29.11.21

Recensione: "E' stata la mano di Dio"

 

"Sorrentino abbandona le sue non narrazioni, le sue "non trame" per tornare ad un cinema lineare, dritto come una spada, senza flash back, senza deviazioni, senza sottostorie.
Ed è commovente come per raccontare la sua vita Sorrentino abbia appunto abbandonato quella che ormai è riconosciuta come la "sorrentinità".
E' commovente se pensiamo specialmente ad una delle scene più belle del film, quella dove Capuano urla a Fabietto:

"Non ti disunire!!"

E cosa è stato il cinema del secondo Sorrentino, quello più famoso, se non un cinema disunito?
Ed ecco allora che, invece, per raccontare sè stesso, Sorrentino ascolta quel vecchio consiglio, "non ti disunire". E lui allora non si disunisce, racconta un anno della sua vita in modo "intero", senza parzialmente scremarsi, senza orpelli, senza rapsodie, senza parentesi che si aprono e chiudono, senza divagazioni, senza perdersi.
Un gesto di umiltà, un (apparente) passo indietro artistico che Sorrentino fa per non camuffare la realtà, per non rendere manipolata la verità, per non rendere sorrentiniana la sua vera vita.
Perchè è questo il paradosso de sto film, ovvero di come questo autore spesso odiato come uomo e artista quando poi fa un film in cui fonde le due cose tra loro, quando oltre a Sorrentino riesce a raccontare tanto anche del Paolo, si ritrova davanti l'amore sconfinato di tutti."

Finale de La Grande Bellezza.
Una bellissima ragazza bionda si gira verso quello che sappiamo essere il giovane protagonista.
Un'istantanea.
E' lei probabilmente quella grande bellezza che Jep poi ricercherà per tutta la vita, è lei quell'attimo cristallizzato per sempre nella sua testa.
E' stata la mano di Dio.
L'avvenente e problematica zia di Fabio ad un certo punto si ferma lungo il vialetto.
Fabio la guarda, la vede scostarsi i capelli.
Un'altra istantanea.
Un altro attimo cristallizzato nel tempo, un attimo che accompagnerà per sempre Fabietto.
Due scene minime, di quelle che se provi a raccontarle sono già finite, identiche.
E tutte e due mostrate da Sorrentino in modo tale che siano LA scena, che siano il momento in cui qualcosa che era prima adesso più non è e qualcosa che verrà dopo deve ancora arrivare.
La vita di due diciassettenni (sia ne La Grande Bellezza che qua), anzi, di un solo diciassettenne (perchè in quella scena a questo punto è facile immaginare che Jep fosse Paolo), la vita di due diciassettenni che hanno come momento di crocevia quello in cui una donna li guarda, un momento eterno in cui ci sono solo loro, solo lui e "lei".




E' stata la mano di Dio, per me, non è grande come Le Conseguenze dell'amore o La Grande Bellezza.
Perchè il primo è un film piccolo e perfetto e il secondo un film immenso e imperfetto (e nell'immensità ci deve essere l'imperfezione, non si può dare un limite all'immensità).
Questo non è nè piccolo nè immenso, nè perfetto nè imperfetto, questo è un film vero, verissimo, che ambisce ad essere tanto (quasi tutto) ma senza l'arroganza e la magniloquenza de LGB.
Sorrentino abbandona le sue non narrazioni, le sue non trame per tornare ad un cinema lineare, dritto come una spada, senza flash back, senza deviazioni, senza sottostorie.
Ed è commovente come per raccontare la sua vita Sorrentino abbia appunto abbandonato la quella che ormai è riconosciuta come la "sorrentinità".
E' commovente se pensiamo specialmente ad una delle scene più belle del film, quella dove Capuano urla a Fabietto:

"Non ti disunire!!"

E cosa è stato il cinema del secondo Sorrentino, quello più famoso, se non un cinema disunito?
Ed ecco allora che, invece, per raccontare sè stesso, Sorrentino ascolta quel vecchio consiglio, "non ti disunire". E lui allora non si disunisce, racconta un anno della sua vita in modo "intero", senza parzialmente scremarsi, senza orpelli, senza rapsodie, senza parentesi che si aprono e chiudono, senza divagazioni, senza perdersi.
Un gesto di umiltà, un (apparente) passo indietro artistico che Sorrentino fa per non camuffare la realtà, per non rendere manipolata la verità, per non rendere sorrentiniana la sua vera vita.
Perchè è questo il paradosso de sto film, ovvero di come questo autore spesso odiato come uomo e artista quando poi fa un film in cui fonde le due cose tra loro, quando oltre a Sorrentino riesce a raccontare tanto anche del Paolo, si ritrova davanti l'amore sconfinato di tutti.
Forse anche perchè questo è un film coraggioso, un film dove ci viene mostrato un ragazzo debole (anche se sembra forte quando non piange,) senza una strada anche se convinto di quale dovrà essere la sua, timido, spaesato, completamente fuori dal consesso femminile, costretto a diventare uomo aiutato da una vecchia (scena che parte ridicola e finisce lirica, con quel "Voglio solo darti una mano a guardare il futuro" che è frase di una bellezza e verità infinite, è la frase che ogni depresso (come sono stato anche io), che ogni persona "ferma" vorrebbe sentirsi dire, questa è la verità, trovare persone che sanno darti e dirti che ci sarà un futuro, e che magari ti danno le armi per farlo).

25.11.21

Recensione: "L'Arminuta"

 

L'ennesimo grandissimo film di una stagione cinematografica difficilmente ripetibile, almeno per il cinema italiano. (e ancora mi manca Sorrentino - che vedrò tra poco - , Annette, Atlantide, La persona peggiore del mondo e chissà cos'altro).
La storia di una 13enne che torna nella famiglia d'origine, nell'entroterra abruzzese, una famiglia di cui non ha alcun ricordo.
La storia di due bambine che dell'infanzia, a parte un tuffo in mare e il volteggiare su una giostra, non possono più avere niente, una usata continuamente come un pacco postale tra due famiglie, l'altra costretta a 9 anni ad essere una piccola donna di casa.
Un'opera che racconta con esattezza un'epoca, una cultura, una terra.
Dove padri picchiano figli con la cintura e poi urlano a Dio per non aver ucciso loro, dove c'è una pentola piazzata in mezzo ad una tavola, dove la donna è solo un angelo del focolare, dove gli affetti son a volte sconosciuti o mascherati da consuetudini millenarie.
E allora l'unica salvezza è riconoscersi con qualcun altro.
E prendersi per mano



