Cominciamo i nostri resoconti dal Festival di Venezia.
Quest'anno gli inviati sono Tommaso Ferrero ed Enrico (della rubrica degli anime) che sostituisce Riccardo, impossibilitato a partecipare.
Ecco le recensioni che mi hanno mandato dei primi due giorni.
Ovviamente a volte i film combaceranno ma credo rende solo la cosa più interessante
ci sono piccoli problemi di font in due recensioni, aggiusteremo
ENRICO G.
Presentazione
Il film che ha aperto la Giornata degli Autori, certamente appassionato e con grandi potenzialità, ha purtroppo grandissimi problemi di struttura. Uno scheletro e una “carne” quasi inesistenti, che lo rendono purtroppo pesante e faticoso, e hanno presto alienato il mio interesse.
All’altra estremità dello spettro un noir coreano che vola molto più basso nei generi, ma che ha davvero tutto: stile, ritmo, montaggio, personaggi profondi e macchiette, tendenze riflessive ed eccessi fuori luogo, scrittura non sempre perfetta e anima sempre pulsante.
HONEY CIGAR
Bisogna concederglielo ad Honey Cigar, non è un film facile di cui parlare.
Nasce di per sé da un contesto non facile, quella ferita coloniale che si estende dalla Francia al Nord Africa, che forse noi italiani non potremo mai comprendere del tutto; dal suo tratto più doloroso e sanguinante, l’Algeria. E dal microcosmo altrettanto difficile come la vita di una ragazza adolescente, divisa tra la madrepatria che l’ha cresciuta, e l’ex colonia che le ha dato i natali. Questi due mondi purtroppo non si incontrano mai veramente: la situazione algerina si fa spazio solo nel finale, a fatica tra le maglie di una regia troppo claustrofobica, stretta sui primi piani sostenuti, lunghissimi, specie sulla protagonista. Selma, questo è il suo nome, vive di ciò che costruisce l’attrice e i personaggi attorno a lei, in particolare i suoi genitori fittizi: i personaggi migliori del film, interpretati benissimo (il padre ricorda vagamente il compianto Irrfan Kahn) nelle loro difficoltà di crescere una figlia, perlopiù da algerini, stretti tra il ripudio e le convenzioni del paese che hanno lasciato. Purtroppo non basta, perché la scrittura si perde, sceglie binari convenzionali o troppo assurdi (il ku klux klan studentesco che sembra scartato dai riti universitari di Raw o la scena quasi fantozziana dove il padre minaccia di buttarsi dalla finestra), insomma non supporta le grandissime interpretazioni. Anzi, sembra molto più interessata a infilare il sesso, per finta, per davvero, per allusioni, in almeno tre quarti delle scene, con una pedanteria esasperante. Forse anche il sigaro al miele titolare si inserisce in questa trafila, visto che non si vede fisicamente né l’uno né l’altro durante tutta la durata della pellicola…
Come dicevo, è difficile parlare di un film così, fatto con sentimento, visto con il cast e la regista in sala, tra l’altro esordiente, anche nella sceneggiatura. E, bisogna aggiungere, con interpreti capaci e musica meravigliosa, che purtroppo rendono ancora più evidente la mancanza di una direzione registica o di scrittura capaci di convogliarli. Peccato.
NIGHT IN PARADISE
Folgorante.
La prima cosa che salta all’occhio, iniziando Night in Paradise, è la regia. Non c’è un’inquadratura fuori posto. È metodica e precisa, come il protagonista Tae-gu. Come il cinema coreano, che non sbaglia un colpo, e anche qui trova un suo esponente, che senza eccellere particolarmente in un singolo componente ha tutto ciò che serve, tecnica, anima, capacità di saper narrare (il regista ha fatto tutto per conto suo, sceneggiatura compresa).
Siamo in quel cinema di gangster all’orientale, fatto di coltelli, cosche mafiose che si fanno la guerra per l’onore o i soldi, sgherri ricoperti di tatuaggi o di completi neri e bianchi tutti uguali. E siccome è un neo noir, i passati sono tragici, il presente fosco, il futuro atteso autodistruggendosi, con in mano pacchi di sigarette o bottiglie d’alcol scadente.
