28.4.18

Recensione: "Icaros: a vision"

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Angelina è una giovane e bella donna con un tumore che ormai le cure mediche non possono debellare.
Decide allora di fare un ultimo disperato viaggio della speranza andando in Perù per sottoporsi a delle cure sciamaniche.
Ma Icaros (che ha dentro momenti psichedelici e onirici davvero potenti) tutto è tranne che un film spot di cure alternative a quelle mediche.
E' solo un bellissimo piccolo film che insegna la ricerca di un'armonia con sè stessi.
Che insegna a sconfiggere non la paura della malattia, ma la malattia della paura.

Andy Kaufman ha un tumore.
Va nelle Filippine perchè là ci sono, ca va sans dire, i guaritori filippini.
Andy è steso sul lettino, pronto al trattamento.
I suoi occhi notano però, tra le mani del guaritore, alcune frattaglie di interiora d'animale, quelle che poi quei guaritori che ti aprono in due la pancia fanno finta essere le tue di interiora, il male estirpato.
Andy Kaufman vede il trucco e dopo un leggerissimo momento di sconforto comincia a ridere. E' la risata di uno che si è reso conto dell'assurdità di quella scelta, dell'assurdità di quella cura, uno che ha capito quanto sia stato scemo nel cadere in quella truffa.
Siamo vicini al finale di quel grandissimo film che fu "Man on the moon" (dell'appena scomparso Milos Forman) in cui un'indimenticabile Jim Carrey interpreta Andy Kaufman, il comico americano più geniale ed incomprensibile degli ultimi 40 anni.

Anche Angelina, la protagonista di Icaros, ha un tumore.
E anche lei si reca lontanissima da casa per trovare, come extrema ratio, una possibile cura fuori dalla medicina ufficiale.
Siamo però dall'altra parte del mondo, in Perù, e le cure alternative non sono trucchi di prestidigitazione lorda si sangue, no, ma rimedi naturali, quelli che le piante del luogo, della foresta, della giungla, della selva, offrono alla popolazione autoctona.
In particolare c'è l'Ayahuasca, una potentissima pianta allucinogena.
Lei è la regina sì, ma per ogni malanno c'è una pianta che quel malanno può mandarlo via, dal mal di pancia ai dolori cervicali, dalla depressione all'amore.
Sì, c'è anche una pianta per l'amore, che la pesti come un pesto nel pestello (scioglilingua) e poi ti metti addosso l'unguento che ne vien fuori. E te ne vai in giro così, imbrattato ma convinto che l'amore della tua vita tornerà.
Probabilmente quella pianta, di cui non ricordo il nome (pusanghera? cazzo ne so) mica serve a niente nel concreto ma ti dona speranza e serenità.
E ricordiamocela sta cosa alla fine di questa recensione, che è importante.
Per sbaglio ho letto di un'informazione importantissima che, in qualche modo, ha modificato sia la mia visione di Icaros che il decifrarlo poi.
Una dei due registi (l'altro è italiano, Matteo Norzi) è una donna che iniziò le riprese sapendo di avere un tumore. Una che ha conosciuto perfettamente quei luoghi, quelle pratiche, lo sciamanesimo.
Una che morirà prima che la sua opera, questo film, sarà compiuta.
Si chiama Leonor Caraballo.
Immaginate quindi quanto questo piccolo e bellissimo film possa esser intimo, sentito, necessario per chi l'ha fatto.

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Siamo in Perù, nei luoghi in cui Herzog girò (o provò a girare) il suo Fitzcarraldo. Non è un caso che nell'unica scena fuori dal villaggio dello sciamano, quella in cui i nostri due protagonisti vanno "al paese", le immagini di Fitzcarraldo vengano proiettate in una specie di locale con laghetto annesso.

