23.11.23

Buio in Sala Crime, 4 documentari di True Crime da vedere su Netflix - "Amanda Knox" - "Kai, l'autostoppista con l'accetta" - "Il caso Isabella Nardoni" - "Missing : Il caso Lucie Blackman"

 

In un paio di giorni (due settimane fa...) ho visto 4 documentari di True Crime su Netflix.
Parlo di "docufilm" (anche se bisognerebbe specificare bene cosa sia un docufilm), non di miniserie, miniserie che vorrei cominciare a vedere tra un pò di tempo.
Come faccio con i film "normali" avrei voluto prendere qualche appunto durante la visione e recensirli nel miglior modo possibile.
Poi, però, mi sono accorto che questi documentari sono realizzati un pò tutti alla stessa maniera (ovvero benissimo, farli meglio di così è difficile) e che provare un'analisi "cinematografica" fosse quasi inutile, o che comunque ne bastava una per tutti.
Quindi faccio questo post semplicemente per segnalarvi questi bei doc e, in qualche modo, presentarveli.
Quattro storie affascinanti e interessantissime.
Una conosciuta da tutti, quella di Meredith (io poi sono di Perugia...), quella assurda di un giovane autostoppista che armato di accetta salva una donna da un'aggressione (e in 3 mesi passerà da eroe nazionale a ricercato per un altro omicidio), quella terribile di una bimba lanciata da un palazzo in Brasile (storia da noi sconosciuta, laggiù - invece - è forse una delle più famose di sempre) e quella di una giovane ragazza inglese scomparsa a Tokyo.
Alla fine i bei documentari di true crime questo devono avere, ovvero una storia "bella", particolare, non banale, tragica ma affascinante, ed essere raccontati come ogni grande documentario dovrebbe essere raccontato, con più materiali d'archivio reali possibili.
Questi 4, chi più chi meno, hanno tutto questo

OVVIAMENTE PRESENTI SPOILER



E' il 2007 (tra l'altro l'anno più assurdo della mia vita) e qui a Perugia viene uccisa barbaramente una ragazza inglese di 22 anni, Meredith Kercher.
Fu uno shock qui in città, città da sempre conosciuta per i giovani e per le Università, soprattutto quella per gli stranieri, una delle prime 3 in Italia.
Mai avremmo pensato però che questo caso, per tutti i suoi sviluppi, sarebbe diventato una delle vicende di true crime più importanti, controverse e famose della storia italiana.
Quando mi sono approcciato ad "Amanda Knox" avevo paura che fosse un documentario "in sua difesa" o addirittura realizzato dalle persone intorno ad essa. 
Ricordavo un libro, ricordavo interviste, ero sicuro che si fossero autoprodotti anche un documentario ad hoc.
Fortunatamente no, "Amanda Knox" su Netflix è una ricostruzione molto bella, oggettiva, intellettualmente super partes (anche se diventa, giocoforza, leggermente di parte avendo interviste solo di Amanda e Raffaele e non di Rudy, cosa assolutamente normale visto che i primi due sono liberi e il terzo no), davvero interessante anche per chi, come me, su questa vicenda ha visto tutto e di più.
Questo grazie a quello che dovrebbe essere il segreto di tutti i migliori documentari crime (che siano film di un'ora e mezzo, miniserie tv o anche video di 20 minuti sul tubo), ovvero recuperare il maggior numero di materiale d'archivio possibile.
E' davvero difficile infatti realizzare documentari crime di alto livello con solo ricostruzioni di fiction (anche se abbiamo delle eccezioni, come l'incredibile "L'impostore") mentre, quasi sempre, se vediamo immagini reali, volti reali e reali vicende difficilmente avremo qualcosa di non qualitativo o che non ti tiene incollato.
"Amanda Knox" ha veramente dentro un sacco di materiale, specialmente i video dei carabinieri e dei RIS dentro l'appartamento di via Pergola (ogni volta che passo in quella via impossibile non guardare a destra la villetta), che sono riportati in maniera quasi completa, cosa rarissima (molto forti).
Inutile dire che la "star" (o antistar) del Doc è Amanda, ragazza da sempre magnetica, ambigua, sfuggente.
E molto furba.
Il fatto che il documentario la intervisti per tutto il tempo e ripercorra tutta la sua vita pre e post Meredith per quanto mi riguarda non rende questo lavoro agiografico o assolutorio visto che non viene tralasciato nulla delle indagini, dei processi, dell'accusa e dei dubbi giganteschi che la coppia Sollecito - Knox ha sempre sollevato (alcuni loro comportamenti gridavano - e gridano - colpevolezza, da sempre).
Tantissimi scorci della mia meravigliosa Perugia, ricostruzioni degli avvocati di ambo le parti, immagini e interviste della famiglia di Meredith, un largo spazio ad un famoso giornalista inglese (abbastanza insopportabile e narciso), video dei sopralluoghi, il vergognoso arresto di Lumumba, spiegazioni delle prove con grafiche accattivanti e tanto altro.
Forse uno spazio troppo esiguo per la questione della "messinscena" sul luogo del delitto e soprattutto su Guede, ma questa scelta combacia perfettamente con quello che è successo realmente, ovvero come la vicenda di Rudy sia sempre stata messa in secondo piano rispetto a tutte quelle della Knox, Knox che, per estetica, comportamenti e ambiguità è sempre stata colei che ha attirato tutte le attenzioni.
Una ragazza che qui non amiamo (siamo colpevolisti, lo ammetto), che sin dal primo giorno si comportava in un modo in cui un innocente non si sarebbe mai comportato e che, soprattutto, aveva un suo DNA nel manico del coltello probabilmente usato per l'omicidio (trovato a casa di Sollecito).
Una che dopo nemmeno una settimana che si erano conosciuti parlava di quella con Sollecito come una grande storia d'amore (forse solo perchè le serviva qualcuno per difendersi, giovane e sperduta com'era) ma che a 20 anni appena compiuti aveva invece già avuto una vita che disinibita è dir poco.
A sentirla nel doc sembra una donna adesso molto matura, molto forte, molto sicura della sua innocenza.
Io mi auguro, e le auguro, che sia veramente come dice e, se è così, che possa essere felice.
E, lo ammetto, la telefonata che fa in italiano presumibilmente a Sollecito dopo la scoperta dell'assoluzione (altro documento questo inedito in questo documentario) mi ha inaspettatamente emozionato, forse una delle prime volte in cui ho percepito Amanda come sincera.
Momento cult (un pò divertentissimo e un pò cringe) quello in cui il "nostro" avvocato Biscotti, in risposta agli statunitensi che l'attaccavano, dice: "Qui nel 1308 abbiamo aperto la prima facoltà di Giurisprudenza d'Europa. In America nello stesso tempo forse disegnavano bisonti nelle caverne"
In definitiva per alcuni aspetti un documentario abbastanza definitivo (ripeto, solo per alcuni aspetti, come quello della perfetta cronologia degli eventi) e che ha il merito di darci una quantità di materiale originale eccezionale.
Resterà sempre di noi l'immagine di una ragazza che gira per Perugia, i suoi capelli neri, quel suo voltarsi, quel meraviglioso viso che aveva Meredith.