Questo è il mondo di Tae-gu, rispettato dai capi, dai subalterni, persino dai rivali. Fino al giorno in cui tutto comincia ad andare terribilmente storto, e il nostro monoespressivo eroe si ritrova in fuga, via dalla maledetta e oscura Seul. Quando dico monoespressivo non bisogna pensare all’incapacità di esprimere emozioni, quanto alla durezza monolitica del Ryan Gosling di Drive. Quello sguardo che sa (e se lo metti alla prova sono guai), qui appartiene ad un uomo capace di uccidere a sangue freddo nelle terme per poi fuggire nudo. Che dopo una settimana di inattività, fumo e bevute, può sostenere un inseguimento in autostrada alla The Raid 2, e poi come Rama combatte in macchina, lui solo contro almeno 15 che lo assediano. Un uomo così granitico che durante la fuga non si degna di fermare la macchina per le medicine, ma si fa mordere la mano per calmare la ragazza in preda agli spasmi.
Ed è lo stesso che arriva per salvarsi la vita nella piccola isola di Jeju, ospite di un vecchio gangster e sua nipote (che bella questa contrapposizione di mafia cittadina e indigena, con i loro territori e competenze). Lì non si può fare nulla, solo aspettare.
E paradossalmente il film funziona ancora meglio in questa parte centrale, fatta di lente conversazioni, di ristorantini vuoti, senza neanche cameriere o proprietari. E di zuppe al pesce che sanno dell’infanzia, povera e in riva al mare, senza i boati delle pistole e i sibili delle lame.
Non che ciò che accada nella capitale sia meno interessante, anzi, c’è forse la mia scena preferita di tutto il film, il colloquio a tre. Capo Ma, Capo Park e Yang. Il primo è una faccia da cazzo indimenticabile, bellicoso e iracondo, che eppure si scoprirà in seguito dotato di una sorta di codice etico (come Tae-gu). Il secondo un “funzionario”, poliziotto corrotto (poteva mancare in un film coreano?) prestato al ruolo di paciere, fanaticamente legato all’avanzata di carriera (determinata dalla tregua che riesce a mantenere tra le gang). Il terzo il capo a cui Tae-gu è legato da immensa lealtà, che mano a mano si scoprirà sempre più viscido opportunista, marcio fino al midollo.
L’atto finale vira nuovamente nello stile, raggiungendo eccessi sanguinolenti a tratti degni di un film splatter. Per far capire in quali dintorni ci si trova, ad un certo punto vi è la scena di una porta che viene sbarrata, in modo identico a Kingsman, o se si preferisce al cinema di Bastardi senza Gloria. E anche lì avviene un massacro, fulmineo, il giorno dopo quello lungo e penoso (a tratti, anche per lo spettatore) della pescheria.
Il finale, nonostante le lungaggini, ripiglia la coraggiosa tragicità dell’inizio.
Restano solo le schiere di morti, di donne che non hanno potuto vivere e uomini che hanno scelto di morire. Una spiaggia, un sorriso per quel passato prossimo, così duro eppure così felice. E l’ultimo viaggio alla fine del giorno, sulle ali di una pallottola per raggiungere quella Notte in Paradiso.
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Dashte Khamoush (The wasteland) è un film iraniano poverissimo, squadrato come il suo format di ripresa, desolato come la sua mancanza di colori (è filmato in bianco e nero). La storia di un giorno, l’ultimo, di una fabbrica di mattoni persa nel nulla. E del suo straordinario guardiano.
Nuovamente agli antipodi, un film francese moderno, cinetico, dalle tinte fosche e amare. Con una protagonista dalla bravura e bellezza quasi insostenibile.
THE WASTELAND
The Wasteland è il capolavoro di un grande uomo di penna, Eliot. Quella desolazione di cui parlava non sta però ai nostri piedi, nella sua accezione fisica, ma dentro gli animi. Nella corruzione morale, spirituale e sociale che frammenta anche l’umanità del film omonimo.
Ci troviamo nel mezzo di una terra incolta e friabile, adatta ad una sola cosa: l’impasto dei mattoni. Se ne occupano poche famiglie, abitanti di questa fabbrica-dormitorio, con un padrone proveniente dalla città, e Lotfollah, intermediario tra i due mondi. Dico subito che quest’ultimo personaggio è la vera ragione per vedere un film che soffre di una lungaggine finale spesso snervante, e un tasso di rivedibilità pari a zero. Un guardiano obbediente, stoico, la cui esistenza non si è mai separata dal quel forno, capace solo di sputare fuori mattoni inutili, che nessuno vuole più, nessuno userà o richiederà una sola volta nell’arco del film. Lui ha già fatto tutto in quella fabbrica, prima e con meno aiuti e meno salario delle famiglie di ora, lui è il Sostitutore, che copre le mansioni di chi va dal capo a chiedere gli arretrati e sparlare di lui. In una specie di incastro, vedremo più volte questo copione svolgersi intorno al discorso di chiusura della fabbrica: avere problemi, consigliarsi con Lotfollah, andare dal capo a chiedere soldi. La famiglia azera, quella iraniana, quella curda, tutti con stipendi arretrati, tutti miserevoli (e non solo perché poveri), tutti senza un tavolo, a bere tè e riposare sotto un sudario. Comandati da un uomo che più di loro ha solo la macchina e le sigarette che fuma ad ogni colloquio. A suo modo straordinario anch’esso, questo capo che promette sempre un futuro migliore che mai arriverà.