26.4.18

Recensione: "The Yellow Sea"

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Questo film fa parte de La Promessa 2018 ( 4 su 15 )

Finalmente completata quella che io considero una trilogia, quella dei 3 thriller di Na Hong-Jin.
E, che dire, un altro grandissimo film, forse, però, non grande come gli altri due.
La storia di un uomo sino-coreano, uno considerato clandestino ovunque vada.
Gun-nam torna in Korea per uccidere un uomo, è pieno di debiti.
Ma torna anche per cercare la sua amata.
Si ritroverà invece in una spirale di violenza e morte dalla quale è impossibile uscire

Prendiamo le prime due sequenze, bastano e avanzano per capire tante cose.
Sto parlando delle scena iniziale del Mahjong e di quella in cui due i scagnozzi vanno in camera del nostro protagonista.
Cristo, contate i cambi di inquadratura se ci riuscite.
Avevo già tessuto le lodi di Na Hong-Jin recensendo altri suoi due film, il bellissimo The Chaser e il capolavoro The Wailing (arrivato mesi fa da noi come Goksung).
Ecco, mettendo dentro The Yellow Sea posso dire senza alcun dubbio che considero questo terzetto di film come la più grande trilogia di thriller realizzata da un unico regista negli anni 2000.
Avevo esaltato Na per tanti aspetti, specie per quel suo saper creare dei thriller atipici, uguali quasi a nessuno. Non so, però, quanto avessi parlato della sua regia.
 Torniamo quindi alle prime due sequenze di The Yellow Sea. 
Vedete, io sono uno che ama anche il cinema da camera fissa e nessun montaggio (pensate ai quadretti di Andersson). In più, lo sapete, farei santi tutti i piani-sequenza.
Insomma, tutto sono tranne un amante delle tante inquadrature e del montaggio imperante.
Ma quando vedo due sequenze così, quando vedo un montaggio così, capisco che dietro c'è un maestro. E uno maniacale, uno che guarda ogni dettaglio. Il 90% dei registi avrebbero risolto le due scene con 7,8 inquadrature, qualche campo e controcampo nel tavolo da gioco e un campo medio in camera di lui. E invece qui il delirio, ogni secondo c'è un'angolazione diversa, il montaggio è sontuoso, non c'è uno scavallamento di campo, c'è una regia tremendamente "a rischio" ma talmente perfetta che quasi nemmeno ci accorgiamo di quanto sia stata costruita la scena. Ragazzi, ma vi rendete conto che lavoro ci può esser dietro a un montaggio del genere? quante cavolo di angolazioni, quanta attenzione a donar fluidità, quanta attenzione nel gioco degli sguardi?
E sarà poi così per tutto il film, una cosa impressionante.


Lo dico da subito, The Yellow Sea è forse il minore di questa pazzesca trilogia di Na. Lo è per due motivi. Il primo è la grandezza degli altri due titoli, roba da top ten dei thriller di questo secolo. Il secondo motivo è a causa di un secondo tempo che sostituisce alla straordinaria atmosfera noir del primo un eccesso di spettacolarità, spettacolarità che lo avvicina, piuttosto, al cinema americano. Ma non è tanto il problema della spettacolarità - che ci sono 3,4 sequenze da restarci secchi per perfezione- ma il fatto che questa porti a un'inverosimiglianza che, mannaggia, non ce voleva.

23.4.18

Recensione: "Ghost Stories" (2018)




Ghost Stories sta avendo un successo incredibile in tutto il mondo.
Non so se sia per la sua prima parte, molto d'atmosfera, una buona ora da horror di fantasmi con più di un'ottima sequenza a dire il vero, ma abbastanza canonica per me.
Oppure se la gente lo apprezzi soprattutto per la sua ultima parte, parte in cui Ghost Stories diventa tutt'altro da quello che era prima.
Beh, io ho amato da morire questo tutt'altro.

presenti spoiler, piccoli prima, giganteschi dopo foto del tunnel

Io son sicuro che la maggior parte della gente avrà amato Ghost Stories soprattutto per la sua prima ora. Una prima ora discreta, valida, sicuramente quella che ha permesso una buona distribuzione in sala. 
Ma per me Ghost Stories è tutto negli ultimi 20 minuti. E' lì che si eleva. E ok, quello che succede non è nemmeno così incredibilmente originale ma ci sono 2,3 finezze di sceneggiatura che mi fanno parlare di un finale veramente grande.
Comincia un pò come "1921 - il mistero di Rookford" (consigliato). Ovvero con uno specialista in demolizione di fenomeni paranormali, uno studioso cioè che smaschera tutti i trucchetti e le truffe di chi si professa sensitivo o testimone di esperienze trascendentali. Se nel film con la bellissima Rebecca Hall però tutto restava "nascosto" (eravamo ad inizio secolo) in Ghost Stories il nostro protagonista smaschera queste truffe in una trasmissione televisiva da lui condotta. Insomma, una specie di Striscia la notizia specializzata solo per rompere i coglioni ai finti sensitivi.
Goodman (il nostro professore, con questo cognome che richiama anche il suo animo e il suo carattere, sempre pacato, sorridente e comprensivo) ha come "mito" un vecchio scienziato di cui da anni si sono perse le tracce. Fatto sta che questo vecchio scienziato (anche lui specializzato nello smascherare truffe trascendentali) lo contatta e gli affida tre casi che lui non è mai riuscito a risolvere.
Goodman accetta il caso, accetta le 3 Ghost Stories.

