Nuova recensione di Roberto, a suo modo "storica" perchè con questo 17imo appuntamento diventa la rubrica esterna più longeva nella storia del Buio in Sala.
Un film sconosciuto trovato su Netflix.
Le righe di presentazione, almeno per quanto mi riguarda, già mi prendono.
Vi lascio a lui
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Un film per niente memorabile, ma difficile da dimenticare.
Non accade niente. È già successo tutto.
Un uomo si risveglia sul pavimento del bagno ricoperto di sangue.
Comincia la sua giornata. Una discesa nell’abisso.
Non so perché sono qui.
Non so cos’è successo.
Ho paura, fa freddo, il mondo ha smesso di girare.
Non so di chi sia questo sangue sui miei vestiti.
È già accaduto.
Non sappiamo cosa, ma è già successo.
Un uomo si risveglia sul pavimento del bagno.
C’è sangue ovunque, ne è ricoperto. Ma non è il suo.
La mattina è appena nata. Un nuovo giorno è cominciato. Siamo a Stoccolma.
L’uomo si chiama Krister. L’espressione del suo volto, che non cambierà mai, è tanto inespressiva da essere inquietante.
Poi si sveglia, si dà una ripulita, esce di casa e se ne va in bici per la città.
Indossa sempre l’auricolare a un orecchio, parla al telefono. Frasi sconnesse, dialoghi scarni, quasi del tutto assenti. Apan è un film di silenzi, ma così carichi di urla che vibrano nelle tempie e nei polsi. Di chi era quel sangue? Perché ha dormito in bagno? Come ci si può addormentare sporchi del sangue di qualcun altro?
L’aria è immobile. Il cielo ha il colore dell’assenza.
Fa freddo, ho paura, non capisco cosa succede.
Io non sono qui. Questo non sono io.
L’assenza è uno degli elementi fondamentali della poesia.
Come il vuoto, il nulla, l’attesa, la sospensione, l’attimo in cui.
In Apan c’è tutto questo. Dunque c’è poesia?
Non lo so. Sì e no. C’è la violenza dell’assenza, questa sì.
E credo che, in fondo, ci sia qualcosa di intimamente poetico in questa storia – o meglio: nella sua narrazione, nella sua messa in scena, nel suo racconto (perché la poesia è un come e non un che cosa). C’è la tentazione del silenzio che si mischia e si confonde con la necessità dell’urlo. Ne viene fuori un’apnea esistenziale che non lascia scampo. Guardate gli occhi di Krister. Il suo volto. I suoi gesti. Il bisogno del silenzio intrecciato alla volontà della parola, che non conosce pietà.
Ma non basta presentarsi con un vestito da “poesia” per essere poetico. Così come non basta soffocare la realtà con atti di routine e normalità per cancellare le macchie di sangue.
No, questo non sono io.
Io mi chiamo Krister.
Sono una brava persona, sono un insegnante di scuola guida.
È stato solo un attimo, lo giuro.
Non è successo niente.
Apan non fa davvero niente per farsi ricordare, ma fa di tutto per non farsi dimenticare.
E bastano due minuti per sentire il peso dell’inquietudine sulle spalle, sulle palpebre, sul cuore.
L’uso ripetuto della mdp a mano libera, che inquadra Krister riprendendolo leggermente sopra, da dietro la testa, aumenta e intensifica l’effetto di angoscia. Un’inquadratura e un’angolazione che sembrano quelle di un videogioco, come se quella che vedessimo fosse la “visione del giocatore”, e quello sullo schermo il nostro avatar. Guardiamo e viviamo la giornata attraverso i suoi occhi e la sua prospettiva. Una giornata che si fa sempre più surreale e tremenda. Soprattutto quando lui torna a casa.
Davvero, non è successo niente.
Deve essere stato un incubo, solo questo.
Ci sono pezzi di notte che mi tagliano il cuore.
Krister esce di casa in bicicletta. Poi recupera l’auto dal meccanico. Poi va al lavoro e dà una lezione di guida. C’è un senso di angoscia costante in ogni gesto, in ogni sguardo, in ogni silenzio, in ogni parola. Poi ha un attacco di panico. Poi telefona alla mamma. Poi va al negozio di bricolage. Poi ha un attacco di panico. Poi gioca a tennis. E un altro attacco di panico. E il mondo che collassa, l’universo che frana, la vita che muore.