Ecco, questa probabilmente dei 4 è la vicenda più assurda, stramba e originale.
Seppur, ovviamente, tragica anch'essa.
C'è un incidente per strada e l'uomo che l'ha provocato scende alla macchina impazzito.
Dice di essere Gesù, vuole uccidere tutti i neri e altre farneticazioni simili.
Mentre sta per strozzare una donna di colore arriva un ragazzo giovanissimo (che, incredibilmente, aveva proprio fatto autostop con quell'uomo) che, a colpi di ACCETTA libera la donna e mette fuori gioco l'uomo (senza ucciderlo però).
Arriva un giornalista del luogo che intervista il ragazzo, un'intervista che passerà alla storia degli Usa.
Il giovane racconta con naturalezza quello che è successo, manda messaggi di pace e amore al mondo, e mima le accettate che ha dato all'uomo.
Quel gesto e quegli "smash! smash! smash!" diventeranno virali, meme su meme, parodie, di tutto.
Tutti vogliono trovare Kai, l'autostoppista eroe con l'accetta, tutta l'America lo vuole, tutte le ragazze lo cercano.

Kai è un senzatetto, ha un passato tremendo e, dentro di sè, delle parti super oscure.
E presto passerà da eroe USA a ricercato, ma per altri motivi.
Documentario davvero straordinario per l'assurdità delle cose che accadono, per l'incredibile magnetismo e carisma di Kai, per la curiosità che mette allo spettatore sapere come la storia andrà avanti.
Viene raccontato un mondo senza scrupoli, pieno di avvoltoi che cercano di sfruttare la popolarità di Kai senza minimamente rendersi conto delle condizioni psicologiche del ragazzo (che sembra vivere in un mondo tutto suo, a tratti dolcissimo, a tratti che mette i brividi per come può scattare all'improvviso).
Un reality tutto su di lui (dai produttori di quello delle Kardashian), interviste nei più noti talk show, su Kai si avventano tutti, vista l'incredibile storia che rappresenta (l'essere homeless, il mandare messaggi d'amore mentre quasi uccide uomini, il non essere rintracciabile).
Poi, però, succede un gravissimo fatto di sangue e, ben presto, si scopre che l'assassino è proprio Kai.
Un omicidio brutale, violentissimo, che forse ha matrici ben solide (Kai è stato davvero stuprato da quell'uomo?) o forse no.
Ed ecco che il ragazzo eroe adesso diventa un mostro, ed ecco che tutte le sue stranezze che prima venivano viste con simpatia adesso sono lette come inquietanti.
Per un'ora e 20 avremo quasi soltanto filmati originali, scopriremo una storia famosissima negli USA ma quasi sconosciuta da noi, ci divertiremo, resteremo affascinati da Kai e schifati dai media, ci commuoveremo per il passato del ragazzo e, al tempo stesso, avremo in qualche modo sempre "paura" di lui.
Davvero notevole