Ormai non so veramente più che scrivere dei film visti in sala quest'anno.
E del cinema italiano.
L'Arminuta è l'ennesimo gioiello di una serie ormai lunga che minaccia ancora di non finire (se penso alle prossime visioni di Sorrentino e Atlantide).
E se è vero che, a parte con Freaks Out, molto spesso il cinema italiano non "rischia" il genere affidandosi al realismo (di cui siamo maestri), è anche vero che sempre di più, pur in questa cornice realistica, assistiamo ad opere e regie "superiori", di quelle che non si limitano a fare il compitino mostrando/raccontando cose (intendiamoci, ci sono film meravigliosi che fanno solo questo eh) ma che sanno esaltare la fotografia, muovere la macchina da presa, avere piccoli momenti di realismo magico che rendono questo cinema neo-neorealista qualcosa di più, almeno negli intenti.
Se in "A Chiara" Carpignano riusciva semplicemente con dei piani sequenza dall'atmosfera ipnotica a squarciare il senso di realtà percepita, se ne "Il Buco" Frammartino riusciva semplicemente inquadrando un foglio bruciato cadente o facendo la panoramica di una mappa a darci sensazioni quasi "magiche", anche in questo bellissimo L'Arminuta più volte abbiamo la sensazione di andare in una dimensione-altra senza che il significante esca minimamente dal realismo.
Una sequenza come quella della giostra (da infarto) è qualcosa di più di quello che è nella sola immagine mostrata, è un mondo, è un mood, è un sogno, è un simbolo. 
L'arminuta (quella bambina di cui mai sapremo il nome proprio ma solo il ruolo sociale e drammaturgico, quello della "ritornata") volteggia nell'aria, felice, provando ad afferrare il premio.
In quel momento non esiste più il suo passato dorato nè il suo presente dolente, in quel momento c'è una bambina di 13 anni che volteggia coll'aria in faccia, girando in tondo nel buio e nelle luci elettriche, in quel momento quella bimba, e noi con lei, siamo completamente fuori dal racconto, siamo sradicati dalla trama, siamo buttati fuori dalla realtà.
Giuseppe Bonito, l'eccellente regista, non abuserà di queste scene "sospese", non sorrentineggerà (attenzione, adoro Sorrentino ma quello è un cinema diverso, in cui la realtà non è mai perfettamente realistica) ma riuscirà ad infilarle, come un contrappunto musicale, in uno spartito secco, durissimo, spietato, fatto di poche note.
Siamo in Abruzzo, non so nemmeno quando (anni 60/70? presumo) e una bambina dai capelli rossi e dai vestiti pastello torna in un paese in cui tutti sono vestiti grigi e marroncini e hanno capelli neri.


Sembra Alice che arriva in un paese delle non meraviglie, un paese che è paesino dell'entroterra, pieno di ruvidezza, pieno di comportamenti millenari, pieno di pregiudizi, pieno di tante cose che belle non sono.
In realtà quella bimba non è un'aliena ma è proprio figlia di quei luoghi, di quella cultura, persino di quella famiglia alla quale è adesso tornata. Eppure, come fosse un alieno, sembra arrivare da una Marte di spiagge, gelati, colori colorati e non smorti, tovaglie ricamate, luce accecante e mura bianche.

23.11.21

Recensione: "The Alphabet, di David Lynch" - Passeggiate, il cinema della poesia - 19 - di Roberto Flauto

 

Dopo quasi tre mesi (ma la colpa è la mia, Roberto mi ha sempre mandato cose) torna la rubrica esterna più longeva del blog, quella di Roberto Flauto e delle sue "incredibili" recensioni.
E stavolta incredibile è l'aggettivo minimo.
Un cortometraggio di David Lynch di soli 4 minuti e Roberto che riesce a scriverci sopra tutto quello che vedrete, con lo stile che vedrete (vabbeh che dopo che scrisse la recensione interamente palindroma tutto è possibile).
Vi lascio prima alla presentazione e poi alla recensione. Dentro troverete anche il cortometraggio stesso.
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The alphabet è uno dei cortometraggi di Lynch più significativi e suggestivi. Non ha parole, ma ha tutte le lettere. Non ha tempo, ma tutti i temporali. Ha la magia, il mistero, il fascino e il terrore di ogni alfabeto. Fa paura come ogni parola che pronunciamo, o che tacciamo (e fa paura come ogni cosa bella, come ogni respiro di Lynch). Il corto lo trovate su YouTube. E io mi sono divertito a giocare con l'alfabeto, ne è uscito fuori una sorta di tautogramma un po' particolare. Dove, come sempre, parlando di cinema, parlo soltanto di me stesso.


Alcuni brevi cortometraggi, decisamente eccentrici, fatalmente grandiosi, hanno infinite linee metanarrative, nuclei oscuri, pongono questioni radicali, su tutti una visione zigrinata:

THE ALPHABET 

Allora: bellissimo. Capolavoro? Definizione eccessiva, forse generosa. Ha intenti lucidamente metaforici, nessuna ottusità polemica, qualche ragionevole spavento, tentativi ultra visionari zoomati assolutamente bene, con direzioni ermeneutiche formidabili, garantendo horror intelligenti, liberi, mostruosi, negando ogni posizione qualunquista, ragionando su tematiche universali, verità zen:

La parola è creatrice dell’uomo che la crea
L’alfabeto è il mondo e ogni lettera una dea
Parole su parole che ogni volta fanno centro
Questi sono i fantasmi che ci portiamo dentro

Alphabet: beh, caro David, è fottutamente geniale. Ho intravisto letture metonimiche – non ovvietà parossistiche – quindi ragioni superiori, totemiche, unendo violentemente zuccheri amari (bellezza) con dolcezze efferate (fiele). Gridando hertz inafferrabili, lievi miagolii notturni, ossessioni per questa risibile scuola: tiepida, univoca, velleitaria, zeppa, assortita balordamente, caoticamente, di esemplari folli: genera homunculus infantili. La mia notazione? Operare processi quantici: resuscitare scienza, televisioni, universi, verità zoppicanti:

L’uomo è creatore della parola che lo crea
L’alfabeto è il mostro e ogni lettera un’idea
Fantasmi affamati che ogni volta fanno centro
Questi sono i mondi che ci portiamo dentro