Paradossalmente è questo il pregio e il difetto maggiore del film, la ripetitività dell’intreccio, che contagia il ritmo e allunga penosamente il finale. Che quando però arriva colpisce fortissimo, non solo per il tragico reiterarsi di una desolazione dalla quale è impossibile scappare, ma soprattutto per quei mattoni inutili, che finalmente trovano uno scopo, l’ultimo possibile.
AMANTS
Gran bel film Amants. Pur non avendo probabilmente nulla (un motivo sì in realtà) che fa gridare al miracolo, è essenzialmente senza difetti. Soprattutto, non annoia per nemmeno un secondo della sua ora e quaranta di durata. Ecco, non ha pause, e questo potrebbe essere un problema per chi ama (come me) la poesia del silenzio, dell’immobilità. Ma indubbiamente la regista Nicole Garcia ha saputo dare ad ogni scena la sua importanza, ad ogni dialogo la sua musica, rimanendo dove era giusto rimanere e tagliando dove era necessario tagliare. Qui si vede l’occhio d’insieme, quello di chi ha una visione e può fare da sé anche senza una fotografia stellare (è questo il caso). In un certo senso mi ha ricordato l’atmosfera creata da Oriol Paulo in Contrattempo, forse per lo stile patinato in salsa francese o per la fosca storia dei due amanti protagonisti.
Parentesi: così fosca da meritarsi un vietato ai 14 dalla Biennale, mentre Night in Paradise, senza nudi ma con la sua truculenta carneficina finale ha un allegro lasciapassare per tutte le età. Bizzarrie della censura.
Tornando al paragone, non parliamo però né della stessa genialità, nè di genere tout court, tanto che nel terzo atto avviene una fase di confusione dove il film non sa se virare sul thriller o rimanere un drammatico romantico.
Ma bando alle ciance, Amants va visto per due sole ragioni, e una è Stacy e l’altra è Martin. Questa attrice, un’emerita sconosciuta nove anni fa in Nymphomaniac del grande Lars von Trier, non avrei mai scommesso potesse diventare una delle mie preferite in assoluto. Sono presenti grandi attori, come la bellissima fulva che assomiglia vagamente a Saoirse Ronan, o i due protagonisti, l’aquilino Simon (che mi ha convinto mano a mano che proseguiva la storia) e il tozzo Leo con la sua mascella da Tom Hardy. Però non c’è niente da fare, Stacy si mangia l’intero film con tutti gli altri dentro. Ha uno sguardo intensissimo, che buca lo schermo in qualsiasi occasione, che sorrida o pianga, in costume o cappotto, truccata, affannata, appena svegliata, con le occhiaie, accaldata da una doccia o in vestaglia, spettinata, a fumare e autocommiserarsi. C’è un momento che mi è rimasto assurdamente impresso considerando l’influenza sulla trama. Lisa, il suo personaggio, è sull’orlo delle lacrime davanti al padre. Asciugandosi gli occhi con una mano si sbafa il mascara. Quella linea irregolare, che in novantanove attrici su cento avrebbe rovinato l’intero viso, sul suo, anch’esso irregolare e imperfetto, esalta ancora di più quanto sia bella ed espressiva.
Aiuta che lo stesso personaggio sia interessante, scritto molto bene. Lisa è una femme fatale del nuovo millennio, tanto consapevole del proprio potere e la propria sensualità quanto lacerata dalle sue stesse voglie e scelte, o dall’incapacità di averle ben chiare. Lo sintetizza pure, un personaggio del film: “Sembri… non mi viene, un quadro. Scuro, cupo”. Esattamente come quel volto misterioso, che incanta e smarrisce.
A Venezia c’era già stato un film, anche più bello di Amants, ovvero il meraviglioso e sottovalutatissimo Amanda, a regalarci una performance altrettanto speciale. Lì però tutto era molto più bilanciato, Stacy era una coprotagonista che doveva ritagliarsi il suo spazio negli strati di una storia bellissima e dolorosa. Qui, dove se possibile è ancora più brava, come protagonista gli spazi che cede il film li occupa tutti, dando un’interpretazione travolgente: se sta bene allo spettatore, vale da sola la visione di un già ottimo film.