Senza dubbio il documentario che fa più male.
Voglio dire, quando una vicenda racconta di una bambina di 5 anni buttata dal sesto piano di un palazzo ci sono davvero poche cose che possono colpire di più.
La vicenda di Isabella Nardoni è, ovviamente, famosissima in Brasile (forse ho detto "ovviamente" in modo troppo scontato visto che da noi un paio di storie identiche sono passate quasi del tutto inosservate), così famosa che questo documentario, più che la vicenda in sè, racconta tutto quello che è successo intorno.
Un popolo intero che si solleva, che va per strada, che manifesta, o le interviste televisive dei protagonisti (quelle per scagionarsi dei due assassini ma anche quelle, un pò da primadonna, del magistrato), o la lotta di "classe" che è scaturita (il padre dell'accusato è molto ricco e ha sempre fatto vivere suo figlio sotto la sua protezione), sono moltissimi gli aspetti che hanno fatto diventare il caso della povera Isabella un qualcosa di gigantesco, "nazionale" e terribilmente mediatico.
Direi che in Italia questo caso possiamo paragonarlo per alcuni aspetti a quello della Franzoni, e non solo per il circo che ne è venuto fuori, non solo perchè è morto un bambino, ma anche perchè siamo davanti ad uno di quei casi che, anche senza prove schiaccianti, qualsiasi persona di buon senso si troverà a dire "non può NON essere stata lei" (o loro, in questo caso).
Come i famosi 8 minuti a casa della Franzoni (chi mai in un tempo così breve avrebbe dovuto entrare in una casa, uccidere un bambino senza alcun motivo, e poi andar via?) anche qua gli assassini li abbiamo già, per pura logica.
Un padre che torna a casa con la nuova compagna, con la figlia - Isabella - del precedente matrimonio e i due nuovi figli acquisiti, lo stesso padre che senza alcun motivo dice di essere salito in casa con la sola Isabella per metterla a letto e poi tornare in garage (sei piani sotto) a prendere gli altri, una bambina che cade dal sesto piano (anzi, viene gettata visto che c'è una rete di protezione che è stata tagliata) proprio mentre, in due minuti, il padre sta tornando in garage.
Insomma, come nel caso della Franzoni, l'unico scenario alternativo possibile è quello di un pazzo che in 5 minuti entra in un appartamento, uccide una bambina strozzandolo e buttandolo dalla finestra e poi esce.
Capite da soli che, anche nella stringatezza di questo breve riassunto, si capisce quanto questo sia uno di quei casi che  - se è vero che per la legge deve essere dimostrato - per la logica solo in un modo può essere andata.
Umanamente ci sono momenti molto forti, specie tutti quelli che riguardano Isabella e la giovanissima madre (lasciata sola dal presunto assassino dopo appena un anno) o i ricordi delle cugine e dei nonni.
Questa ragazza-madre così buona, così ancora legata al vecchio compagno, così contenta che Isabella "vivesse" anche l'altra famiglia.
E poi, piano piano, una verità (l'unica possibile) che viene fuori.
Ed è una verità sempre più terribile, con la scoperta che Isabella, prima di esser stata gettata, fu strozzata (anzi, probabilmente è stata gettata per quel motivo, per coprire quell'omicidio).
E se è vero che nelle ricostruzioni dell'accusa ci sono parti per niente convincenti ed "errori", se è vero che questo probabilmente è stato un processo quasi inutile, visto che un intero paese ormai gridava odio ai presunti assassini, è anche vero che lo spettatore non può NON provare disgusto ed odio ogni volta che vede quel volto da pesce lesso del padre e quello - fintamente commosso - della nuova compagna.
Forse come struttura questo documentario non riesce ad andare in climax, anzi, la seconda parte pare abbastanza prevedibile e scontata, e anche leggermente ripetitiva.
Ma la vicenda raccontata è incredibile ed incredibili i comportamenti di alcuni dei protagonisti.
Proverete commozione, dolore, rabbia, curiosità, disgusto.
Un padre inumano e una matrigna, almeno lei, che ha sicuramente come parzialissima scusante una forte depressione, dei disturbi mentali, un buco senza fondo in testa (ragazza bellissima ma senza alcuna amicizia, una casa tenuta in modo disastroso, l'assoluta solitudine).
Quello che è strano, e il documentario lo ricorda, è che siamo davanti un rarissimo caso di due condannati che, negli anni, hanno continuato a professarsi innocenti (e questo è normale) senza però (questo rarissimo) accusarsi mai l'uno con l'altra.
Non si sa sia dovuto al fatto che siano veramente innocenti (direi impossibile, ma si sa mai), se per una specie di patto d'amore fatto o perchè qualcuno dei due è riuscito completamente a manipolare l'altro.
Intanto Ana Carolina (la madre di Isabella) è riuscita a rifarsi una vita, avere altri figli, appoggiare una coltre di felicità sull'apertura di quel pozzo di dolore senza fondo. 



