagonista.
E invece no, qui ci sono tre bambini che si sono salvati per un pelo.
Ma noi non soffriamo per loro, noi soffriamo per chi l'ha salvati.
Per una donna meravigliosa che in qualche modo è esistita.
E a cui Cuaron dedica questo suo film, questo suo album di ricordi in movimento.
Dedico anche io ogni mia singola emozione a lei.
E a chi è come lei.