29.9.21

Recensione: "Drive my car"

 

Film lungo, lunghissimo, estenuante, parlatissimo, una fatica. Ma una di quelle fatiche che portano a qualcosa, una di quelle fatiche che non sono la conseguenza di ma il metodo per.
La storia di un regista teatrale imprigionato in una rettitudine morale e in una incapacità di reazione quasi patologica.
Un film probabilmente sul controllo, sulla necessità di avere controllo, sulla necessità di dover guidare la propria macchina perchè si è convinti che soltanto se la si guida da soli possa funzionare. Ma, come nella vita, non è vero, come nella vita a volte serve un autista esterno per farti capire che quella macchina, che quell'anima, può avere anche una guida diversa, e forse salvifica.
Ma Drive my car è anche una grande opera sulla commistione tra vita e teatro, sulla necessità di liberarsi dai ricordi, sulla verità o rappresentazione dei sentimenti, sulla dicotomia tra voce e silenzio e sulla paura di cambiare percorso.
Perchè a volte solo cambiandolo ci si può ritrovare

Primo film che vedo di Hamaguchi, uno di quei registi cult giapponesi che alla fine, vuoi uno vuoi l'atro, qualcuno ne manca sempre all'appello.
In realtà vedo che la sua filmografia è piuttosto esigua e recentissima, mi sento meno in colpa.
Non sapevo niente del film tranne che durava uno sproposito (3 ore) ed è parlatissimo (confermo).
Tolgo subito un dubbio a chi si(mi) chiederà: "Oddio, 3 ore, troppo, ma non è stancante?"
Sì, è stancante, e sì, è troppo.
Ma non solo si arriva alla fine senza morire sulla poltroncina, non solo paradossalmente nel finale arrivano anche più forze di prima ma, e questo vale nel cinema come nella vita, bisogna ricordare che ci son cose che costano fatica, che devono costare fatica, cose in cui la fatica non è la conseguenza del percorso ma una delle componenti principali dello stesso, se non c'è lei allora non vale, allora non serve.


E' un film colto, possiamo dire tranquillamente "troppo" colto, nel senso che è una di quelle opere per cui in base a quanto uno ne conosce bene i riferimenti (Murakami, Cechov) allora può prenderne di più o di meno, come se un film alla fine possa essere paragonato ad una scodella di riso dalla quale ognuno di noi, con cucchiai di grandezza diversa, può attingere in maniera diversa. 
Il cucchiaio che avevo io per Drive my car era un piccolo cucchiaio (Cechov per me è una lettura adolescenziale rimasta fuori dai ricordi) ma per fortuna non piccolissimo vista la mia buona frequentazione con Murakami.
E sì, in ogni frase di Drive my car, in ogni personaggio, in ogni conflitto, in ogni mistero sembra di leggere le pagine di Murakami. Son personaggi profondi e verbosi, sempre che un personaggio possa essere verboso non per quanto parla ma per quanto per costruirlo bisogna parlar di lui. Personaggi che hanno sempre qualcosa nel passato che li attanaglia, a volte cose piccole che Murakami fa diventar macigni, a volte macigni che non possono non esser tali.

Yusuke è un regista e attore teatrale. E' famoso nel suo ambiente, molto conosciuto, anche se non pare navigare nell'oro (questo è il teatro) e gira ancora da 15 anni con una Saab rossa che diventerà personaggio principale del film, come se le ruote fossero gambe, la carrozzeria pelle e gli interni l'anima.

22.9.21

Recensione: "In the Earth" - Rocco's House - 2 -

 

Ormai non so più giudicare Ben Wheatley.
Mi sono piaciuti talmente tanto i primi 3 film suoi che ho visto e m'hanno talmente poco convinto gli altri ch,e per me, resta un mistero.
Quest'ultimo suo film, "In the earth", è forse il suo progetto più ambizioso.
Film che forse pretende di essere profondamente spirituale (fermandosi però all'esser solo spiritico) raccontando la vicenda - abbastanza confusa - di degli scienziati che devono studiare la flora di un'area boschiva (ricorda molto Annientamento).
Solo che in questo bosco c'è una forza ancestrale, una specie di Spirito (che rappresenta la Natura stessa) che..., boh, non l'ho capito.
Film confuso, con spunti straordinari, con almeno due scene psichedeliche magistrali (come A Field in England) che però non riesce a creare quell'atmosfera densa e minacciosa che un soggetto del genere presupponeva.
Finale molto interessante che, per me, può ricordare per certi versi Martyrs