Amare basta? Che domanda esasperante, finanche Gesù ha incontrato la morte, non occorre perdersi: questi risvolti sentono tutti una voce: «Zitti!». Versi umbratili, temporali spaziali, resurrezioni quantistiche: portami ogni nome, moltitudini letterarie, infinti harem: genero futuri esprimendomi da contorsionista: basta amare. Brillare con dinamiti effervescenti, feroci, generando humus infernali, lancinanti, mentre noi osserviamo perduti questo Roberto – stupido, tremendo – ululare: «via, Zeus, vattene!», urla tremante, spaventato, recitando quella poesia ossessivamente. Nessuno mai lo inquadra. Hobby gradito? Fiorire evanescenti demoni, creature bestiali: alfabeti assassini, apocalittici, affamati. Allegorie astruse, ammetto, associazioni ancorate ad alcune antiche (antiquate?) allitterazioni atemporali, ad astrazioni assortite, alterità aritmetiche, asserzioni algoritmiche, anime assenti. Amo allusioni, assurdità, ambiguità (almeno alcune), abissi assordanti, asteroidi adulteri, anche allorquando asseriscono astrusità artefatte; antiteticamente aborro asfittici amuleti, adulatori astiosi, ansie asmatiche assolutamente agnostiche, anzi ambirei ad assurgere ad assenza, ad angolo acuto, anzi annullato, allunato, arzigogolo attorcigliato attorno all’atollo: apophrades. Aspetto ansioso attimi astratti, agogno architetture ancestrali altre, affermazioni aurorali, autentiche apparizioni alfabetiche – anche aleatorie, anzichenò accuratamente agite. Ascolto ancora aberranti, anonimi, asettici bla bla bla: basta! Basta belare («beh, bisogna bastare»), basta blasfemie («bene, bravissimo!» brrr, bestemmia balorda). Bestia, be brave, be baleno, be bruco bambino, bacia bocche baluginanti, brama bellezza, barlumi brillanti, brividi, bagliori: brucia come colui che cade cantando. Copia chi crepa come certe crepe che creano canali comunicativi. Care creature, che cosa cercate costantemente? Che cazzo, come chiunque, ci coalizziamo continuamente con chi crediamo ci capisca, così cospargiamo ceneri costernati coprendo colpe cancerogene, come cani codardi. Così, come convincersi che convivere con certe convinzioni coronariche crea caos cosmico. Che calma, caos! Colluttazioni cardiache, cosmogonie cannibali, confusioni congenite, collisioni cosmetiche, convulsioni celestiali, che creano crateri carichi di dinamite dolente. Diamine, dio deve decisamente darmi delle dannate delucidazioni, dovrei dimetterlo, dovrei dimettermi – dentro divampano devastanti domande, dubbi dilanianti, dilemmi disarmanti, danze disperate, distrazioni, doti, dolori, distanze, dimensioni divine, dimensioni demoniache – dovrei dargli esempio: eppure. Eppure eccedo, ehm, esempio: eternizzo effimeri eventi (è essenzialmente evenemenziale), effimerizzo eternità eteree (è epesegesi eclettica) – eseguo esercizi estetici esponenziali, esorcismi endecasillabi. Ecco, essendo esagerato, evidentemente, esaspero errori, evidenze, eversioni, evasioni, elucubrazioni, etimi, erosioni, elettricità, elegie, entropie entottiche, esistenze folli. Flauto? Fantoccio frastornato, fidatevi, fottetevene. Forse faccio forzature forsennate, forzo forzieri fantasma, fiorisco finzioni fantastiche, formiche formidabili. Fuoriesco fuochi freudiani, floride fiamme fatali, finali, fra femmes fatales, fumi fragili, fulgide fiamme, (fuoco fatuo? Falso: fuoco Flauto), fomentando felicità ghiacciate, grandi gocce gravitazionali. Generalmente, germogliano gesti gravidi, gemme geniali, gengive gracchianti «grazie, graziatemi». Gemiti, ghepardi, granelli. Giorni gelidi, grondanti guai giganteschi. Già, ho habitus homerici, holzwege heideggeriani, hybris, haiku, harakiri hollywoodiani, haunted house, homo homini human homecoming, habeas intellettus (having hot heart), intelligenza irrequieta, instabile, iridescente. Io – irraggiungibile, irreale, insensato – insisto in inesistenze irrimediabilmente incapaci, insipide, inutilmente intricate. Intanto, intorno inetti indesiderati intonano inni insistenti, iddio inceneriscili immediatamente! Io, invece, invento infiniti inferni, inoculo identità irrisolvibili, invado intimità, ispiro idee inquietanti (io, immenso illuso). Innanzitutto in intuizioni incontrollabili, immensità inevitabilmente isteriche, illimitati joule, jihad joyciane, jumbo jet jacovittici: jolly, joker. Jackpot? Kraken kafkiani, karma ketaminico, kronos killer kamikaze. Kakia kallypigos: kryptonite limbica, leggerezze lugubri lungo linee leggiadre: labbra lascive lanciano lunghi lamenti. Lascio levitare le lettere – larve lynchiane, lombrichi letali, lucciole lussuriose – la loro luce lieve libera la luna, la lacera lentamente: lingue licantropi lambiscono le lussureggianti lande lunari. Lievitiamo linguaggi lisergici, latrati licenziosi. Lì, lontano lontano, lasciati, levati, lavati: moltiplichi malaria, molteplici mefitiche malattie. Mamma mia, moltitudini minorate, non minoritarie, manifestano menzogne mascherate maldestramente, miti mistificanti, mistificatori molesti masterizzano mode medievali (ma magliette moderne). Molti mostrano misticismi masticati, misteri millenari (maneggiando malamente movimenti millenaristi). Melliflui mufloni, merde maledette, mocciosi mafiosi, malati mentali, mettono mille mattoni, mattino mezzodì nottetempo, negando nozioni note. Non nutrono nessun nobile noumeno. Non nuotano, non navigano: navi nella neve. Non necessitano novità, nessuna narrazione, nessuna novizia Nefertiti, negano, negoziano, nervosi nessuno nominanti noialtri. Non notano niente: notano Niente (nel nome nefasto Natura). Nevica nevrastenia nelle narici, nugoli nefasti nelle nuvole nascoste nei nodi nevralgici, nudi nidi non necessariamente nostrani, nel nome “Nessuna nomenclatura” nascono nuove necessità, nuovi nemici, orribili organizzazioni. Onestamente, odio ogni “ormai”. Ondivago omettendo ovvietà, offro onde oceaniche obnubilanti ogni orpello ossequioso. Ottempero: operosità oblomoviane (ossimoro oltremodo ozioso), omeriche orge opalescenti (oscenità ormonali), originalità orgasmiche (overament), Orfeo oltretomba (ossequiando Ovidio). Oggigiorno, osservo ominidi ottusi operare osservazioni opprimenti, ottusità orripilanti, ossessioni onanistiche, ombre offensive, oltraggiosi olocausti, orrore ore ore, opprimendo ogni opportunità, ordendo obblighi osceni, osteggiando omelie. Occorre obiettare! Oh, perché? Perché proponete pietanze pietose? Ponete posizioni parossistiche, pisciate promesse, plagiando poesie. Proteste petulanti, proclami pretenziosi, polemiche pressanti: pietà! Perite, per piacere, poveri pazzi, pensatori plagiati, perché possiate proseguire, prego prima pensate, poi parlate, procreate problemi, perplessità puerili, perciò provateci: pensate. Praticamente queste questioni qualificano qualsiasi qualunquismo, qualunque quiproquo, quindicimila querelle quotidiane. Quadrumani questionanti quadruplicano quisquilie, quadretti questuanti, quozienti quattordicenni quotidianamente queruli, quando questi qui questionano quietano quartieri quagliando quattrini (quantunque, querelatemi!). Quasi quasi rovescio regnanti, re, regine: Roberto rules. Rimesto ricordi rumorosi, rovisto rumorosamente, regolarmente restano residui, reminiscenze ramificate. Raffiche ruggenti rivelano realtà recondite: sono svelati segreti scabrosi. Suicidarsi? Solita sopraffina soluzione, sempre spendibile. Suvvia, state sereni: sono sempre stato stoico. Sopravvivo. Sì, sì, solita storia: sono scemo, sono stolto, sono spregevole: sprofondo sotto spoglie semidesertiche, sprigiono sequenze semiotiche scanzonate, secrezioni sibilline superando severità sovrumane. Scrivo storie senza senso, stilo strofe sulle simbiosi subconsce, sulle sinapsi spregiudicate, sessualmente spinte. Seguo sogni surreali, supero stelle, spegno soli, sciolgo soluzioni, sprigionando speranze sconclusionate. Se solo sapessi spiegarmi… Spero soltanto sia sempre tutto temporaneo. Tempo, tu travolgi tutto: trionfi, tombe, tuoni, teorie, timori, tumori, tenerezze. Tempo trascorso troppo tumultuosamente, tutto tentenna, tutto tritura. Tempo testardo, terrorizza tirannosauri triassici, tropi topici, tropici topi, tipi tristi, turisti temerari, tremanti tamerici, tautogrammi tremolanti: tutti tentano, taluni trionfano, tanti tremano terrorizzati. Tempo tremendo, tu – usurpatore umanoide, uragano ululante – uccidi, urli, umili, ustionando ugole, utopie, uteri, ugualmente umetti ultrasuoni udibili, ubriachi universi utopici. Un unico ultimatum: urge uccidervi, umani, una volta verificate velleità, vizi, virtù, veemenze vivaci, veritiere, vivisezioni visionarie (violenze vane versus violenze vivificatrici); verso versi versi verso versificazioni volatili (versi venefici versus versi verità). Verrei volentieri volteggiando, vi vedrei verosimili. Veni, vidi, vicissitudini: vaneggiamenti velati, veleni versati voluttuosamente: vi voglio vene! Viadotti ventricolari, venti vibranti, virus visibilmente vogliosi, vulcani veementi, vermi vittoriosi. Voi volete vedermi veramente? Vedreste violenti weltanschauung, wunderkammer, Walhalla whitmaniani, wicca, weaknesses, Waterloo, wunderbar wagneriani, (welcome, xenia), xerosi, Xolotl, xanax xantano, yeti yeatsiani, yin young, yang yourself, zeitgeist zufolanti, zolfi zoroastriani, zibaldoni zampillanti, zattere zuppe, zombie zigzaganti. Ahhhhh, basta così, dannata eternità! Forza, gioisci homo innamoratus! Lasciati mostrare, non opporre polemici quesiti retorici, solo tenera umanità verso zanne affamate. Bere centinaia di ettolitri? Fiorire grandi horror immaginifici? Jammo kecazz (licenza mistico napoletana): occorre perseguire, quindi, realtà sognanti. Tuttavia, ultima vertigine: Wislawa xeres yakamoz: zauberstab. Yahweh, Xochiquetzal, Willendorf – venerabili utenti – tutti scongiuro: riprendetevi questi poteri onniscienti, nessuno merita logos, kenosis, jazz interminabili. Hic graffianti fantasmi evanescenti decretano cosmi blu: alfabeti.