È tutto scollegato, inquieto, inquietante, angosciante, ossessivo, pervaso da un senso di sofferenza pronto a esplodere in un milione di lame taglienti. La trama è a pezzi, proprio come il suo protagonista.
Poi Krister torna a casa.
La verità è che non è colpa mia.
Ve l’ho detto, questo non sono io.
Dovete capirmi.
Io sono come voi.
Gli eventi insensati e le azioni sconnesse, apparentemente un segno di debolezza della storia, hanno invece una profonda connessione con il gelido senso di alienazione e distacco di quest’uomo dall’espressione impassibile, che però trasuda irrequietezza, smarrimento, terrore, angoscia. Una sensazione di insanabile frattura tra lui e il mondo.
Apan è una storia morbosa, compulsiva, ai limiti del disturbante. Eppure non accade niente. È già successo. Noi siamo (con) Krister, per tutto il tempo, e respiriamo il suo tormento.
Sin dal primo fotogramma siamo proiettati in questo vortice di assurda e assillante angoscia. Una spirale caotica e oscura. E ci rendiamo conto che Apan pone al centro della sua frammentata e sincopata narrazione il senso di colpa, l’alienazione, la rabbia, l’insanabile frattura psichica di una mente alla deriva nell’abisso del proprio sé. Ci rendiamo conto di ciò in un momento preciso. Il momento in cui Krister torna a casa e apre la porta.
Voi siete come me.
Potete capirmi.
Vero che potete capirmi?
Andrà tutto bene.
Lui è fermo, la mdp lo inquadra di spalle, poi si sposta e allora vediamo tutto.
Il corpo martoriato della moglie.
La donna è riversa in una pozza di sangue raffermo, nel salotto, sul tappeto, vicino al tavolino, in mezzo ai ricordi di una vita. Ecco cos’era accaduto. Ecco di chi era quel sangue sui suoi vestiti. Ecco chi sei, Krister: un assassino.
Lo vediamo compiere gesti insensati. Prima porta in casa i sacchi comprati al negozio di bricolage. Si avvicina alla moglie ma subito se ne allontana. Vai in camera da letto e accende la tv (ecco, qui, in questo passaggio insignificante e brevissimo io ci vedo la sintesi perfetta del film, ma ci torno dopo). È agitato, frenetico, confuso, stordito, e noi con lui. Cammina. Riflette (a cosa pensa? A cosa ha pensato? Cosa vuole fare?). Va in bagno e vomita. Non sa che cosa fare. O forse lo sa benissimo. Il panico lo assale, ancora. Sta per sedersi su un tavolino per riprendere fiato, urla la sua rabbia, quando accade qualcosa che gela il sangue nelle vene.
«Papà!».
Una voce arriva dal piano di sopra.
Un bambino, suo figlio.
Krister sale le scale, si affaccia nella camera del figlio. Tentenna, esita. Non dice una parola. Poi entra. Il ragazzo è steso a letto. C’è sangue sulle coperte, sui suoi abiti. Il papà aveva tentato di uccidere anche lui, ora è chiaro. Ecco per chi erano quei due sacchi comprati al negozio. Ma il piccolo non è morto. E sembra non sapere o credere che sia stato il padre a fargli del male. Avrà passato ore di agonia atroci. Poi ha sentito la presenza del padre in casa e ha gridato con tutto il fiato che avevo in corpo «papa!».
Krister guarda suo figlio, poi lo prende ed esce di casa, lo carica in auto e corre all’ospedale.
Andrà tutto bene.
Non è successo niente.
Voi non capite. Voi non capite.
Cosa avrei dovuto fare?
La corsa in ospedale. Istanti e istantanee di una giornata che non è nient’altro che una discesa libera nell’abisso di un’anima di un uomo che ha ucciso a coltellate la moglie e che ha tentato di uccidere suo figlio. È davvero inquietante e tremendo vedere il volto di Krister sempre con la stessa espressione, che mantiene anche nei momenti in cui la tempesta emotiva raggiunge vette insostenibili.