Questa è la vera recensione del film (mi riferisco al post precedente a questo)

Io Wheatley ormai non so più come giudicarlo.
Amai talmente tanto i primi 3 film suoi che vidi (Kill List, A Field in England e Sightseers) che quando pubblicai la lista dei migliori giovani registi mondiali lo misi addirittura in cima, come immagine copertina.
Poi però arrivò High Rise, film tratto da un romanzo difficilissimo da filmare (Il Condominio di Ballard, bellissimo) e che, a mio parere, è opera quasi completamente sbagliata.
Poi sono arrivati altri film che, ammetto, non ho visto ("Free Fire" e "Happy new year, Colin Burstead") ma che TUTTI i miei amici mi hanno detto inferiori ai primi 3 del regista.
Poi è arrivato per Netflix il remake di Hitchcock "Rebecca" e lì, a quanto ho saputo, la vaccata non resta nemmeno più soggettiva, ma è eclatante.
Ecco che invece l'ultimo film, questo "In the Earth", per un paio di immagini viste  e qualche voce che mi era arrivata, mi aveva fatto davvero sperare ad un ritorno ai vecchi fasti.
E invece no, sicuramente è un bel film e altrettanto sicuramente (oddio, almeno credo...) è migliore degli ultimi Wheatley ma no, non raggiunge i livelli dei film con cui mi ero innamorato di lui.


Di sicuro "In the earth" è un film molto ambizioso, forse troppo ambizioso.
Wheatley scrive un'opera che vuole essere profondamente spirituale ma forse si ferma all'essere soltanto spiritista.
Un'opera che racconta la Natura come forza ancestrale con una vera e propria anima, nera perlopiù.
Tutto questo lo fa in una cornice da Covid 19, con questi scienziati confinati in un'area protetta dove far esperimenti (non ho capito cosa...) mentre il resto del mondo (la "Città") sta combattendo un terribile virus. Non so quando Wheatley abbia scritto il film ma si parla esplicitamente di lockdown e, davvero, sembra un instant film.
Ora...
Intanto il film a me per gran parte della sua durata ha ricordato Annientamento (anche lì degli studiosi che devono visitare una zona ostile e studiare flora e fauna), il film di Garland che fu massacrato da una critica che, secondo me, in molti casi non aveva compreso la magnifica portata metaforica dell'opera. Poi però In the earth si discosterà abbastanza da quelle tematiche (anche se non troppo, alla fine si somigliano) per raccontarci questa storia di Spiriti e Natura, tutto nella cornice strabusata ma sempre bellissima del Bosco.
Ne viene fuori un film secondo me tanto confuso, a tratti noioso e che non riesce minimamente a far venir fuori la potenza che un soggetto tanto ambizioso pretendeva.
Intendiamoci, il film è bellissimo da vedere (poi Wheatley è maestro a raccontare gli spazi aperti, i campi, i boschi) e ha tanti tanti elementi interessanti, ma c'è la sensazione di trovarci davanti a troppe idee che fanno fatica a stare insieme.
Il lockdown, gli studiosi nel bosco, lo spirito della natura, l'uomo segregato, i riti, la ricercatrice, tutti gli elementi sono messi insieme abbastanza alla rinfusa, in modo poco convincente.
Non si capisce nemmeno qual è l'obiettivo finale, se quello di raccontare delle forze ataviche che esistono ben prima dell'uomo, quello di narrare l'eterno scontro tra Fede e Ragione (da una parte il pazzo dall'altra la dottoressa) o se quello, invece, di mostrare un percorso molto più umano, una specie di percorso di consapevolezza di ciò che siamo e del senso della vita.
La ricercatrice frastornata nel finale (non ricordo quale delle due, è passata una settimana) pare quasi la ragazza martirizzata di...Martyrs, ovvero un essere umano che ha attraversato un percorso terribile di sofferenza che, però, l'ha portata alla Verità, all'aver scoperto il senso di tutto.
Questo è molto molto interessante ma il fatto è che io quest'aura mistica o comunque densa  non l'ho mai vissuta durante il film, film che, invece, restava sempre abbastanza superficiale e "innocuo".
Avviene una cosa dopo l'altra in modo veramente gratuito (le torture del pazzo, le foto che fa in onore dello Spirito, le ricerche della dottoressa, la Pietra) senza che ci sia mai la sensazione di una scrittura coesa o ispirata.
Per fortuna il film visivamente ha dei momenti straordinari, grazie ad una magnifica fotografia, a dei luoghi bellissimi, alle scene più forti (tipo quelle della ferita) e, soprattutto, grazie alle sequenze psichedeliche "alla A field in England" di cui Wheatley è maestro.
Ecco, secondo me i due momenti migliori del film sono i due montaggi psichedelici velocissimi (roba da più frame al secondo) che ci sono nel finale.
Ed è molto interessante come questi montaggi rappresentino delle specie di "visioni" dei protagonisti, come se in quel susseguirsi velocissimo di immagini, forme e suoni, possa essere racchiuso il "senso della vita" di cui sopra.
Solo che sti momenti restano legati a vicende che non convincono per niente (come quella nebbia che pare esserci solo da un lato ma proibisce loro di andar via o come tutta la questione, debolissima, dei libri e della pietra).