La parola è creatura dell’uomo che fa paura
La parola è creatrice dell’uomo che poi dice:
«questo mostro sono io e tutto il mondo è mio»
E fantasmi e mondi che sfamano il suo dio


[quindi non mi resta che]


Andare beato cantando di ele fanti giurassici (habitat immaginario), lievitando metafore nascenti, opportune per questi respiri siderali, tutti uniti verso zero.


Allora basta così.
Ancora. Baciami. Chiara.


19.11.21

Recensione: "Freaks Out"

 

Freaks Out è il film che aspettavamo da decenni, quello che "tanto in Italia non lo faranno mai".
E invece l'hanno fatto.
E l'hanno fatto troppo bene.
E allora la critica di un intero ventennio si è trasformata, adesso il problema è che Freaks Out è veramente uscito, a che ce attaccamo ora?
Ah, sì, ha avuto troppo successo di critica.
Non ci sta mai bene niente, questo è un mondo dove l'unica cosa che si fa è criticare, prendere in giro, sentirsi migliori degli altri, invidiare il successo altrui, dileggiare le passioni degli altri, specie quando vengono espresse senza freni (sta cosa è deprimente, solo internet poteva portare a questa cattiveria).
Chi si diverte ad irridere un prodotto grandioso e coraggioso come questo non è credibile.
Meno credibile di questo tipo di persone c'è solo un altro tipo di persone probabilmente.
Quelle che considerano Freaks Out un film perfetto, un mezzo capolavoro nel suo genere.
Come me.
Quindi leggete solo se anche voi volete essere non credibili come me.
Ma meglio essere non credibili amando le cose che odiandole.
Sarebbe un mondo migliore


Anni e anni a sperare che in Italia si riuscisse a fare un film così.
Son 18 anni che so su sto mondo del cinema online. Ricordo tutto e tutti. Ricordo quanto un progetto del genere fatto da noi ci sembrasse una cosa impossibile.
E quanto ci speravamo però.
Poi è successo, quella cosa impossibile è successa.
E il fatto che sia successa è il suo unico grande torto.
Perchè da noi si critica quello che non riusciamo a fare.
Se poi però lo facciamo, e lo facciamo anche meglio di qualsiasi speranza possibile, e lo facciamo anche meglio di come lo fanno gli altri, allora si cambia bersaglio, quello che tutti auspicavamo diventa quello a cui ora bisogna gettar merda sopra.
Perchè ne parlano bene tutti, perchè ha fatto successo, perchè ovunque, dove ti giri, c'è Freaks Out.
E allora chi l'altro ieri moriva dalla voglia di avere un Freaks Out ora rode dall'invidia che alla fine l'han fatto davvero.
E l'han fatto troppo bene.
L'effetto Maneskin lo chiameremo, quello per cui speriamo di avere qualcosa di italiano che funzioni nel mondo e che tutti amano (come loro nella musica) poi quando questo accade non sopportiamo la cosa, ci mangiamo il fegato, odiamo quel successo, odiamo che tutto ciò sia avvenuto.

