AD ASTRA
di James Gray
CONCORSO
Filippo Tassinari
In un recente futuro, una tempesta energetica minaccia la sicurezza della terra. L’astronauta Roy, figlio d’arte, verrà inviato in missione per cercare di scoprirne la causa e scongiurare il pericolo: il suo compito sarà quello di contattare il padre disperso 30 anni prima in una missione al largo di Nettuno.
Film di genere che non disdegna l’utilizzo di effetti speciali d’impatto e che percorre lo stesso binario psicologico visto con i precedenti Gravity e First Man: il viaggio ai confini dello spazio per risolvere un dramma interiore.
Voto: 5 e ½
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Riccardo Simoncini
Se si guarda alla selezione di Venezia degli ultimi anni, non si può non notare con interesse come tornino, con frequenza, i film nello spazio e della posizione di rilievo che questi assumono nella mostra nostrana. Verrebbe da chiedersi, dunque, al giorno d'oggi, quale sia il significato di continuare a produrre tali film. Siamo distanti dall'epoca in cui il cinema era un potente strumento di propaganda ed alimentava, spiegandone le potenzialità, il sogno della Luna. Ora quel sogno si è avverato, certo, ma la Luna non è lo spazio. L'universo è infatti immenso e con esso il sogno dell'uomo di scoprirne i limiti ed i confini. Così, anche il cinema deve spingersi oltre e raccontare non più le storie di chi deve farcela, ma di chi ce l'ha già fatta. Sta dunque avvenendo una trasformazione: da un racconto "verticale", di ascesa verso la meta, che dall'altitudine zero del mare porta a km e km in altezza nello spazio, ad un cinema "orizzontale", piano, livellato in questo senso. Qui il disagio e le difficoltà non sono più derivate dalla distanza che ci separa dalla Luna, ma al contrario dalla distanza che ci separa dalla Terra. Vivere nello spazio, più che vivere per raggiungerlo quello spazio. James Gray in “Ad Astra” racconta proprio di questo, rappresentando un futuro distopico dove molti pianeti e satelliti, come Luna e Marte, sono già ormai colonizzati ed umanizzati. Sì, perché quell’uomo divoratore di mondi e conoscenza, modella a sua immagine e somiglianza quei luoghi che invade, al pari di un dio. La natura dell’uomo antropocentrico impone su quei pianeti le sue regole, i suoi meccanismi sociali e di potere, arrivando così a contaminare i terreni del cosmo con guerre, business e turismo. È un mondo futuro, non troppo lontano dal nostro, dove l’uomo, come si diceva, è già nello spazio e lì vi ha creato la sua casa. Ma l’essere umano non si accontenta facilmente, perché non è mai colma la sua sete di conoscenza e così egli vuole spingersi oltre. Oltre alla Luna, oltre Marte. Ma non basterà nemmeno quello. E bisognerà andare ancora oltre, superando i confini della razionalità, cercando disperatamente qualcosa che non ha volto e non ha nome, né tantomeno fatti o prove a suo sostegno. Ma in tali situazioni, è facile perdere la fiducia. E così si rimarrà soli. Eroi solitari, che hanno osato spingersi oltre, come nel film gli astronauti Roy (Brad Pitt) e il padre Clifford (Tommy Lee Jones), protagonisti assoluti della vicenda. L’opera che ne risulta è di vera e propria epica fantascientifica, che punta in maniera predominante su un’estetica decisa ed ambiziosa, resa possibile dall’eccelsa fotografia di Hoyte van Hoytema e dalle musiche di Max Richter. Ma il problema del film sta proprio qui: nel volere concedere troppo spazio allo stupore, sacrificando purtroppo gran parte della narrazione.