C'è anche tutta la possibile lettura riguardo i sintomi da droga (come in A field in England ci furono i funghi) ma anche questa resta più che altro una suggestione.
E' come se il film abbia voluto essere un'opera probabilmente sul Male ma non abbia mai avuto l'atmosfera per esserlo (ad esempio un altro film bello ma che io non ho amato come l'hanno amato in tanti, Hagazussa, quel potere l'aveva). Non è facile raccontare nel cinema cose così grandi come il Male, specie poi non il male terreno, bensì quello più grande dell'uomo, quello sovrumano. Per capirsi un film che viene erroneamente definito come "horror comico", La Casa (non lo è per niente, semmai nel secondo capitolo lo è a tratti) quell'atmosfera che cercava "In the earth" ce l'aveva, eccome.
Voglio però rimarcare una cosa che ho trovato bellissima.
Nella prima sequenza allucinata, quella con i faretti tipo strobo e la voce ovunque presente grazie alle casse ho visto un grandissimo omaggio al Cinema.
Perchè in realtà quella sequenza così psichedelica non è frutto di post produzione o non è "fuori" dal film.
Ma tutto quell'effetto disturbante che vediamo è dovuto a faretti e casse, faretti e casse che sono completamente dentro la diegesi del film.
Ecco, forse la sequenza più bella è quella dove, magari senza volerlo, oltre all'effetto vedevamo anche il trucco.
Come fossimo stati in regia

17.9.21

Recensione: "In the earth" - Rocco's House - 2 - NO!, SCUSATE! VOLEVO SCRIVE LA RECENSIONE MA POI HO COMINCIATO A DESCRIVE LA SERATA SURREALE A CASA DE ROCCO E HO PENSATO CHE FOSSE SUFFICIENTE QUELLA. E ALLORA LA VERA RECENSIONE LA SCRIVO DOMANI

 


Ho acceso il pc per recensì l'ultimo film di Wheatley, In the earth.
Poi però volevo scrive du righe su tutto quello che è successo a casa de Rocco nella serata.
E me so accorto che come recensione basta e avanza quella.
Il film domani, sticazzi