Una giovane ragazza inglese pazza del Giappone.
Il sogno realizzato di trasferircisi per lavorare, conoscere meglio quella cultura e fare un'esperienza di vita.
Poi, d'un tratto, quella ragazza scompare.
In una delle città più popolose e "dense" di tutto il pianeta.
Il padre arriva in Giappone e, in modo commovente, lotta con tutte le sue forze per ritrovarla.
Una storia tristissima e torbida che, purtroppo, ha la fine che tutti si erano ormai aspettati.
Ecco, forse questo tra i 4 documentari è quello più "investigativo", nel senso quello che racconta di più le varie indagini per trovare un colpevole.
Questo è senz'altro un suo punto di forza perchè, a differenza degli altri 3 documentari, non sappiamo già chi è l'assassino (o il presunto assassino).
A tutto questo unite il sempre affascinante mondo giapponese ed il gioco è fatto.
Suo punto di forza (come nel caso della Nardoni) è quello umano, è l'empatia che lo spettatore instaura sia con Lucie (immaginarsi che fine potrebbe aver fatto una ventenne sperduta in un altro stato, in una città così gigantesca e alienante, è davvero forte) sia col suo meraviglioso padre che, non solo con commozione e dolore, ma anche con rabbia, forza, dedizione e coraggio farà di tutto per "smuovere" tutta Tokyo per ritrovare Lucie.
Il documentario - mi ripeto - è realizzato benissimo, con una grandissima quantità di interviste sia d'archivio, al momento dei fatti, che di adesso, a bocce ferme.
E' molto interessante l'unione di questi due mondi, anche investigativi, tra gli inglesi e i giapponesi.
Come è interessante il contrasto tra luoghi squallidi e altri ricchissimi, in un documentario in cui c'è sempre la sensazione che il marcio sia dietro uomini con montagne di soldi.
E, come in un film, c'è la voglia (e la speranza) di scoprire come è andata a finire, di trovare l'assassino (perchè la speranza che Lucie sia viva è veramente nulla. In ogni caso ne approfitto per consigliare di guardare documentari di vicende che non si conoscono senza andarsi prima ad informare, li vivrete in tutt'altra maniera. Solo poi, dopo, è bello informarsi).
Alla fine possiamo dire che questo documentario ha le stimmate di un thriller.
Poi, attraverso un paio di finezze investigative, arriveremo a scoprire tutto e si aprirà a noi un mondo orribile di una persona orribile, un serial killer, un violentatore, un perverso, uno proprio di quegli uomini che incarnano completamente il Male assoluto.
La parte più emozionante, però, sarà quella finale, molto tragica, vero, ma umanamente la più bella.
Il ritrovamento di Lucie in quella sporca e squallida caverna vicino al mare, il dolore del padre, la straordinaria empatia dei giapponesi che non solo costruiranno - in quell'impervio spazio - un altare per la ragazza, ma andranno anche a trovare la famiglia in Inghilterra.
Davvero bello.

17.11.23

Recensione: "C'è ancora domani" - Scritti da voi - di Angela Sid



C'è un film di cui stanno parlando tutti tutti tutti, quello della Cortellesi.
Come già feci con Barbie - che feci recensire ad una 16enne perchè mi dispiaceva un sacco non avere "una voce" (in quel caso molto positiva) qui nel blog, dato che a me non interessava - anche stavolta ho affidato la recensione a qualcun altro.
Lei è Angela, amica che mi aiuta da due anni sulla pagina Instagram e qui al debutto nelle "recensioni".
In realtà, a differenza di Barbie, sono sicuro che un giorno questo film lo vedrò anche io.
Intanto vi lascio alla recensione di Angela, recensione che - come mio costume coi film non visti - non ho letto ma, conoscendo lei, sono sicuro sarà interessante e ben scritta.