Poi oh, è sbagliato anche il contrario eh, è sbagliato anche chi, come me, grida al capolavoro, chi non nasconde di avere provato emozioni indescrivibili in sala, chi pensa che sto film sia praticamente perfetto.
Perchè sì, io penso sia perfetto.
Sia perfetto per quello che doveva essere, non perfetto tout court.
E rido ad alcune critiche.
Ma non badate a quello che scriverò, perchè quello che scriverò è un'esaltazione senza mezze misure di un film.
Ma, per favore, magari criticatelo, magari elogiatelo con la giusta misura. 
Fate tutto quello che volete ma no, offendere e non rispettare un prodotto del genere, quello che noi tutti sognavamo, è un atto indegno, non onesto, cattivo, arrogante.

Freaks Out, lo ripeto, è un film per me perfetto.
Per quello che è, un film di genere.
E' perfetto nella parte visiva, meravigliosa (e non parlo solo di effetti ma anche di fotografia).
E' perfetto nelle emozioni che dà.
E' perfetto nella sceneggiatura, in ogni suo aspetto, dalla caratterizzazione dei personaggi (due poi immensi), alla parte dialogica, alla trama, all'inserimento nel contesto storico.
Ho letto critiche che "mancano i fascisti"
Rido.
Ci si appiglia veramente a tutto, si voleva magari che Freaks Out fosse un revival del cinema neorealista italiano.
E' vero, c'è una scena bellissima con Matilde che corre e cade per strada, ma questo non è Roma Città Aperta.
Questo è cinema di genere che prova, con rispetto, a calarsi in un contesto storico.
E già ci sono troppe cose dentro, già la cura storica è stata anche sin troppo esagerata per situazioni e personaggi, i detrattori volevano anche i fascisti.
Ok.
Il fatto è che sto film "di supereroi" è 10 volte più curato di quelli americani, più complesso, più completo, più umano.
Ed è questo il suo problema, che l'essere così complesso porta a giudicarlo come un film non di genere.
Deve esse più accurato storicamente dei film storici, deve esse più emozionante dei drammatici, deve esse, deve esse...
No, Freaks Out non è un film a cui manca qualcosa, è un film che ha troppo dentro.
In ogni suo aspetto (di scrittura, visivo, di ricostruzione, di emozione) va oltre a quello che gli veniva richiesto. Per questo dico che è perfetto, perchè bastava molto meno, perchè per quello che è il suo ambito e il suo target bastava immensamente di meno.
Io lo trovo un miracolo.
Punto.


Ci tengo subito a dire che non vedo film Marvel o di super eroi in generale. Ma son sicuro che, per me, non c'è paragone tra Freaks Out e quel genere di cinema (ho visto un solo film di quel tipo, gli Avengers, e volevo uscire dal cinema).
Forse non è nemmeno giusto paragonare opere così diverse chè, alla fine, Freaks Out non basa la sua bellezza (e nemmeno la sua trama a ben vedere) sull'esaltazione di qualche super uomo. Anzi, i poteri dei quattro del film di Mainetti sono finti poteri, quasi inutili, più scherzi della natura (del resto quello sono, freaks, che altro). Forse sta proprio qui l'unico errore di una sceneggiatura per me grandiosa, quello di farci credere, e far credere al personaggio di Franz, che quei freaks potessero in qualche modo cambiare le sorti di una guerra.
No, non è credibile, a malapena hanno capacità per far fuori 5 nazisti in una bettola.
Vero, poi il finale, riguardo Matilde, ci mostrerà altro, ma per tutto il film ci viene raccontato come questi quattro possano esser decisivi per la guerra mondiale.
E no.
Ma, restando in questo ambito dei super poteri, è proprio qui la differenza abissale tra Freaks Out ed i suoi cugini americani.
Ovvero che quello che accade alla fine con Matilde, quel momento UNICO in cui quella magnifica ragazza libera tutti i suoi poteri, è quello che accade nei film USA ogni 5 minuti.
Ed è per questo che in Freaks Out l'unica scena di veri super poteri acquista così una valenza straordinaria, diventa metaforica, diventa il punto culminante di un intero film, diventa "umana". Quello che per gli altri è la normalità e la base di tutto (provate a togliere ai film Marvel tutte le scene di super poteri, non avremmo quasi il film) qui diventa il punto di arrivo, diventa qualcosa di importantissimo e unico, diventa l'anima di un film.

Non so dove cominciare.
Il prologo, super burtoniano, è splendido.
Magico, tenero.

14.11.21

Recensioni: "L'uomo nel buio - Man in the dark 2" e "Meander" (Meandre) - Due thriller per Emidio

Oggi parlo di due film in un unico post. Ovviamente li "dedico" ad Emidio, visto che c'erano pochi amanti del thriller come lo era lui.
Riguardo il cinema di genere era veramente un punto di riferimento tra noi, li vedeva veramente tutti ;)
Di questi due uno gli sarebbe piaciuto da morire (Meander) uno un pochino meno (L'uomo nel buio). Stessa cosa per me tra l'altro. Ma anche perchè Emidio era forse, tra tutti, quello con cui mi ritrovato di più nei giudizi. Ricordo che una volta ci mettemmo a ridere per come avevamo messo lo stesso voto a 10 film consecutivi :)
Sembravamo gemelli diversi (molto diversi...). 
Lui li avrebbe raccontati meglio ma, sono sicuro, avremmo detto cose parecchio simili.
L'uomo nel buio è il sequel dell'ottimo Man in the dark. Siamo una spanna sotto al primo capitolo. Film con molte forzature (lo era già la stessa idea del sequel), veramente poco credibile ma che più passa il tempo più si rivela invece un thriller quantomeno sufficiente e con più di una sequenza azzeccata nel finale.
In ogni caso chi ha amato il primo fa benissimo a vederlo.
Il secondo, Meander, è un thriller sci-fi davvero realizzato benissimo.
Certo lo spettatore deve accettare un'idea di partenza e una "struttura" veramente assurda.
Una ragazza si ritrova in un intricatissimo dedalo di strettissimi cunicoli  e trappole mortali.
Grande regia, ottimi effetti speciali vecchio stampo, un'attrice molto credibile e un film che ad un certo punto tenta anche la via esistenziale.
Se accettate l'assunto iniziale davvero un titolo da non perdere