Siamo io, il mi fratello e Rocco.
A casa de Rocco.
Secondo me i più intelligenti de voi, avendo letto come nome della rubrica Rocco's House, l'avevano capito.
Prima magnamo.
Stasera ho deciso de fa i wrap, che adoro.
Praticamente piadine ripiene chiuse meglio delle piadine.
Le fo con salsiccie, gorgonzola e zucchine alla peppe, ovvero saltate in padella con pan grattato e pecorino (ve le consiglio).
Memore dell'altra volta quando sull'amatriciana misi UN PEZZETTINO DE PEPERONCINO DE ROCCO e quel solo pezzettino aveva ucciso mezzo chilo de pasta (tanto da dovè boccheggià durante la cena e da riceve un sms de Rosso all'una de notte su problemi di bruciori mentre faceva..., ok, ) dico, memore de quel ricordo assurdo decido, nella padella con le zucchine, de mette UN QUARTO DE PEZZETTINO del peperoncino de Rocco, per capisse una cosa meno de un'unghia de mignolo.
Niente da fare, quel microgrammo ha invaso le zucchine. Non a livello de rovinacce la cena (a detta degli "ospiti" eccellente, tanto da fa il bis) ma c'è andato vicino.
Prossima volta ho deciso che quando userà il peperoncino de Rocco, ossia il neonominato Devil's Pepper, farò una cosa, ovvero prende la bustina (tipo droga) dove Rocco li tiene e la faccio passà sopra la padella senza manco aprì la bustina. Credo che basterà questo planar sopra, questo sguardo che il peperoncino darà al cibo, per dare la piccantezza giusta.
Comunque ce siamo salvati.
Col cazzo.
Perchè d'ora in poi succederanno talmente tante cose che ce sembrerà de esse dentro The vast of night (bellissimo).
Allora, mentre chiacchieramo post cena mettemo in tv Fantozzi contro tutti. Tutti e 3 lo idolatramo Fantozzi ma Rocco quel film lo sa talmente a memoria che ce anticipa ogni battuta.
Il film finisce e noi tra wrap e Fantozzi semo sempre più gasati.
Avevo deciso de vedè In the earth, l'ultimo film de Wheatley, e allora lo avevo portato in hard disk.
Rocco attacca l'hard disk alla sua tv da 100 pollici (capito Nencioni? i sindacalisti in realtà son capitalisti) e niente, pronti per vedè il film.
Sono le 21.03
Solo che dentro sto hard disk non trovamo il film. In realtà compaiono piano piano migliaia de file (io mai messi, lì dentro ce sono solo film e video che nessuno deve vedè, infatti avevo il terrore), file "generali" che non so che cazzo erano.
Dopo un quarto d'ora desistiamo.
Allora, siccome eravamo 3 geni, abbiamo la prima grande idea, mettemo il film dentro il pc de Rocco e poi lo attaccamo alla tv.
Quindi famo sta cosa ma ci accorgiamo (e io sta cosa la sapevo anche perchè l'har disk l'avevo prestato a un paio di amici) che la prima volta che quell'hard disk viene trasferito su un pc nuovo sta MEZZ'ORA a trasferì cose.
Sono già passati 45 minuti.
Nel frattempo, nell'attesa dico, in televisione troviamo concentrata tutta la peggio merda mai vista nella storia della tv.
Roba che la meglio cosa era le Tartarughe Ninja (la peggio sicuro il film con Seagal, roba da diventà serial killer).
Comunque alla fine tutto a posto, l'hard disk ha trasferito i dati.
Non resta che attaccarlo alla tv.
Basta un cavo hd, quella cosa che credo sia presente in qualsiasi casa del mondo, anche quelle dei più poveri.
Ma non a casa de Rocco.
Anzi, Rocco ce propina il cavo quello dei pc fissi, non me ricordo come se chiama, pensando che fosse quello HD.
Niente, dopo un'ora de madonne scopriamo che niente film.
Ma c'è Netflix, c'è Prime, ci sono mille canali nella tv de Rocco.
Sì, ma per la prima volta in SEI ANNI a casa de Rocco da 10 minuti era saltata la connessione internet. Una roba talmente grave che credo abbiano risolto da poco, dopo un giorno.
In quel momento, ne sono sicuro, eravamo L'UNICA CASA in Italia senza nè rete nè cavi HD. Ormai decidiamo che salta tutto, vedremo le Tartarughe Ninja.
Poi colpo de genio de Rocco
"Ma la chiavetta no??? mettemo il film in chiavetta e l'attacco al televisore"
E' uno dei momenti più belli dei miei ultimi anni, esultamo.
Rocco va a prende la chiavetta.
La mette sul pc e trasferisce il film.
Ma, poi, dice 
"Non ce credo, non c'entra"
"Ma che cazzo dici, è UN film, come fa a non entracce? leva qualcosa no?"
"No no, è vota, ma non c'entra lo stesso"
Ormai è passata un'ora e 10.
Poi Rocco dice "Ho un'altra chiavetta! In macchina!"
Tutto diventa ancora più surreale.
Rocco esce de casa e torna co sta chiavetta.
La infila.
Tempo 20 secondi vedo che non parla, me giro verso di lui, vedo che ha gli occhi tra un misto de risata e disperazione
"Cazzo succede Rò??"
"Non c'entra manco su questa, è 0.500"
"Ma come cazzo fa una chiavetta a esse 0.500??? Ma chi cazzo la compra???"
"Io"