Di questo film sta parlando (giustamente) chiunque, in Italia e all’estero. C’è chi lo ha definito un capolavoro, chi lo ha denigrato aspramente, chi lo ha trovato banale e didascalico e chi l’ha definito il “Barbie” italiano.
E allora perché leggere l’ennesima recensione del film del momento?
Perché non è una recensione.
Perché non parlerò dei numeri, degli incassi, delle sale piene, degli applausi o degli occhi lucidi a fine proiezione.
“C’è ancora domani” non è un film perfetto. Non è il film migliore che ho visto, non è il più bello, né il più commovente, non è il più doloroso né il più poetico. Però è il film che mi ha fatto trovare il coraggio di pubblicare per la prima volta una mia “recensione”. E se proprio dobbiamo trovare un merito a questo film (non è necessario che ogni film ne abbia uno) sicuramente questo film ha il merito o, per lo meno lo scopo, di infondere coraggio.
“C’è ancora domani” serve a ricordarci da dove (e soprattutto da chi) veniamo e dove possiamo arrivare.


È un dramma ed una commedia insieme, con un bianco e nero che porta direttamente indietro nel tempo, al dopoguerra in cui è ambientato, ma con una colonna sonora che sta lì apposta per dirti che si, è storia, è il passato di (tutte) le famiglie, ma non è così passato e non è così lontano.
La sinossi è semplice e, se vogliamo, anche scontata: famiglia alla soglia della povertà che, nella periferia romana del secondo dopoguerra, cerca di sopravvive e mandare avanti la baracca tra un marito ex tombarolo e violento, due figli maschi agitati, una figlia, Marcella, a cui è stata negata la possibilità di studiare per la sopradetta condizione economica, il nonno (padre di lui) fascista e più mascalzone del figlio e Delia, la mamma-moglie-sarta-infermiera-cuoca-aggiustaombrelli-idraulica-tuttofare protagonista della storia. Gli abusi che Delia subisce non sono solo le botte che prende in casa dal marito, narrate magistralmente e trasformate delicatamente in passi di danza che sembrano parte di una coreografia provata così tante volte da poter essere eseguita ormai a memoria, senza alcun errore, e con la musica al posto del rumore dei colpi, che forse fa più male che averle effettivamente sentite, quelle botte che fanno tremare le mura di casa. Le vessazioni che Delia (e tutte le donne di questo film) subisce vanno dalla privazione della libertà, della parola, alla differenza salariale.
Per questo è un film che a molti (maschile plurale sovraesteso non a caso) è sembrato banale, scontato, non necessario o evitabile. Perché parla, per l’ennesima volta, del femminismo più diretto e immediato che si possa immagine. Impossibile non empatizzare con quelle donne, di qualunque estrazione sociale, che si sentono dire per tutta la vita, prima dai padri, poi dai mariti: “Zitta tu”, anzi “A bocca chiusa”.
È un dramma e una commedia insieme perché si ride, si piange, ci si commuove, si empatizza, si prendono le distanze e ci si arrabbia.
Le scene più autentiche e riuscite sono quelle di effettivo supporto e spensieratezza tra Delia e la sua amica Marisa, che sembra l’unica a non accettare le violenze che l’amica subisce ma a guardarla con tenerezza, non colpevolizzandola, prestandole sempre complicità; quelle più delicate quelle tra Delia e Nino, l’amico meccanico, primo fidanzatino, il primo amore mai consumato, la riflessione su qualcosa che poteva esserci e non c’è stato e che potrebbe essere ma non sarà mai.
C’è poi la complicità con le altre donne che sanno tutto ma non fanno (o non possono fare) nulla; c’è la speranza del riscatto sociale di tutta la famiglia conquistato attraverso il matrimonio della figlia con il figlio del “ripulito” proprietario di un bar; c’è il soldato americano che nella più assoluta incomunicabilità cerca di aiutarla (ed effettivamente ci riesce). Non ci sono grandi rivolte o manifestazioni urlate. C’è la vicina di casa che presta la tovaglia buona per il pranzo del riscatto e c’è il gesto, che mille volte abbiamo visto fare, dello spolverare il servizio di piatti e bicchieri, quello “buono”, la sera prima del pranzo per “fare bella figura”. C’è lo scorrere della quotidianità e la totale fiducia nel futuro, nella storia, nel cambiamento che arriverà.