Uno dei sequel più scontati della storia dei sequel (scontato nel senso di quanto fosse sicuro lo facessero) si rivela un film che non aggiunge niente al primo capitolo e che, con una storia veramente ai limiti, cerca di restare comunque in una qualche coerenza col progetto.
Intendiamoci, il vecchio cieco doveva morì già sull'uno, il fatto che fosse sopravvissuto era un mero espediente per il seguito. E allora pigliamocelo sto seguito.
"L'uomo nel buio" è un discreto thriller, una spanna sotto il primo capitolo, che ha il difetto di presentare tante, troppe situazioni mal gestite.
Se nel capostipite infatti tutto ci appare molto credibile (paradossalmente anche la terribile cosa che scopriamo nel finale) qua a scrivere c'è una mano leggermente più grossolana.
Il primo tempo è una sequela senza fine di forzature, di scene - come le chiamo io - "da horror stupido" che rovinano un pò questo brand che poteva fare del drammatico/thriller abbastanza verosimile una sua peculiarità.
Paradossalmente nel secondo tempo, quando scopriamo l'assurda storia alla base della trama (loro che rapiscono la bambina per prenderle il cuore per salvare la madre in fin di vita) tutto diventa sì più inverosimile, ma più coerente (attenzione, c'è molta differenza tra l'inverosimile e l'incoerente, il primo aggettivo nel cinema di genere non conta niente, non è un difetto, il secondo lo è  SEMPRE, in qualsiasi tipo di film).
La cosa più "pericolosa" e al tempo stesso forse più interessante (direi di entrambi i capitoli) è ritrovarci davanti a quest'uomo capace di cose terribili ma col quale, in alcuni momenti, vai in empatia. Non capisci mai se lui è il buono o il cattivo, a volte lo tifi ma poi ti viene da vomitare se pensi a quello di cui è stato capace (la ragazza segregata nel primo, la bambina rapita nel secondo).
Per fortuna in questa scrittura eticamente discutibile c'è comunque un finale dove l'uomo, con molta sincerità, si dà del mostro, e allora siamo tutti contenti.
Inutile dire come ci siano almeno due errori pacchiani.
Il primo che la bimba dell'incipit avrà almeno sui 5 anni e quindi era da molto tempo era capace di riconoscere il volto del padre (non ha alcun senso nè che una volta rapita non capisca che quello non è suo padre nè che quando arriva quello vero non lo riconosce), la seconda che tutta la trama si basa sul fatto che la donna sia la "cuoca" delle metanfetamine e se muore lei finisce tutto, sono tutti spacciati.
Ma dio carissimo, non può insegnà la "ricetta" a qualcun altro? Dio santo, non ha alcun senso.
Il secondo tempo, però, scorre che è una meraviglia, ha più di una buona scena come quella con lui in quella pozzanghera che spara a tutti con quella magnifica fotografia sul blu, la sequenza in quella nebbia rossa (alla Behemoth) o la scena della carrozzina che cade giù, loro appese, e relativo taglio del braccio.
Purtroppo immaginare che 10 ex soldati giovani e forti facciano tutti la fine del gatto contro un vecchio cieco fa veramente storcere la bocca (ma forse è perchè sparano "alla cieca", non al cieco).


Ci sono scelte inaccettabili.
Sta morendo tua "figlia", le possibilità di sopravvivenza sono al lumicino sia per te che per lei e te che fai? Decidi invece di sgozzare o sparare a uno di chiudergli la bocca col bostik sperando che muoia soffocato. Io ste cose le ho sempre odiate, NESSUNO nella realtà (a parte quei sadici che hanno le loro vittime a loro completa disposizione e tutto il tempo che vogliono), nessuno dicevo quando c'è una questione di vita o di morte pensa ad uccisioni fantasiose, semplicemente c'è la disperazione e si prova ad uccidere.
Penso poi a lei che si rinchiude nell'armadio (ma che strategia è?) o ad altre forzature veramente grandissime.
Eppure il film scorre, ha il grande merito di migliorare sempre e si arriva alla fine che quasi quasi ti sembra di aver visto un buon thriller.
Si tenta anche di essere impegnati, con questo eterno dilemma se la famiglia è chi ti ha messo al mondo o chi ti ha cresciuto ma, ecco, resta tutto veramente abbozzato, di certo emozioni non è che se ne provano molte.
Lui è sempre fantastico, la bimba bravina, il resto tutti attori e personaggi funzionali.
Siamo lontanucci da quel gioiellino di Alvarez del primo capitolo ma, se si fermano qua, questo secondo episodio può aver avuto il suo senso

6/6.5


 

Ecco, qui alziamo il tiro.
Intendiamoci, Meander è un film pieno di difetti, con una storia che sembra non stare in piedi (anche se a seconda dell'interpretazione che si dà al tutto potrebbe anche reggere), con lo spettatore costretto a sfidare continuamente la sua sospensione dell'incredulità.
Ma, ecco, una volta che accettiamo che il film è forzatissimo poi c'è poco da fare, è realizzato alla grande (e ha coerenza, tornando a sopra).
Una donna che ha perso la figlia da poco (scomparsa o morta, non lo sapremo) si ritrova prima nelle mani di un serial killer (dentro il suo furgone) poi, non sappiamo come, in un gigantesco dedalo di cunicoli strettissimi.
Ha sul polso un braccialetto con un timer.
Scoprirà di dover affrontare un percorso pieno di pericoli mortali a varie tappe (scandite appunto dal timer). Una volta scaduto il tempo la  morte è certa (o forse no...).
Lo capite da soli, non ha senso.