Niente, ormai il film è andato, siamo nervosi ma anche divertiti. Internet non va, non ci sono i cavi, la tecnologia non funziona, ogni tanto scostiamo le tende per vedere se fori sono atterrati.
Gli alieni dico.
Poi Rocco fa un deja vu incredibile, anzi, un deja sentù.
"Ho ancora un'altra chiavetta!!!"
Va in camera e torna, davvero, co n'altra chiavetta.
Ovviamente non abbiamo speranze ma ormai ce dà gusto avere ancora più elementi per ricordare sta serata.
Rocco la mette e dice:

"E' 5 giga cazzo! c'entra!!!"

Per un pelo poi, file è tipo 4.70.
Rocco comincia a scaricare il film.
In ogni caso tutti noi siam convinti che poi tanto la tv non leggerà la chiavetta.
Arriva il momento tanto atteso, Rocco infila la chiavetta.
Andamo sulle impostazioni, mettemo l'uscita e il film C'E' !!
Ormai siamo talmente tanto contenti che di qualsiasi livello sarà il film resterà una conquista incredibile.
Sì, ma poi appena il protagonista parla ce accorgemo che non ce sono i sottotitoli, che non li prende.
Io faccio per andar via, pronto a combattere gli alieni fori.
Poi Tommaso dice che c'è un'altra soluzione, nominare il file dei sub come quello del film.
Ce provamo.
Il film parte e ci sono i sottotitotoli.
Dopo un'ora e 35 potemo vedè un film che in qualsiasi altra casa avremmo già finito.
Poi del film ne parlerò.
Ma, alla fine, sticazzi del film


13.9.21

Festival del Cinema di Venezia 2021 - Giornate finali


Ed ecco l'ultimo, interessantissimo, pezzo da Venezia.
Un sacco di film (compreso il Leone d'oro, i D'innocenzo, il "mio" Plà e Mainetti), 3 voci a raccontarli (son rimasti solo i maschietti).
E anche per quest'anno, con grandissima fatica, ma ce l'abbiamo fatta :)


LORENZO BRINCI

L'EVENEMENT di Audrey Diwan



L’evenement, ambientato nella Francia del 1963, racconta di Anne (interpretata da una sorprendente Anamaria Vartolomei) una studentessa dal futuro radioso. Una gravidanza indesiderata mina la possibilità di concludere il percorso di studi con successo.
La ragazza non si sente ancora pronta per un passo così importante e rinunciare alla sua indipendenza col rischio di ritrovarsi ad odiare uno dei doni più belli che la vita può offrire,
così sceglie la via dell’aborto. Poiché all’epoca era una pratica illegale e comportava la condanna anche per i complici di quello che era considerato un vero e proprio crimine, viene ostacolata e ripudiata da amiche, medici e famiglia. Una società che sembra tanto distante nel tempo quanto vicina nelle dinamiche. Seppure l’aborto sia ormai legale, in Francia come in Italia, è inutile ignorare il bigottismo che aleggia nella società in cui viviamo e che colpisce anche i medici obiettori di coscienza. 
L’opera ha il pregio di coinvolgere lo spettatore, senza mai scadere nella retorica, anche grazie ad una regia che si serve di primi e primissimi piani e della camera a mano per le sequenze più concitate. Inoltre grazie al ritratto di figure maschili che ostacolano la protagonista o sono prive di empatia nei suoi confronti, riesce a provocare un forte senso di colpa nel pubblico maschile. Emerge chiaramente che una gravidanza indesiderata non riguarda esclusivamente la donna in attesa, ma anzi le persone che la circondano (ed in senso lato la società) hanno l’obbligo morale di comprenderla ed aiutarla a prendere la scelta che ritiene più opportuna in totale libertà.