Ma la cosa che, in assoluto, mi ha colpita e ferita di più, più delle botte, più delle umiliazioni, più di tutto quello che Delia sceglie di sacrificare, più del non vederla mai sedersi a tavola, più del vederla fare le scale a piedi con il cesto del bucato perché non era concesso loro di prendere l’ascensore insieme ai “signori”, più dello scegliere quella famiglia rispetto alla prospettiva di un’altra vita (prospettiva a cui lei non pensa neanche per un attimo) sono le parole della figlia nei suoi confronti. Più di tutto, in questo film, è estremamente dolorosa la mancanza di complicità, di empatia, di comprensione e, al contrario, la rabbia da parte di una figlia che vede (e subisce) le orinarie dinamiche dolorose e pensa che la colpa di tutto sia della madre, che lascia che accadano. La giudica, non rendendosi conto che il futuro che stava scegliendo era tale e quale alla scelta passata, e tanto criticata, della madre. Pensa che sua madre possa scegliere, non lo ha fatto e continua a non farlo, pensa che lei sia inutile perché permette al marito padre-padrone di comportarsi come fa, senza tentare nessuna reazione. E invece Delia reagisce, in silenzio, di nascosto, nel modo migliore in cui può farlo, per lei e per il futuro dei suoi due figli maschi e soprattutto di quella figlia femmina che, solo alla fine, riesce a sostenere e, in qualche modo, proteggere sua madre. Reagisce con quella totale fiducia nei confronti del futuro che ci fa quasi impallidire e sentire i morsi dei sensi di colpa per un futuro (oggi presente) che non è come quello che Delia e tutte le altre donne speravano.
Non è un film che svela, o rivela, chissà quale grande segreto o verità. Questa storia, quei passi di danza, quelle coreografie le conosciamo tutte e tutti, direttamente o indirettamente. Però è un film che, almeno a me, ha ricordato perché a bocca chiusa io non ci sono mai stata.

Andando al cast: Paola Cortellesi, all’esordio come regista e come attrice protagonista, credibile e perfetta; Romana Maggiora Vergano (la figlia Marcella) bravissima, intensissima e bellissima; Emanuela Fanelli (Marisa, la migliore amica di Delia) quota spensieratezza e simpatia, conquista subito con quel rapporto che, tra le due, sembra autentico; Valerio Mastandrea (Ivano, marito padre-padrone) riesce così bene in questo ruolo che credo lo detesterò per sempre; Francesco Centorame (Giulio, fidanzato promesso di Marcella) è semplicemente perfetto con quel sorriso che incanta il cuore e quelle mani che vorresti staccargliele; Vinicio Marchioni (Nino, il meccanico) timido ed ineccepibile nell’interpretazione di chi poteva essere felice e forse, finalmente, trova il coraggio per esserlo davvero; Giorgio Colangeli (Ottorino, il nonno dispotico) magistrale e credibilissimo.
Sulla colonna sonora, invece non mi dilungherò perché rischio di piangere al solo ricordo. Da “Aprite le finestre” di Fiorella Bini a “A bocca chiusa” di Daniele Silvestri, passando per “La sera dei miracoli” di Lucio Dalla e “B.O.B. – Bombs Over Baghdad” degli Outkast, ogni suono sembra messo al posto giusto.


“C’è ancora domani” è un film che parla di azioni quotidiane, di dinamiche nascoste e di altre note, di rivolte silenziose, attuate a bocca chiusa, di cose che sono successe e che continuano a succedere, di libertà negate e di quelle conquistate, di passato e di futuro. È storia ed è presente.
Didascalico probabilmente, immediato sicuramente, questo film ha fatto incazzare (quasi) solo i maschi bianchi etero cis basici. E allora forse di questo film, e di film come Barbie, e di tutti gli altri film in cui il femminismo è latente o è manifesto, è nascosto o è urlato, di film che fanno discutere di patriarcato, di disparità salariale, di diritto di voto e di parola, ce n’è ancora bisogno.

2.11.23

Recensione: "Anatomia di una caduta" - Al Cinema 2023

  

"Anatomia di una caduta" è un film magnifico che, per quanto mi riguarda, ha come unico difetto l'eccessiva durata (dovuta ad una parte centrale, quella del processo, assolutamente troppo prolissa).
Un bambino cieco trova suo padre morto, nella neve.
L'uomo sembra essere caduto o essersi gettato dalla soffitta, ma in casa era presente anche la madre, che risulta quindi indagata.
Ne nasce così un grandissimo film che analizzando quella "caduta" analizza invece un intero rapporto di coppia, con tutte le sue crepe, i suoi problemi, i suoi segreti.
Dialoghi magnifici per un giallo sull'impossibilità di raggiungere una verità e su come per ogni cosa ci può essere sempre un punto di vista diverso per giudicarla.
Sandra e Samuel siamo tutti noi, sono tutte le nostre storie d'amore difficili, tormentate, a volte pure "mortali".
E' impossibile descrivere l'anatomia di un amore o di una vita.
Perchè l'anatomia è scienza, e tutte le nostre vite e le nostre emozioni, scienza, non potranno mai esserlo.