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Il vero e proprio film può cominciare. E magari troverò dei difetti in questa prima parte, ma sono difetti di uno che ancora non aveva visto il finale. Quindi ne leggerete alcuni di oggettivi, altri, invece, di spiegabili alla luce degli ultimi 20 minuti (ma per non spoilerare non farò capire quali sono di un tipo e quali di un altro)

20.4.18

Recensione: "Wiener-Dog"




Il solito Solondz, autore geniale, complesso, divertente ma anche tremendamente secco nel descrivere l'uomo.
Di sicuro non al livello del suo capolavoro Happiness, Wiener-Dog (bassotto) è comunque un gran film, capace di far riflettere molto. Divertente, cinico, abbastanza doloroso ma anche carico di tanta umanità.


"Avevo pochi anni, e vent'anni sembran pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi più" scrive De Gregori in quel magnifico pezzo che fu Buffalo Bill.
E io avevo pochi anni, giusto 20 o poco più, quando mi incrociai per la prima volta con Solondz. E lo feci con un film che probabilmente vidi distrattamente in tv, una specie di college movie e coming of age che il titolo italiano banalizzava in "Fuga dalla scuola media". In realtà ricordo niente, se non la figura di questa ancora nemmeno adolescente protagonista, impacciata, bullizzata (ma all'epoca il termine manco esisteva), bruttina e mal vestita.
Poi c'è stato il mio vero e proprio incontro con Solondz.
Ed è accaduto col magnifico Happiness, film crepuscolare, ironico ma devastante, di quelli che mentre stai lì a godere delle brillantezza del tutto al tempo stesso ti senti stringere lo stomaco.
Ritrovo adesso Solondz con un altro film corale (anche se la mia concezione di film corali è un pelo diversa) diviso in 4 episodi nettamente distinti -finisce uno comincia l'altro- ma che hanno tanti punti in comune. 

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Solo il secondo, di episodi dico, son sicuro sia diretto sequel di "Fuga dalla scuola media", per gli altri non ho ricordi per collegarli a quel film.
Solondz assomiglia molto a quello di Happiness, è sempre cinico, è sempre chirurgico nell'analisi umana, è sempre molto scomodo, sia in come racconta alcuni personaggi che lo stato in cui vive, gli Usa, Usa che, del resto - almeno a livello ufficiale - l'hanno sempre osteggiato.
Eppure in questo film ci sono anche tante cose belle, tanti personaggi umanamente virtuosi ma tutti, lo vedremo, costretti a soccombere con la razza dominante, o comunque destinati alla solitudine.
Che questo film abbia ambizioni abbastanza esistenziali lo si vede anche dal fatto per cui in ogni episodio il personaggio principale rappresenti una diversa fase della nostra esistenza.
Il bambino nel primo, i ragazzi nel secondo, l'uomo maturo nel terzo, la vecchiaia nell'ultimo.

Una bellissima novità per i lettori


Come chi mi conosce bene saprà io sono uno che non guarda trailer nè legge trame.
Però so benissimo quanto queste informazioni, sia visive che narrative, interessino ai lettori.
E così è piovuta dal cielo un'opportunità che mi permette, in modo veloce, funzionale, molto carino ed immediato, di dare tutte le informazioni possibili su un film senza che io, praticamente, faccia nulla.
Sono stato contattato da una simpaticissima ragazza (campana, ma che lavora a Barcellona) per "testare" un widget che, come dicevo sopra, compensa tutto quello che io non faccio in questo blog.
Tra l'altro ho avuto l'onore (dice lei) di essere il primo in Italia ad averlo.