11.11.21

Ciao amico

Ho scritto queste poche righe su facebook ma poi ho pensato che il luogo più adatto fosse questo. Perchè con i blog io ed Emidio ci siamo conosciuti, perchè siamo cresciuti insieme, perchè ci siamo commentati per anni, perchè questo era il nostro mondo. Se ne è andato Emidio Tribolati, grandissima persona, amico caro di un tempo (venne anche a trovarmi a Perugia con la sua splendida famiglia) e gestore di uno dei blog di cinema più competenti, umili e belli dell'epoca d'oro dei blog, Le Maratone di un Bradipo Cinefilo.
Così si definiva, bradipo, perchè era grande, grosso e lento.
Emidio che già in famiglia aveva vissuto un periodo tremendo riguardante sua figlia (poi finito bene per una sorta di miracolo, ricordo ancora le mail che ci siamo scambiati, l'angoscia e poi la gioia che fosse passato tutto).
Emidio che si svegliava alle 6 di mattina solo per scrivere le sue recensioni, prima di andare al lavoro (veterinario).
E io che mi incazzavo con lui perchè non capivo come riuscisse a fare 400 recensioni all'anno (e quindi anche a vedere un film al giorno) quando io faticavo ad arrivare ad 80.
Emidio che poi lasciò tutto, un pò perchè stremato da tutto quello che gli era accaduto un pò perchè mi diceva che ci vedeva sempre meno, che era sempre più faticoso scrivere.
Sono orgoglioso di essere stato suo amico, in un periodo anche amico molto caro credo.
Ricordo la sua sensibilità, il suo starsene nascosto, la sua educazione, la sua umiltà (fu uno dei primi blog a raggiungere 1000 visite al giorno e lui nemmeno ci faceva caso in un mondo in cui altri con 50 visite al giorno si vendono come dei in terra).
Mi piange il cuore essersi persi e poi vedere su facebook sta tragedia immane.
Tanti di voi lo conoscevano, tanti no.
Se vorrete conoscerlo andate nel suo blog, perchè vi arricchirete, perchè scoprirete migliaia di film e un uomo che sapeva raccontarli con competenza, garbo ed umanità
Un abbraccio gigantesco a sua moglie e ai suoi due figli, orgoglioso di avervi conosciuto LE MARATONE DI UN BRADIPO CINEFILO

8.11.21

Recensione: "Ultima notte a Soho"

 

E così mi ritrovo Edgar Wright (quello della magnifica Trilogia del Cornetto per capirsi) a dirigere un raffinatissimo noir/thriller psicologico ambientato per gran parte nella accecante per quanto bella Londra degli anni 60.
Thriller di gran classe, sul tema del doppio, intrigante e bellissimo da vedere.
Eppure nel secondo tempo viene fuori sempre di più una componente horror che alla fine fagocita tutto facendo perdere gran parte della classe che il film aveva.
Non solo, il film smentisce quello che era nel primo tempo anche per altri motivi.
E ci porta ad un finale "impegnato" scritto però in maniera furba o ambigua, o entrambe le cose.
Eppure uno di quei film che non te li dimentichi.
Non foss'altro perchè nessun film con gli occhi della Taylor-Joy può essere dimenticato

presente qualche spoiler nel finale

Edgar Wright è un grandissimo regista.
La sua "Trilogia del cornetto" ha fatto la storia del genere (quello comico parodico di qualità). Li ho amati tutti, indistintamente.
Ho sentito parlar molto bene anche di Scott Pilgrim e di Baby Driver, non faccio fatica a crederlo.
Ed ecco che con molta sorpresa me lo ritrovo in un mondo completamente diverso, quello dell'horror.
Perlopiù addirittura dell' horror raffinato.
Oddio, raffinato, è proprio questo il problema di questo bel "Ultima notte a Soho", ovvero che ad un certo punto passa dall'esser un ottimo ed interessantissimo thriller di classe ad un horror tout court sì "impegnato" ma che, e mi dispiace un casino dirlo, non solo fa calare la "classe" del film di due spanne ma, ed è ancora più un peccato, sembra quasi sabotare il primo tempo, uccidendo tutte le suggestioni che ci aveva regalato per virare (quasi) da tutt'altra parte.
Per prima cosa devo dire per  l'ennesima volta che vedere gli occhi di Anya Taylor-Joy al cinema è sempre motivo bastante per pagare un biglietto. Non lo dico da uomo (sì, è bellissima, per me forse la più bella con la Marling e la Qualley) ma proprio da amante del bello (e degli occhi).
A 25 anni ha già alle spalle una filmografia di buona qualità e tanti ruoli iconici. 
Iconici perchè è stata lei, probabilmente, a renderli tali.
La affianca una giovanissima attrice che ho trovato di altissimo livello, quella Thomasin McKenzie che avevo visto da pochissimo in Old (tra l'altro assurdo che la Taylor-Joy sia venuta fuori - con The Witch - proprio interpretando un personaggio che si chiamava Thomasin - grazie Matteo per avermelo segnalato - ).
Già nell'incipit del film, un incipit tra il musical e il disneyano, quel vederla ballare per casa, fintamente pavoneggiandosi, ce la rende deliziosa, tenera, dolcissima.
In realtà il suo personaggio forte non sarà (la ragazza è una specie di loser di campagna disabituata ai ritmi e agli squali della city) ma sicuramente ambiziosa sì.
Vince un concorso per aspiranti stiliste, se ne va quindi a Londra.


Si ritroverà in una specie di ostello festaiolo, snob e sottilmente cattivo, come può essere un ostello frequentato da giovani ambiziosi.
Si troverà tremendamente a disagio e allora affitterà un piccolo monolocale in un vecchio palazzo.
Sua affittuaria una ambigua signora londinese.
Allora...
Il primo tempo del film, come dicevo, è un thriller psicologico di notevole classe che gioca col tema del doppio femminile come, per capirsi, hanno fatto in passato capolavori come Mulholland Drive e grandi film come Il Cigno Nero.
Tutto questo si mischia ad un'altra tematica, ovvero quella di quanto occorre "sporcarsi", far uscire la propria anima nera, accettare compromessi e subire violenze psicologiche per far strada nel mondo dello spettacolo.
A tal proposito vi consiglio un vero e proprio gioiello a cui per una buona mezz'ora Soho viaggia quasi parallelo, Starry Eyes.
Wright ci mostra questo gioco di doppi attraverso un uso massiccio degli specchi. Specchi ovunque, superfici riflettenti, di tutto.
Non c'è una vera e propria "identità" tra Eloise e Sandie, per capirsi un gesto fatto da una davanti allo specchio non lo vedremo replicato dall'altra.