"Devi prendere una decisione"

dice la tutrice di Daniel al bambino.
Non riguarda tanto quello che pensi, non riguarda tanto quelli che provi, ma riguarda quello che decidi sia meglio per te.
Forse, in mezzo agli innumerevoli e superbi dialoghi del film, questo potrebbe restare nascosto o dimenticato.
Eppure credo sia importantissimo, probabilmente il più importante e indicativo per dare una soluzione al giallo e alle vicende.
Daniel depone per l'ultima volta, in piedi, nel sui mondo oscuro di ombre e dolori.
Sembra aver finito di parlare eppure vuole aggiungere un'ultima cosa, che sembra una piccola postilla quando, invece, è semplicemente il "nuovo" frutto nato di quel "devi prendere una decisione" del giorno prima.
Daniel ha deciso.
Ha deciso che anche se il suo cuore magari dice altro, anche se il suo senso logico magari dice altro, anche se le sue sensazioni sono altre, lui non vuole perdere anche sua madre, l'unica cosa che gli è rimasta (oltre al suo splendido e commovente cane).
Parte il racconto, probabilmente inventato, di quel viaggio in macchina col padre verso il veterinario.
Sono 5 minuti straordinari, emotivamente giganteschi, incastonati in un'ultima mezz'ora che, emotivamente gigantesca, lo è quasi sempre.
Cinque minuti sulla necessità di prepararsi alla morte di chi ami, sull'ineluttabilità della stessa morte, sul concetto per cui ogni vita è vissuta con diversa intensità e, quindi, quel "super cane" che ha dato la sua esistenza per Daniel, proteggendolo da tutto e dovendo spendere energie gigantesche per farlo, magari era destinato ad andarsene prima del previsto, troppo stanco.
Un pò quello che successe con John Coffey ne "Il Miglio Verde".
"Sono stanco capo", disse quell'uomo che, seppur ancora giovane, aveva usato tutte le sue energie per salvare ogni volta la "malattia" degli altri.
Come del resto - da qui l'analogia pensata da Daniel-  Samuel, il padre, era un uomo che aveva dato tutto, aveva amato, sofferto, lottato fino a quel momento, e magari si sentiva stanco, arrivato al culmine, svuotato.
Pronto ad andarsene.
E' straordinario come ad un certo punto le parole dette in tribunale da Daniel diventino, nel ricordo, una specie di "doppiaggio" del padre, il viso e labiale di lui, le parole del figlio.
A darmi ancora più la sensazione che quel ricordo non sia reale, ma sia stato costruito dallo stesso Daniel.
Una scena di impressionante bellezza.
E, se ci pensate, esattamente "contraria" all'altra scena madre di questo magnifico film, quella dell'ascolto in tribunale del file audio della litigata.
Ecco, ad un certo punto - brividi - il flash back del litigio "apparso" a noi spettatori con l'audio scompare, per lasciarci solo i rumori di una lite spaventosa, di una vera lotta a calci e pugni.
Lotta che quindi noi spettatori non vedremo, come del resto non poteva vederla nessuno dei presenti in quel tribunale, a ricordare che noi dobbiamo essere come tutti i personaggi del film, non avere alcun elemento in più per conoscere la verità.
O interpretarla.
Ecco che quindi una scena reale e drammatica successa veramente ci viene preclusa allo sguardo proprio nel momento in cui sarebbe stato più importante vederla, mentre la scena del ricordo di Daniel, probabilmente non reale, ci viene mostrata (anche se con l'artificio della voce del figlio nel labiale del padre, pensateci, non può essere un caso).
Il vero nascosto e il falso manifesto.
Un pochino, se volete, questo potrebbe apparire il mantra dell'intero film, una magistrale architettura che nei suoi mattoni inserisce verità e bugie come fossero una calce perfetta.
Però poi, a ben pensarci, questo film di bugie al suo interno potrebbe averne pochissime, se non nessuna.
Sembra più che altro un film sull'interpretazione della verità, sulle suggestioni, sulle ricostruzioni, sull'analisi delle cose.
Con quella "caduta" del titolo che diventa invece sineddoche di intere vite, probabilmente non solo quelle dei protagonisti, ma anche delle nostre.
Anatomia in realtà è termine scientifico, incontestabile, quando ne viene descritta una quella è.
E attraverso disegni, computer grafica, modellini in tre dimensioni e ricostruzioni in cui vengono fatti cadere manichini dalla finestra, si prova veramente a dare un'anatomia a quella caduta.
Eppure ci sono 2,3,4 anatomie diverse di quella caduta.
Un ossimoro, l'anatomia una è e deve essere.
Ed è qui che questo magnifico titolo esplode, ovvero in questo tentativo inutile e impossibile di dare anatomia a cose che un'anatomia non ce l'hanno.
Questa caduta che non si riesce a ricostruire, così tanto complessa che due tesi completamente antitetiche sembrano entrambe assolutamente incontestabili, non è altro che la metafora di tutto quello che avviene nel film, ovvero il cercare di dare una "scientificità" ai rapporti umani, alle emozioni, ai comportamenti.
In tribunale si analizza la caduta ma poi, con uno zoom all'indietro a schiaffo che finisce in un campo larghissimo, si analizza l'intera vita di Sandra e Samuel cercando delle prove "scientifiche" per corroborare la stessa scientificità dell'analisi della caduta.
Eppure, ed è questo il messaggio più grande del film, non potrai mai dare forma all'informe, non potrai mai dare scientificità al non scientifico, non potrai mai pretendere di trovare certezze, verità monolitiche e punti di vista sicuri in quella cosa così incredibilmente schizofrenica, complessa, indecifrabile, bipolare, ipocrita - e per questo vera - che è l'esistenza umana.