AMERICA LATINA di Damiano e Fabio D'Innocenzo


Il protagonista di America Latina è Massimo Sisti (interpretato da uno strabiliante Elio Germano), il titolare di uno studio dentistico che porta il suo nome. 

All’apparenza la sua vita sembra perfetta: un lavoro di tutto rispetto, una grande villa e una famiglia che lo ama.

Ben presto, però, emergono tutte le sfumature di quella che capiamo essere una persona sensibile, fragile ed insicura. Nella quotidianità cerca di nascondere tutti quelli che nella società odierna sono considerati difetti ma, alla lunga, tenere a bada tutte le emozioni più insite può essere molto difficile. È evidente che Massimo sia vittima del ruolo che è costretto ad interpretare e che soffra le pressioni che ne derivano. 

I D’Innocenzo scandagliano in modo sottile l’anima fragile di un uomo comune, servendosi di simbolismi e metafore. I registi realizzano un’opera ambigua e surreale affidando allo spettatore l’importantissimo compito di riempire l’opera con la propria sensibilità. 

La messa in scena è sublime. La regia regala delle sequenze indimenticabili che culminano in un epilogo da pelle d’oca, riuscendo nel miracolo di risultare funzionale al racconto e al contempo estremamente ambiziosa. 

La fotografia di Paolo Carnera è talmente colorata e d’impatto da risultare surreale, dunque perfettamente in linea con il racconto. La scenografia di Roberto De Angelis ed i costumi di Massimo Cantini Parrini sono scelti e curati nei minimi dettagli. La tensione crescente alimenta un ritmo incalzante scandito dal respiro del protagonista (che si fa man mano più affannoso), dalla colonna sonora (realizzata dai Verdena) e dal montaggio di Walter Fasano decisivo nei momenti topici. Le interpretazioni sono tutte molto riuscite, si percepisce che le attrici e gli attori abbiano dovuto scavare nei propri meandri più nascosti per raggiungere questo livello. Impossibile non soffermarsi su Elio Germano che riesce a trasmettere l’ampissima gamma di emozioni e sfumature del suo personaggio. 

Insomma, se tutto funziona così bene ed i reparti eccellono in questo modo vuol dire che i direttori d’orchestra dietro la macchina da presa, comunemente noti come registi, sono grandi.

Questo è un’opera libera, che sorvola e trascende gli schemi dei generi per superarli. Ciò non denota mancata conoscenza delle regole, ma al contrario grande consapevolezza e padronanza del mezzo.

Un’esperienza unica, che come tale va vissuta.  La visione in sala è imprescindibile.

Astenetevi dal giudizio estemporaneo e lasciate crescere il film dentro di voi, perché vi assicuro che non termina con i titoli di coda.


TOMMASO FERRERO

KAPITAN VOLKONOGOV BEZHAL (CAPTAIN VOLKONOGOV ESCAPED) di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov (Russia)


1984, A Christmas Carol e l’umorismo serio di Konchalovskij in un solo grande e assurdo film. In una versione altamente estetizzata e leggermente fantastica della Russia sovietica prende piede un lungo inseguimento. Il capitano Volkonogov, addetto ai trattamenti speciali per ottenere le confessioni dai sospettati di tradimento contro la patria, ha un’epifania. Quello che sta facendo è solo un atto coatto di tortura in nome di un ordine pubblico mantenuto con il terrore. E allora la questione è semplice: decide di scappare. Ma la sua fuga si trasforma ben presto in altro. Dovrà farsi perdonare dalle famiglie dei condannati se vorrà andare in paradiso. 