4.11.21

Recensione: "France"


Difficile crederlo ma dopo Days mi ritrovo a fare un'altra mezza stroncatura.
France è il mio secondo Dumont (dopo Ma Loute, quindi mi manca tutta la sua produzione più importante e significativa).
Ecco, mi scoccia scriverlo ma France, per me, è un film potenzialmente splendido ma sbagliato.
So che per tutti il grottesco, le esagerazioni e le approssimazioni che ci son dentro sono fortemente volute dall'autore. Per me no, o meglio, non tutte.
E anche se fossero volute a me il film, un film che parla di mille (troppe) cose insieme, non è arrivato.
Peccato perchè il personaggio della Seydoux è tanta roba, e lei tantissima roba.
Solo per vedere lei, solo per vedere la sua France, bisognerebbe pagare tutti i biglietti del mondo.
Ma son troppe le cose poco curate, troppe, e l'effetto che m'ha fatto è probabilmente l'opposto di quello che doveva fare.
Peccato, davvero

Non sapevo nemmeno se scriverla, alla fine, sta recensione. Tanti giorni passati, la sensazione che magari sia io a non averlo capito sto film e la mia idiosincrasia a parlar male dei film mi suggerivano di evitare. 
Eppure, pur sapendo quasi sicuramente di essere in torto, sono troppo forti le convinzioni per cui credo che France sia un film pensato benissimo e realizzato male.
E ogni tanto scrivere di cose che non piacciono o "non tornano" credo sia stimolante (almeno per chi scrive, per voi non so).
La cosa buffa è che qualsiasi cosa scriverò potrà essere controbattuta da chi ha amato il film con un: "Guarda pirla che era tutto voluto eh".
No, non tutto, con arroganza posso dire che sicuramente non tutto era voluto.
Innanzitutto devo dire che non conosco Dumont, regista cult del quale devo assolutamente recuperare più cose possibili.
Il mio Dumont si limita a quella specie di divertissement che fu Ma Loute (a memoria mi piacque molto ma devo ricontrollare) e a questo bel film sbagliato che è France.
Bel film sbagliato.
Sì perchè a raccontarlo France è una bomba.
E' una bomba per le tematiche che ha dentro, è una bomba per il personaggio principale, è una bomba per quanto è interessante.
Eppure ha un problema, ovvero di dare la tremenda sensazione che il grottesco e le esagerazioni che ha dentro non sono figlie di perizia ma di imperizia.
Il grottesco non è un minus, ma un plus.
Nel senso che per fare il grottesco devi avere più capacità, non meno.
Altrimenti possiamo definire grotteschi tutti i film amatoriali, anche di conoscenti, e il gioco è fatto.
No, una trama grottesca, un personaggio grottesco e delle scene grottesche sono figlie di grandi capacità di scrittura e attoriali. Perchè in questo genere si mischiano tanti stili e tante letture, il grottesco è la matrioska più grande di tante più piccole.
Tutte le esagerazioni che racconta e mostra France, tutte le deformazioni, a me non sono arrivate con quella meravigliosa sensazione di quando vedo film grotteschi ma come cose "fatte male", per usare quella tremenda espressione che usa chi di cinema ne vede magari tanto ma ne capisce poco.


La quasi totalità dei personaggi di France è mal scritto, è una macchietta, è puramente funzionale ma non "complesso". Così lo sono la quasi totalità delle sequenze e dei dialoghi. E non mi è piaciuto manco il montaggio con quelle assurde ellissi temporali ad esempio (lei in studio, poi lei in "guerra", poi lei in studio, poi lei in guerra, senza mai un raccordo).
E anche le tematiche son troppe (i media cinici, i migranti, la guerra, il capitalismo), tutte buttate là quasi alla bell'emeglio.
Ma tutto l'ho trovato approssimato, persino la regia.
Voi mi direte che è tutto voluto, che se vediamo la stessa estenuante scena di gente che si vuol fare un selfie con France è un'esagerazione riuscita, che quel personaggio ridicolo del fidanzato che è ovunque e la ferma per strada, entra su una macchina già aperta e le grida "ti amoooooooo" è riuscito e voluto, che il personaggio dello psicologo è riuscito e voluto, che il fatto che ogni tematica venga spiegata è riuscito e voluto, che le scene col marocchino (terribili) sono riuscite e volute, che il fatto che France, la più IMPORTANTE giornalista francese se ne vada in giro con solo una telecamera e quindi deve ripetere le battute per poi fare montaggio da diverse angolazioni (quando sarebbero bastate due telecamere) è riuscito e voluto, che nella scena MAGNIFICA, da pelle d'oca, dell'incidente vediamo però in camera car che il camion davanti a loro si era fermato e poi che lui mentre la macchina SI RIBALTA continua a guidare e girare il volante è riuscito e voluto, che la pazza al sanatorio è un personaggio riuscito e voluto (vi giuro, scene che della peggior televisione), che lui che canta in latino in montagna è una scena riuscita e voluta, che quando il bambino durante la scena dei voti a scuola volge lo sguardo 3 volte dietro la madre in cerca del regista è riuscito e voluto, che quando c'è la scena del gommone e uno degli scafisti per altre tre volte guarda anch'esso dietro la telecamera per capire che deve fare è riuscito e voluto (sei un genio Dumont, 35 errori o cose malfatte tutte per esaltare il tuo tema), che dio cristo la PRIMA scena dove davanti al Presidente Francese lei e la sua assistente (uno dei personaggi più odiosi del cinema recente) fanno quelle facce e simulano cunnilingus e fellatio è riuscito e voluto (questo NON è grottesco, non è esagerazione semantica o artistica, questo è semplicemente sbagliato, irreale e trash), che quado France lascia la tv e sempre la sua assistente va al cellulare ad esultare della reazione della gente è riuscito e voluto (però mi raccomando, se ste scene, IDENTICHE eh, le vedete in un film di Natale vi fanno ribrezzo).
E mi fermo qua ma il taccuino ha tante più cose.
E però cristo questo è un film con un grandissimo personaggio principale interpretato da una grandissima attrice.


E allora io mi prendo tutti i primi piani della Seydoux, sempre sotto un velo di cerone, questa donna che piange 15 volte e ogni volta hai la certezza che sia un pianto finto e la sensazione invece che sia tremendamente reale, questo personaggio a tutto tondo che non ha niente di vero intorno a sè ma sente che forse c'è qualcosa di vero dentro di sè, questo personaggio che anche sotto gli spari si ferma e cerca di pronunciare la frase perfetta (questa è l'esagerazione che funziona, questa), questa donna che sembra un pezzo di legno ma invece, probabilmente, sa cos'è l'amore (e la scena nell'albergo è l'unica a livello dialogico a funzionare insieme al monologo finale), questo personaggio che sembra dentro un grande Truman Show (i due film hanno 4 spanne di differenza) dove, però, lei è sia la persona protagonista del reality che l'uomo sulla Luna a dirigerla, questa donna che tira fuori un monologo finale da pelle d'oca (con macchina da presa che le si avvicina come nell'indimenticabile ultima inquadratura di Magnolia).
Questa donna che davanti ad un campo fradicio, ad una palude, dirà

"Sto pensando a quanto è bello qui"

Perchè sì, perchè quello che ha davanti è reale, perchè per la prima volta sta vivendo una sequenza di vita che è autentica.
E allora anche un acquitrino può diventare più bello di qualsiasi altro luogo.
Perchè non c'è niente di più bello dell'esser veri