Loro li potete trovare qua, IsnotTv 

(IsnotTV è un movimento sociale nato per “salvare le persone dal guardare schifezze”. La vita è breve e non possiamo nutrirci con tutto ciò che il mondo dell’intrattenimento ci offre, dobbiamo scegliere con saggezza! Su isnotTV.com puoi conoscere quali sono i film o le serie di tendenza, leggere i commenti ed i punteggi assegnati dai nostri utenti e, creando il tuo account personale, ricevere suggerimenti personalizzati.)

Senza tanti giri di parole eccolo qua:







Anche se molto intuitivo ve lo descrivo al volo.
Intanto ho la possibilità di scegliermi l'immagine di sfondo (e questa cosa è molto bella).
Poi, come vedete, avrete quattro sezioni.

La prima è il TRAILER. Ovviamente per i film più importanti sarà in italiano, per tutti gli altri in lingua originale. E considerando che in questo blog almeno il 70% dei film recensiti sono dei sub-ita non distribuiti molto spesso vi troverete il trailer in lingua.

Nei DETTAGLI invece avete tutte le informazioni riguardanti anno di produzione, regia e cast.
E, cosa più importante, visto che tanti si lamentano che io non le scrivo, avrete la trama.
Per moltissimi film -tutti quelli non distribuiti ad esempio- starà proprio a me scriverne una in italiano da zero o tradurre quella esistente. Ma, tranquilli, almeno lì non metterò spoiler ;)

Abbiamo poi SIMILI, ovvero la scelta (fatta dal loro programma, non da me) di quei film ritenuti abbastanza in linea con quello recensito. Non so su cosa si basi questa sezione, se sulle tematiche, se sul regista o altro.
Si vedrà.

L'ultima sezione, molto particolare, ti indirizza invece in tutte le piattaforme legali dove puoi vedere il film. 
Ad esempio per Melancholia vedo che segnala anche Netflix. Ecco, tu clicchi lì e sarai DIRETTAMENTE dentro la piattaforma, col film pronto.
Insomma, mi sembra proprio una bella novità.
Metterò tutta questa roba A FINE recensione.

Sperando che questa cosa vi piaccia, un abbraccio





16.4.18

Recensione: "Tore Tanzt" (Nothing bad can happen)

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Un film molto duro, ma importante da vedere.
E' la storia di Tore, un ragazzo alto e biondo che ha fatto dell'amore per il prossimo e della bontà d'animo delle missioni di fede.
Ma delle missioni di Fede nel vero senso della parola visto che è quest'ultima, la Fede, a guidarlo in ogni sua azione.
Un giorno, però, finisce a vivere in una famiglia che, in qualche modo, lo "adotta".
E in questa famiglia piano piano vengono fuori dei lati terribili ed è il nostro ragazzo, e non solo lui, a farne le spese.
Ma l'amore di Dio è più forte di ogni altra cosa e Tore accetterà il suo calvario.

allego recensione

Tore è alto, altissimo.
E biondo, biondissimo.
E buono, buonissimo.
E' ragazzo da superlativi assoluti Tore, ma del resto lui ha una Fede assoluta in Dio e Dio, se vogliamo, è superlativo assoluto dei superlativi assoluti.
Tore viene preso da due energumeni e portato nel mare. La colonna sonora è disturbante, ecco, manco il tempo di iniziare il film e tocca sta male subito -si dice lo spettatore-. E invece no, e invece Tore viene immerso nel mare, una specie di rito di iniziazione, una specie di nuovo battesimo -e di riferimenti biblici avoja, ne avremo- ma niente di più, è solo un innocuo e divertente gesto per entrare in questa stranissima (eh, soffro di superlativite) confraternita, una via di mezzo tra un laido ritrovo di punk e un gruppo di devoti vecchietti. Si urla a Gesù con capelli ritti e viola per capirsi.
Tore ha un sorriso talmente spontaneo e talmente vero che pensi che sia un malato mentale, che quei sorrisi spontanei e veri appartengono solo ai bimbi, si sa, che poi si cresce e le felicità spontanee e vere son sempre più difficili, sempre più controllate, sempre più nascoste, che c'è quasi da vergognarsi.
Ma del resto Tore è un continuo ondeggiare tra istintivi e bambineschi slanci d'affetto e timidi ritrarsi. I primi son tanto più frequenti dei secondi, chè Tore ama giocare, ama ballare, ama manifestare affetto, è vero, ma ogni cosa che secondo lui lo allontana dai suoi dettami, che sia il bere o l'emozionarsi per la bellezza femminile, ecco, lì si fa piccolo piccolo e fa due passi indietro. 
Ma te lo dice sempre col sorriso che no, non può, pace.
Accetta anche i suoi contini attacchi epilettici, da lui visti come simboli di fede quando, in realtà, hanno tutt'altra matrice.