di Noah Baumbach
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Riccardo Simoncini
Se si guarda alla selezione di Venezia degli ultimi anni, non si può non notare con interesse come tornino, con frequenza, i film nello spazio e della posizione di rilievo che questi assumono nella mostra nostrana. Verrebbe da chiedersi, dunque, al giorno d'oggi, quale sia il significato di continuare a produrre tali film. Siamo distanti dall'epoca in cui il cinema era un potente strumento di propaganda ed alimentava, spiegandone le potenzialità, il sogno della Luna. Ora quel sogno si è avverato, certo, ma la Luna non è lo spazio. L'universo è infatti immenso e con esso il sogno dell'uomo di scoprirne i limiti ed i confini. Così, anche il cinema deve spingersi oltre e raccontare non più le storie di chi deve farcela, ma di chi ce l'ha già fatta. Sta dunque avvenendo una trasformazione: da un racconto "verticale", di ascesa verso la meta, che dall'altitudine zero del mare porta a km e km in altezza nello spazio, ad un cinema "orizzontale", piano, livellato in questo senso. Qui il disagio e le difficoltà non sono più derivate dalla distanza che ci separa dalla Luna, ma al contrario dalla distanza che ci separa dalla Terra. Vivere nello spazio, più che vivere per raggiungerlo quello spazio. James Gray in “Ad Astra” racconta proprio di questo, rappresentando un futuro distopico dove molti pianeti e satelliti, come Luna e Marte, sono già ormai colonizzati ed umanizzati. Sì, perché quell’uomo divoratore di mondi e conoscenza, modella a sua immagine e somiglianza quei luoghi che invade, al pari di un dio. La natura dell’uomo antropocentrico impone su quei pianeti le sue regole, i suoi meccanismi sociali e di potere, arrivando così a contaminare i terreni del cosmo con guerre, business e turismo. È un mondo futuro, non troppo lontano dal nostro, dove l’uomo, come si diceva, è già nello spazio e lì vi ha creato la sua casa. Ma l’essere umano non si accontenta facilmente, perché non è mai colma la sua sete di conoscenza e così egli vuole spingersi oltre. Oltre alla Luna, oltre Marte. Ma non basterà nemmeno quello. E bisognerà andare ancora oltre, superando i confini della razionalità, cercando disperatamente qualcosa che non ha volto e non ha nome, né tantomeno fatti o prove a suo sostegno. Ma in tali situazioni, è facile perdere la fiducia. E così si rimarrà soli. Eroi solitari, che hanno osato spingersi oltre, come nel film gli astronauti Roy (Brad Pitt) e il padre Clifford (Tommy Lee Jones), protagonisti assoluti della vicenda. L’opera che ne risulta è di vera e propria epica fantascientifica, che punta in maniera predominante su un’estetica decisa ed ambiziosa, resa possibile dall’eccelsa fotografia di Hoyte van Hoytema e dalle musiche di Max Richter. Ma il problema del film sta proprio qui: nel volere concedere troppo spazio allo stupore, sacrificando purtroppo gran parte della narrazione.
MARRIAGE STORY
di Noah Baumbach
CONCORSO
Filippo Tassinari
Storia di un matrimonio, quello tra Nicole e Charlie, che va in pezzi, incrinandosi lentamente, e di una famiglia, che prova a rimanere unita.
Raccontato attraverso intensi e serrati dialoghi, non perdendo però mai una scanzonata leggerezza che allevia momenti più drammatici. Scarlett Johansson, Adam Driver e Laura Dern in stato di grazia.
Voto: 7
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Riccardo Simoncini
Scoprire cos'è l'amore attraverso la sua decostruzione e negazione. Come se, per capire com'è fatta una casa, iniziassimo a demolirla per vederne lo scheletro, i pilastri portanti, i mattoni che la costituiscono. Come se, per scoprire com'è fatta la Terra, cominciassimo a scavare, in profondità, rimuovendo strato dopo strato le parti che la compongono. Noah Baumbach in Marriage Story compie proprio quest'operazione: decostruisce, studia l'amore attraverso la sua negazione, il suo opposto. Come se per rispondere alla domanda: "Cos'è l'amore?" dovessimo prima trovare risposta alla domanda "Cosa è l'assenza di amore?". Una storia che sta per finire culmina con la separazione dei protagonisti: Nicole e Charlie, interpretati da Scarlett Johansson e Adam Driver in stato di grazia e al di fuori di scherma. Il non-amore è solitudine. Separazione. Così, per negazione, al contrario, l'amore è condivisione. Tanto emblematiche sono per questo le due locandine del film: due come i protagonisti, divisi, separati, ognuno con una sua visione del mondo e della vita. E trovare l'amore, per quei due protagonisti, significa trovare incontri, incroci (ma anche scontri) in quelle due visioni. Quelle due locandine devono, cioè, incontrarsi, riflettersi e completarsi. E lo stesso deve avvenire con quelle due visioni mostrate all’incipit del film, dove ognuna delle parti racconta nel bene e nel male l’altro. Un matrimonio può andare in frantumi, una famiglia non deve farlo. Perché nell'idea di matrimonio è implicito un significato civile, giuridico, vincolato a leggi e procedure, e per questo la sua negazione e disgregazione avviene nel divorzio, non per forza nella negazione d'amore. Il matrimonio si basa sul concreto, sul formale, sui documenti e sulle clausole, la famiglia si fonda invece su concetti più astratti, intimi e personali. Per questo motivo, se si dovesse raccontare semplicemente un matrimonio, il punto di vista sarebbe facilmente oggettivabile: con assoluta certezza, si potrebbe stabilire giuridicamente se quel matrimonio esiste oppure no. Più difficile sarebbe stabilire l'esistenza o l'assenza, invece, dell'amore, della famiglia, di quella condivisione di cui si accennava all'inizio. Per questo Marriage Story risulta così geniale: per la sua volontà di soffermarsi sulla soggettività dietro ad un matrimonio, rappresentando equamente due facce distinte della stessa medaglia. Due facce che all’inizio urlano e non si ascoltano, si parlano ma non si capiscono, ma che comunque profondamente si conoscono e attraverso ciò potranno rincontrarsi. Come ha dichiarato Noah Baumbach a proposito: "i film sono un antidoto al divorzio. Un mondo non di separazione, ma di amore". E noi siamo follemente innamorati.