Credo che raramente mi sia capitato di vedere un film che vuole essere un capolavoro come questo.
No, perchè esistono film che possono esserlo, quelli che ci sperano, quelli seppur piccoli che lo diventano, quelli che, oggettivamente, lo sono.
La Grande Bellezza lo vuole essere, te lo dice ad ogni sequenza, ti guarda negli occhi e fa: "guardami, io sono un capolavoro, qui dentro c'è tutto, guardami quanto sono bello, intenso, profondo, affascinante, intelligente, spiritoso, monumentale, sottile e maestoso."
per farlo ci mette gli occhi, il sorriso e l'illegale bravura di Servillo, è lui è il Suo volto.
ma è il film che parla
e io l'ho guardato, l'ho fissato negli occhi e nelle labbra, mi ha fregato ancora una volta, ipnotizzato e gli ho risposto "Sì, sei un capolavoro"
poi, ripensandoci, qualcosina in quello che diceva non mi tornava ma la trance non è ancora passata
---------------------------------------------------------------------------------------------------------
( non intendo parlare di Fellini, Mastroianni e dolci vite, lo faranno tutti)
----------------------------------------------------------------------------------------------------------
Sorrentino non fa movimenti di macchina, Sorrentino volteggia, accarezza, accelera, rallenta, plana, accompagna, si distanzia e si avvicina, insegue, sfiora.
Non ci sono movimenti di macchina, è un tutt'uno di armoniosa e indescrivibile bellezza.
Le bambine che corrono nel giardino, Jep che costeggia il lungotevere, quei cieli che diventano terra e quelle terre che diventano cielo, tutto si muove, noi ne restiamo cullati, come una montagna russa per una volta non violenta e paurosa ma lenta e rassicurante. Tutto diviene la grande bellezza, lo è quella vera, autentica, quella che Jep crede irraggiungibile perchè sepolta dal chiacchiericcio e dal rumore della vita, dall'imbarazzo dell'uomo a stare al mondo; lo è Roma, magnifica come non mai, una città che vive i suoi contrasti placida e incazzosa, che vede prostitute sotto il Colosseo o gente che si manda apigliasselanterculo vicino al Gianicolo; lo è il film stesso, questa meraviglia di immagini e parole in movimento.
Ed è in questa città tanto eterna e immobile quanto gaudente e lussuriosa che fa finta di vivere la fauna umana raccontata da Sorrentino, un crogiolo di volti, voci, movimenti, apparenze e inganni che va a letto quando il resto della gente si sveglia. E in questa fauna, in questa giungla, il Re Leone è Jep Gambardella, uno scrittore fallito che ha deciso di dedicare la propria vita al Nulla, ma un Nulla così pieno, così lucente e così denso da sembrar Tutto, da far apparire anche il più disperato degli uomini come il più potente.
Sono tanti gli uomini che vivono nel nulla consapevoli di farlo ma qualcuno nel nulla ci affoga, qualcuno dal nulla si fa ipnotizzare, qualcuno nel nulla ci si nasconde e qualcuno, come Jep, nel nulla ci nuota e sguazza.
Se non fosse per il monologo finale, una splendida e terribile disamina della condizione umana, sarebbe quasi da pensare che Jep in questa vita ci sguazzi non solo contento di farlo ma del tutto inconsapevole di come in realtà questa (non)vita sia miserevole.
Eppure Jep a una sua amica, in una delle innumerevoli serate tra amici, in quel sabato perenne di dolce vita, eppure Jep a una sua amica una volta ha mostrato tutto lo sporco sotto il coperchio d'oro dell'apparenza. La demolizione controllata che subisce la donna è terribile, pluff, tutto quello che hai costruito lo vedi ora caduto ai tuoi piedi, anzi, lo vedono gli altri ai tuoi piedi perchè te l'hai sempre saputo che era lì. Pluff.
Eppure Jep, un attimo dopo, lo dice a tutti gli altri, ragazzi, non raccontiamoci storie, diamoci solo affetto tra disperati perchè questo siamo.