La Fede di Tore sarà base del film, se noi (specie agli atei parlo) non riusciamo a comprendere questa cosa ci troveremo davanti ad un film ai confini dell'assurdo. In realtà lo dico da subito, anche per me si è andato un filino oltre la verosimiglianza ma alla fine ho capito.
Ho capito che questo film è perfetta metafora del calvario di cristo. E il calvario di cristo può avere piccole zone d'ombra, chè anche un perfetto cristiano alla fine la cattiveria la "sente", la odia e non la sopporta, è vero, ma la sua missione di fede la porterà fino in fondo.
Sono convinto che questo film possa portare a molte discussioni, specie per chi davvero non concepisce un amore così cieco e assoluto per chi, secondo chi ci crede, sta lassù. Sarebbe bello che tutti, però, cercassero di capire questa cosa e, di conseguenza, i comportamenti di Tore.
Ma ci torneremo, forse.

13.4.18

Recensione: "Buongiorno, Notte"

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Quando scrivi una recensione sullo splendido film di Bellocchio sul caso Moro e riesci, in decine e decine di righe, a non dire una sola parola sul caso Moro, sul clima dell'epoca, sulle verità e le menzogne, su cosa tutto ha rappresentato.
Il mio Buongiorno, Notte è un film di luoghi, è un film di prospettive, è un film con un solo e unico significato, lo stesso che, credo, Bellocchio volle darci.
Ovvero che solo attraverso la donna, o solo attraverso la nostra parte femminile, potrà cambiare qualcosa.
E Aldo Moro, magari, sarebbe davvero uscito all'alba, in pigiama, respirando aria fredda e libertà.

Che buffo (e che vergogna) che io di un regista grande come Bellocchio abbia visto un solo film - questo- e "addirittura" due volte.
Che strano che non mi sia mai capitato di veder altro, in una filmografia vastissima e di altissimo livello. Io poi che adoro il cinema nostrano.
E per giunta è ancora più strano che l'unico film visto suo e, ripeto, ben due volte (ieri, la seconda, invitato ad un cineforum) sia quello che per soggetto era forse il più lontano da me, io uomo così lontano e repellente al sociale e al politico.
Eppure che bello Buongiorno, Notte, sin dal titolo.
Ricordavo poco e niente, alcune scene assolutamente minori (come l'incipit col venditore d'appartamenti) altre più importanti ed, effettivamente, abbastanza indimenticabili, come la fuga all'alba di Moro, quella fuga che, ahimè, mai successe.
 A rivederlo adesso mi è sembrato un film più vecchio del 2003 ma, del resto, Bellocchio si è probabilmente rifatto ai maestri italiani del cinema "militante" degli anni 70 e 80.
E, siccome per ovvia incompetenza non entrerò minimamente nell'ambito della vicenda Moro ma mi limiterò a parlare di Buongiono, notte come "semplice" oggetto filmico, ecco, proprio da qui voglio partire.
Ovvero dallo stile scelto da Bellocchio.
Di solito quando si affrontano film di questo argomento, legato alla storia politica, sociale e cronachistica del nostro paese, prevale l'atteggiamento "verista", naturalistico, ovvero quello di un cinema improntato sul fortissimo realismo, sia formale che narrativo. Poi, invece, ci possono essere approcci più deformanti, grotteschi, quasi parodici e, ovviamente, il primo esempio che mi viene è quello di Paolo Sorrentino e del suo "Il Divo" (ma anche "Loro" sarà della stessa pasta).

9.4.18

Recensione: "A Quiet Place - Un posto tranquillo" 2018



Un grande soggetto iniziale per un thriller/horror che avrebbe potuto essere grandissimo.
E che per tutto il primo tempo questa sensazione, questa sensazione di poter essere veramente grande, ce la dà.
Peccato che poi tutte le premesse vadano a naufragare, che tutta la possibile autorialità della cosa coli a picco, che da un film di silenzi e tensione si passi ad un survival troppo canonico e mostrato.
A mio parere un'occasione persa.