Andiamo alla registrazione.
Appare il flash back.
Ogni frase di lui ci sembra giusta, perfetta, inoppugnabile,
Ogni frase di lei, dal suo punto di vista, lo stesso.
Eppure stanno dicendo cose una completamente opposta l'uno all'altra, per ogni aspetto analizzato viene esposto il suo contraltare.
Analizzando questo straordinario dialogo sembra di vedere i due periti forensi che danno le due versioni della caduta.
Entrambe sembrano reali, vere, condivisibili.
Sia nel caso della litigata che nell'analisi della caduta possiamo anche propendere più per l'una che per l'altra delle due posizioni (per esempio io ero più dalla parte di lui in quel dialogo, cosa molto strana per me che di solito sono sempre dalla parte di "lei") ma ci rendiamo benissimo conto che, alla fine, tutti hanno ragione, nessuno ha ragione, semplicemente ogni aspetto della vita ha punti di vista differenti e, addirittura, anche quando una verità sembra inoppugnabile (per restare in tribunale  diremmo "la prova") anche quella può essere analizzata, capita, per poi magari mostrarsi in altra maniera.
In questo senso la gigantesca figura di Daniel, il figlio (in un paio di scene mi ha devastato) diventa emblematica.
E' cieco per un terribile incidente, incidente successo "per colpa" del padre (virgolette d'obbligo, nessuno ha realmente colpa).
Incidente che diventa importantissimo nella sceneggiatura non solo in maniera "reale", ovvero perchè quel figlio così per sempre menomato diventerà un tormento incredibile per il padre, devastato dal senso di colpa e probabilmente da quel momento entrato in una spirale senza via d'uscita (molto interessante come in questo senso l'incidente abbia creato una specie di domino di disgrazie, tipo i costi delle cure troppo alti, la successiva mancanza di soldi, il dovere tornare a lavorare del padre invece di scrivere, tutta una serie di conseguenze reali che diventano anche simboliche, come se quel senso di colpa lo mangiasse così tanto da togliergli ogni bene e libertà), dicevo non importante solo per questo motivo ma anche per il suo valore metaforico.
Daniel non vede, è cieco.
Mentre noi analizziamo plastici, filmati, ricostruzioni, mentre noi vediamo i visi e i comportamenti di ogni singolo personaggio lui è lì, nel suo mondo oscuro di solo udito.
E' lì con un compito preciso, un compito che esplica già dopo 10 minuti di film:

"Io devo capire"

aveva detto. 
E così mentre il mondo fuori a colori mostra, dimostra e si mostra, mentre il mondo a colori urla e discute lui, a occhi chiusi, metafora se ce n'è una della riflessione, cerca di capire.
Su 10 personaggi del film è forse l'unico che non deve portare avanti una posizione, è l'unico che se ne sta lì, in mezzo, nè da una parte nè dall'altra, cercando di capire.
Ecco quindi che la sua cecità diventa un dono o un "vantaggio", quello della possibilità di estraniarsi da tutto e capire.
E quello che capirà, come detto all'inizio, si unisce all'altra frase simbolo del film , "devi prendere una decisione", e Daniel è forse così l'unico "a capire che non c'è niente da capire", che non ci possono essere certezze, che l'unica certezza in quella terribile situazione è il dubbio, che non ci può essere nessuna anatomia di una caduta, di una vita, di due vite o delle vite di ognuno di noi.


E allora, conscio di questa impossibilità di capire, sceglierà la via meno dolorosa, la via in cui avrà ancora una madre a fianco, una madre che FORSE ha anche causato la morte del padre, ma meglio un rapporto da ricostruire con l'unica persona che mi è rimasta al mondo che perdere per sempre quella persona, persona che poi, altrettanto FORSE, non ha colpa di nulla.
E' come se nel marasma ed incertezza della vita Daniel abbia scelto non tanto la via della verità (impossibile da imboccare) ma quella della sopravvivenza, probabilmente anche quella dell'amore.
In questo dubbio amletico (e, attenzione, per Daniel il dubbio non è solo sulla dinamica della caduta ma ce ne sono di molto più importanti, ovvero quello di capire se i suoi genitori si amavano davvero e quello di capire se la stessa madre lo ami) Daniel doveva "decidere" (per tornare alla tutrice) se vivere (salvare la madre) o morire (condannarla alla prigione a vita).
Ed ha scelto di vivere, anche perchè solo vivendo avrà modo, stando con lei, di continuare a capire.