Il primo tempo è qualcosa di immenso, una frammentarietà incredibile ma così carica di bellezza, crudeltà, poesia e ferocia da restare storditi.
Ne parlai per Tarantino. Anche Sorrentino (buffo no? uno di Taranto, l'altro di Sorrento) è un regista verticale, uno che sa assemblare scene e dialoghi come nessun'altro ma che quando deve dare orizzontalità al film, quando vuole raccontare una storia, ha dei limiti molto evidenti. Eppure se in Django i limiti non erano voluti -perchè là una storia c'era e in qualche modo la si voleva raccontare- qua quella del regista napoletano è una scelta consapevole. Se mischiassimo a caso le varie scene avremmo quasi lo stesso film.
Ma è proprio quando Sorrentino dà linearità e consequenzialità, quando si concentra soltanto su una sola vicenda, quella della Santa, che il film per una buona mezz'ora perde tantissimo, un errore madornale, un peccato mortale a mio modo di vedere.
Tre scene completamente sbagliate, quella del bacio, con, tra l'altro, quella specie di occhiolino della suora di clausura al mandingo, quella del matrimonio con quel Cardinale troppo pacchiano per essere vero, e quella della cena (non tutta però), prolissa e stanca nell'incedere. Il personaggio interpretato da Herlitzka è davvero fuori luogo, non credibile. Sorrentino cercava un contrasto con l'assoluta purezza di Fede della Santa ma il contrasto lo si poteva ottenere con meno grossolanità a mio parere.
Fuori da queste tre scene difficile trovare qualcosa di sbagliato: si resta scioccati peggio di un horror a vedere quella bimba che imbratta la tela col suo dolore e la sua ribellione, si resta incantati dal racconto, al momento non terminato, della prima volta di Jep (qui c'è un Servillo da panico), si resta disorientati e schifati dalle sequenze col guru chirurgo plastico o quella del funerale come palcoscenico di sè (anche se quelle lacrime, non previste e da evitare, rimane il dubbio non siano vere), ci si ferma il cuore a vedere quei fenicotteri volare via, simbolo di bellezza ma anche di libertà mentre la santa, quasi per contrasto, dice di mangiare radici perchè le Radici sono importanti.
Le musiche ora nazional-popolari ora liriche accompagnano una galleria d'immagini straordinaria.
Sorrentino rende sublime il trash, pulito e lucente il lordume, elegante il degrado.
E mette in tavola una carbonara piena di Roma, omaggia la città come pochi hanno fatto prima di lui, e non contento della sua ricetta mette ancora più pecorino romano, Verdone qua, la Ferilli di là, Venditti e una notizia di Totti qua e là, perchè Roma ha bisogno delle sue icone e niente più di loro può raccontare meglio Roma.
La Ferilli poi è magnifica, la figura più tragica di tutte, perchè lei la sua sofferenza non la nasconde, lei non mette un vestito moderno alla sua grezza e sboccata romanità, non mette perline davanti al suo cuore o, se lo fa, gli occhi raccontano altro. Però, e qua purtroppo c'è un altro errore di Sorrentino, la sua morte arriva affrettata, una brevissima ellissi che non rende merito al personaggio.
Verdone è tutto in quell'unico suo spettacolo, in quel volto che per un secondo è terrorizzato che gli applausi non arrivino, poi arrivano, quelli che ha sempre aspettato. Ma forse questo momento sperato da sempre non è niente di che, ha atteso tanto tempo un attimo che non valeva quasi niente.
E, anche lui, con la schiena curva dal peso della sconfitta, se ne torna a casa.
Film ambizioso, pretenzioso, chissà quanti lo demoliranno.
E, forse, possono anche aver ragione.
Ma Sorrentino, per me, quella Grande Bellezza l'ha sfiorata, se non raggiunta.
Ed è uno dei pochi che può permettersi di mettere il mare nel soffitto e far credere anche a noi che sì, quel mare è là.
( voto 9 )