Direi che non posso trovare miglior incipit di questo:



Fantozzi si prende una tranvata sul dito incredibile, ma del resto si sa, Filini non è che ci veda molto bene.
Il Ragioniere sa che non può turbare il silenzio e la serenità del camping. Allora, con un'etica e una forza pazzesca, se ne corre lontanissimo, cercando un luogo dove poter sfogare tutto il suo dolore.
Ecco, se Fantocci ( Fantozzi!!!) fosse stato dentro questo film, dentro A Quiet Place, poteva corre ovunque, ma dovunque fosse andato non sarebbe cambiato niente
Perchè in qualsiasi posto avesse urlato in quella maniera, anzi, anche se si fosse limitato a un poco più che sussurrato "accideborlina" un'orribile creatura simile ad Alien sarebbe sopraggiunta e l'avrebbe fatto fori, dilaniandolo.
Questo è l'incredibile, originale (nel senso che mai era stato portato così alle estreme conseguenze) assunto di questo film. Nel mondo non è più possibile far rumore, che sia parlare, sbattere una forchetta in un piatto (la scena della cena mi ha tremendamente ricordato quella della colazione in Il Filo Nascosto), camminare in modo troppo rumoroso e qualsiasi altra azione nella nostra vita non avvolta dal silenzio.
I nostri protagonisti se ne vanno in giro sempre scalzi e io non ho potuto non immaginarmeli colpire di notte lo spigolo di un mobile.
E quel "porcama...!" che chiunque di noi urlerebbe che non può uscire fuori, pena la morte, un'atroce morte.


Film molto ambizioso, molto coraggioso e dalla quasi impossibile coerenza (veramente, ci sono cose che non hanno alcun senso. Immaginate un peto non voluto di notte, sareste morti. E non è nè provocazione nè sarcasmo eh, ma incontestabile dato di fatto).
Siamo dalle parti di quei post apocalittici che partono già nel "dopo" e non danno praticamente alcuna spiegazione del come si è arrivati a quel punto. E' un tipo di scelta che amo molto ma, del resto, lo sapete, meno cose so meglio sto.
Quello che è sicuro è che ad un certo punto nel mondo ad ogni nostro minimo rumore sono iniziate a venir fuori queste terribili creature ad ucciderci. E' facile immaginare che il 90% della popolazione mondiale se ne sia andata in poche ore visto che tutti nella propria vita fanno un minimo rumore e che prima di capire quale fosse la causa di morte saranno passati giorni.

8.4.18

Recensione: "Suntan"

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L'ennesimo grande film della nuova cinematografia greca.
Kostis è un medico schivo e buono che arriva a lavorare in un'isola greca davanti Paros.
Un'isola morta d'inverno ma che diventa paradiso dello sballo e del sesso d'estate.
Quasi per caso Kostis diventa amico di un gruppetto di giovani turisti. Specie di Anna, l'unica ragazza greca del gruppo, bellissima giovane che instaura con lui un rapporto molto ambiguo.
Rapporto che andrà sempre più a fondo e che porterà Kostis dentro un'ossessione dalla quale non riuscirà più ad uscire

presente SPOILER grandissimo dopo ultima immagine

Suntan sembra cominciare da dove finiva un altro bellissimo film greco (tra l'altro l'ultimo che ho visto), Chevalier della Tsangari.
Ancora una nave, ancora il mare, lo stesso attore (che lì si perdeva in mezzo agli altri) in un ruolo praticamente identico a quello del film della Tsangari.
Kostis è un medicozzo ultraquarantenne, schivo, buono, apparentemente -e anche nei fatti- non un luminare.
Finisce, non si sa come, nell'isola di Antiparos che - come nome vi annuncia in modo perfetto- è piccola isoletta davanti Paros.
Ci arriva d'inverno, nel periodo natalizio, che nella sua stanza c'è anche un Babbo Natale che prova timidamente ad illuminare e rendere meno silenziosa e deprimente la cosa.
L'isoletta d'inverno è un mortorio, una specie di grande bar dove uomini bevono e parlano di fica nell'attesa che poi, l'argomento di cui parlano, arrivi d'estate.
E ad Antiparos, di quella cosa, ne arriva tanta, tantissima. E non solo ne arriva tanta ma questa è un'isola senza inibizioni, in cui in spiaggia ragazzi e ragazze se ne stanno nudi senza problemi, falli, tette e vagine al vento.
Un'isola dello sballo e del divertimento insomma, con a disposizione tante spiagge e una popolazione autoctona (solo 800 abitanti) che è troppo esigua per potersi sentire turbata.
Turbata un cazzo, viene da dire, non vedono l'ora arrivi l'estate per poter lustrarsi gli occhi e fare, finalmente, qualche affare (si lavora praticamente solo 3 mesi l'anno).