TOMMASO FERRERO
Cala il buio su Venezia
Non metto voti, non ho la capacità né la voglia di farlo, è solo come ho
vissuto il film. I voti odiavo prenderli, non credo potrei mai, dunque, darli.
Saranno riflessioni, forse un po’ romanzate, su quella assurdità che è la
mostra del cinema.
Mila (Apples) – Christos Nikou, Grecia
Opera prima dell’assistente alla regia di Dogtooth che,
come ci oramai ci hanno viziato il buon Lanthimos ed il cinema greco, parte da
un soggetto fortissimo. Una pandemia sconosciuta causa negli infetti un’amnesia
totale, portandoli a dimenticare ogni dettaglio sulla loro vita precedente. Il
governo greco, dunque, crea un programma di riabilitazione atto a portare i
pazienti a vivere esperienze indimenticabili (come possono essere un incidente
o un salto nel vuoto), così da ricreare una propria storia di vita. Il nostro
protagonista senza nome si muove in un film pulito con grandi trovate dal
risvolto comico e amaro. La sua inattendibilità come protagonista è l’elemento
più interessante del film, che ci porta a essere spettatori involontari di un
uomo che ha deciso di arrendersi alla paura del dolore. All’uscita della sala
comunque si esce con un sorriso di dolcezza.
Meel patthar (Milestone) – Ivan Ayr, India
Ogni anno a Venezia amo vedermi un paio di film dell’area
indiana-tibetana. Non perché mi piacciano, ma perché mi portano lontanissimo,
in luoghi e abitudini che sono per noi quasi incomprensibili. Questo è successo
in parte anche con Milestone che, dopotutto, è la storia di un camionista. I
camionisti in India non sono tanto diversi che i camionisti qui, vivono di
miglia e sono spesso lontani da casa. E di questo parla Milestone, di un uomo
solo, solo per scelta di vita, perché la sua lontananza da casa ha portato la moglie
a suicidarsi in seguito ad un litigio. Questo lo porta a gettarsi nel lavoro in
maniera maniacale e autolesionista, così da condannarsi a un eterno mal di
schiena. L’arrivo di un giovane apprendista porta, però, la possibilità di un
licenziamento. La cosa interessante del film, dai ritmi comunque dilatatissimi,
oserei dire liturgicamente strazianti, è il paradosso di base. Il protagonista
non vuole andare avanti nonostante non stia fermo nemmeno per un minuto di
film. Gli ultimi venti minuti sono carichi dell’umanità dei personaggi,
debolezze e desideri implodono su se stessi. Il resto sono belle immagini di
una brutta India.
Gaza Mon Amour – Nasser Brothers, Palestina
Dopo l’israeliano Tel Aviv on fire dell’anno scorso
Venezia cambia fazione e passa ridacchiando in Palestina. Gaza mon amour è un
film elegante, lieve, forse come ha definito la simpatica signora tre file
davanti a me “’na cazzata”. Però a me è piaciuto. E non poco. Un anziano
pescatore si innamora di una sarta del souk, anch’essa non giovanissima. Quando
l’uomo trova in mare una statua di Apollo la polizia inizierà a bloccare ogni
suo tentativo di dichiararsi alla sua amata. Basta. Nulla di più. Una storia
che in pratica è un incipit, però ricca di quella realtà che a noi arriva solo
filtrata tramite i giornali. La guerra, la povertà e la voglia di fuga vengono
sparse ai contorni di una storia dolce, ma mai patetica, in cui il fiore
dell’amore di due personaggi “sbagliati” diventa un traino enorme. Un film
povero di tutto, ma non di sentimenti.
The Furnace – Roderick MacKay, Australia
Un film unico nel suo genere. Un western ambientato
nell’outback australiano, il cui protagonista è un cammelliere afghano amico
degli aborigeni. Il Ghan (nome dei cammellieri portati in Australia dagli inglesi)
viaggia assieme ad un ladro d’oro verso una fornace, così da togliere il
marchio della regina e rendere i lingotti non riconoscibili alle autorità. Il
tutto inseguiti dalla polizia e da una personificazione di satana. La prima
oretta non scorre bene, ma gli ultimi cinquanta minuti sono un western di
grandissima qualità, dove la vendetta personale del protagonista si trasforma e
cambia forma come i lingotti che porta in sella al suo cammello. Una storia affascinante
sul tema dell’appartenenza, dove l’oro è veleno che uccide qualsiasi cosa
tocchi.