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Succede una cosa .
Succede che nella piccola clinica di Kostis arrivi una bellissima ragazza (greca ma comunque in vacanza, non di lì) che ha avuto un piccolo incidente col quad.
La ragazza è accompagnata dai suoi 4 amici stranieri, un gruppetto di bei ragazzi e belle ragazze completamente fuori di testa. In quei 5 minuti in clinica succede di tutto. Il timido Kostis è travolto dall'esuberanza del gruppetto (molto promiscuo tra l'altro, tutti vanno con tutti, senza differenze di genere) e, soprattutto, è stuzzicato da Anna (la greca) che con affetto e malizia scherza con lui.

3.4.18

Recensione: "Tonya"





Non puoi mischiare in questo modo lo sport, la cronaca nera, l'umanità ed il cinema.
Perchè così mi dai tutto quello che io amo, tutto quello che mi rappresenta.
Non puoi farlo così bene perchè altrimenti mi regali uno dei film più belli che io ho visto in questi anni.
Tonya, per me, è un capolavoro.
E se è una cosa solo mia non importa, lo terrò stretto ancora più forte.

Questo film fa parte de La Promessa ( 3 su 15 )

E' il 1994, ho 16 anni, non so niente dell'universo femminile, mangio tantissimo, faccio tantissimo sport.
Ma, soprattutto, guardo tantissimo sport, scrivo di tantissimo sport, li seguo tutti.
Solo due anni dopo, a 18/19 anni un -chiamiamolo- incidente (se qualcuno del mio paesino legge questo post -non credo- sa a cosa mi riferisco, quell'incidente fece epoca) mi costrinse a letto per quasi tutta l'estate.
Il ginocchio in condizioni pessime, io a letto, una videocamera puntata sul televisore.
Ci sono le Olimpiadi di Atlanta. 
Vedo oltre 200 ore di diretta, le commento tutte live, da solo, come uno scemo, con questa immagine fissa del mio televisore e la mia voice-off. Dal tiro con l'arco alla lotta libera, dall'atletica alla mountain bike.
Ricordo i brividi al record dei 200 metri di Michael Johnson, le mie urla ancora prima che arrivasse in fondo, quel 19.32 che cambiò il mondo.
E alle mie urla seguirono quelle di mia madre:

"Che cazzo urli????? ma sei impazzitoooo????"

Questo quello che era per me lo sport.
Ma torniamo a due anni e mezzo prima, febbraio 1994, Olimpiadi Invernali di Lillehammer, Norway.
C'è la gara di pattinaggio artistico.
E' il turno di Tonya Harding, americana.
Qualcosa non funziona, la Harding non si presenta sul ghiaccio. Le telecamere la vanno a pescare mentre mezza disperata è nella waiting room a cercare di mettere a posto i lacci delle sue calzature. Alla fine, per pochi secondi, riesce a presentarsi. Abbozza un sorriso stentato, in questo sport che, come ad esempio il nuoto sincronizzato, obbliga l'atleta non solo ad essere atleta, ma anche ad esser bello e sorridente.
Parte il programma. La Harding sbaglia subito il primo salto e, dopo pochi secondi, si ferma. Va dai giudici, mostra loro il laccio strappato, ottiene la possibilità di ripresentarsi. Lo farà ma ormai è andata, arriverà ottava.
Siccome tutto quello che racconto io e racconta il film è vita vera eccovi qua:


"Sarà il karma" dice qualcuno, forse lo stesso telecronista.
Sì, o.k, ma perchè il Karma?
Perchè la Harding meritava questo?
Sul podio una NON sorridente Nancy Kerrigan, sempre americana, vincerà l'argento.
Pochi mesi prima, nemmeno due, la Kerrigan era stata mezza gambizzata da un pazzo furioso durante una seduta d'allenamento.
Incredibilmente sul posto era presente una telecamera che in tempo reale, 4,5 secondi dopo "l'incidente", riuscì a filmare tutto.
Eccovi qua anche questo:


Tutto questo solo per raccontarvi da dove vengo.
Tutto questo per farvi capire cosa possono significare questi film per me.
Tutto questo per giustificare, forse, quello che sto per dire.
Per me Tonya è un capolavoro.

Tonya ha un nome orribile, inconsueto, tondo e quasi maschile, giusto quella piccola "a" che cerca, fin dall'anagrafe, a darle un pochino di femminilità.
Ma del resto a quel nome corrisponde quello che lei è, ovvero una ragazza sgraziatella, quasi un maschio, una che va a caccia, ripara automobili, taglia la legna e manda affanculo anche le nuvole troppo lente.
Ma se l'omen nomen funziona nel fisico e nel carattere sembra invece clamorosamente aver toppato nello sport scelto da Tonya (o dalla madre).
Ovvero il pattinaggio artistico, lo sport delle ragazze filiformi e leggere come piume, lo sport dei sorrisi, della grazia e della classe.
Tonya è pesantuccia, sboccata, bruttina, col sorriso forzato, diretta, stronza, incazzereccia.
Non si sa mica che ci fa là dentro. 
In effetti questa pare una storia opposta al talento, alla predisposizione.
E se fosse il contrario?
Se proprio questo fosse il talento, ovvero il riuscire, il trionfare, in qualcosa completamente opposto a quello che sei?
Non lo so, sta di fatto che Tonya da bambina è un prodigio. 
Entriamo un attimo nel film ma, d'altro canto, c'eravamo già in tutto quello che ho raccontato fino ad adesso, anche se partendo dalla fine.
La piccolissima Tonya ha solo 4 anni. La madre la porta da un'istruttrice federale perchè è convinta che la sua bimba possa spaccare i culi alle altre.
O.k, frase di raccordo giusto per arrivare alla madre.

2.4.18

Recensione: "El Metodo"




Dalla Spagna un altro gran bel thriller psicologico.
Interamente ambientato in una stanza El Metodo racconta di un colloquio di lavoro dove i sette candidati ben presto si renderanno conto che la selezione sarà molto anomala.
Nessuno dell'Azienda si presenterà, saranno sempre soli.
Comincerà una competizione senza scrupoli, quasi disumana, un mors tua vita mea per avere quel posto.
Intanto Madrid è semi-distrutta da una protesta No Global.
Il macrocosmo di fuori e il microcosmo di quella stanza inizieranno sempre di più a diventare una cosa sola.
Peccato per due piccoli problemi che lo allontanano dall'eccellenza.
Ma, insomma, da non perdere

Sta diventando una vera e propria passione quella per i film ad unica ambientazione (ne feci una lista QUI), in una stanza o poco più. Poco tempo fa, non ricordo in riferimento a quale film, un lettore mi scrisse che quel dato film -a unica location- non gli era piaciuto perchè privo di sceneggiatura. Purtroppo è errore comune quello di confondere la sceneggiatura con il susseguirsi degli accadimenti, con il plot, con le "cose che succedono". In realtà una delle componenti più importanti dello script sono i dialoghi. Tanto che quel giudizio dell'amico lettore diventò quasi paradossale per quel film visto che, un film dove accade quasi nulla ma è un continuo dialogo per 120 minuti è, all'opposto, da definire proprio un film di pura sceneggiatura.
Ed è chiaramente un film di sceneggiatura anche questo El Metodo, film spagnolo di chiara origine teatrale, interamente ambientato in una stanza (più un bagno).




Siamo a Madrid, nelle strade imperversa una violenta protesta No Global contro il Fondo Monetario Europeo (mi pare ma, insomma, una cosa del genere).
Nel frattempo in un grattacielo cittadino 7 candidati che ambiscono al posto di importante Dirigente si ritrovano in un'unica stanza dove, presumono, avverrà il colloquio finale (hanno già superato altre selezioni).
Il fatto è che non si presenta nessuno dell'Azienda, i 7 rimangono soli. Ben presto capiscono che il criterio di valutazione usato dall'Azienda è molto particolare, un fantomatico Metodo Gronholm per cui avverrà una sorta di selezione naturale portata avanti dagli stessi candidati, senza inferenze esterne.
Parte una specie di gioco al massacro.