Ogni anno al festival si presenta un bel film russo. Fra quelli che ho visto, questo è sicuramente il più bello. Senza alcuna paura si mostra il lato violento del potere, ma anche il suo lato attrattivo e più ammaliante, in un percorso alla di ricerca del perdono di chi non avrebbe motivo alcuno di perdonare. Ne nasce un bellissimo sistema di tipi umani, con cui il capitano dovrà scontrarsi per ottenere un perdono che sente di non meritare. Un film orchestrato magistralmente, con due o tre scene di un livello cinematografico altissimo che lo potrebbero elevare a livello di cult. Il film non ha cali di rimo e, anzi, scorre che è una meraviglia.

Spero in una distribuzione in sala, sarebbe un film che rivedrei volentieri per poterne assaporare nuovamente il senso elegiaco e il profumo colorato che viene dato alla città sovietica, che diviene un organismo vivo, pulsante che assume nuove connotazioni mano a mano che conosciamo i suoi abitanti. Già dalla prima scena si può leggere una grande critica al potere, mentre i funzionari statali in divisa giocano a pallavolo in una stanza barocca, sfiorando e colpendo più volte un bellissimo lampadario in cristallo. Un lavoro accuratissimo a partire dai costumi e dalla scenografia, che reinventano l’immaginario della Russia sovietica, potenziandone, anche con una sceneggiatura e una regia di gran livello, le dicotomie e le grandi ombre.


FREAKS OUT di Gabriele Mainetti (Italia)


Finalmente. Io dico finalmente perché Freaks Out è un miracolo italiano, è un nuovo tassello per l’industria cinematografica nazionale, è un messaggio a produttori, autori e al mondo che anche noi possiamo fare qualcosa di bello, nostro ma con un respiro internazionale. Un film che possa andare in sala e muoversi insieme agli interpreti internazionali, ai loro effetti speciali. Che in sala possa richiamare i giovani e dimostrare che il cinema non è morto e resta a galla solo grazie ai film della Marvel. Freaks Out è un film semplice, la trama ha anche qualche buco ma, dopotutto, chissene frega. 

Un gruppo di fenomeni da baraccone si muove per la Roma dei primi anni ‘40, dove la guerra imperversa e i rastrellamenti nazisti stanno seminando il terrore nelle comunità ebree e nei quartieri popolari. I nostri vogliono scappare in America, ma proprio il loro capo Israel, un mago eclettico ma protettivo nei confronti dei suoi amici, viene preso e messo su un treno per la Germania. Il gruppo si divide fra chi vuole salvare Israel e fra chi vuole raggiungere il circo tedesco stanziato al centro di Roma, così da trovare una nuova casa. Non sanno che però il proprietario di tale circo li sta cercando per aiutare il Reich a vincere la guerra… 

Freaks Out è bello da vedere. Come il precedente di Mainetti è una rilettura italiana di un film di supereroi, ma ha un respiro unico, profondo, i personaggi sono intelligenti e ben calibrati. Io credo che questo film batta in bellezza e intelligenza almeno la metà dei film della casa americana dei supereroi, creando un nuovo standard italiano di film. Scenografie di ottima maestranza, costumi e iconografie da cinema pop, ma con una bellissima rilettura da favola dei partigiani, che mi ricordano una versione mista fra Miyazaki e Calvino. Non viene meno, comunque,  la presenza di una guerra crudele e violenta e una rappresentazione comunque reale di uno dei periodi più bui della storia umana. Resta il fatto che ci siano grandi interpreti (il gestore del circo è veramente spaziale), bellissime scelte registiche e una colonna sonora di grandissima qualità. Il film crea un universo tutto suo, in cui perdersi è un piacere. Non mancano difetti, e sicuramente chi si aspetta un film profondo e di grande riflessione resterà deluso. Questo è un blockbuster, ma che blockbuster.

Il film va visto, va supportato, va dimostrato che l’investimento incredibile portato in sala da dei produttori italiani può essere ripagato. Io mi sono commosso nel capire che effettivamente si può fare qualcosa del genere nel nostro paese, dove l’industria cinematografica relega la sala solo ai film d’autore di alcuni eletti o a pellicole internazionali. Qui c’è una favola partigiana, un film di supereroi, un film per il pubblico, ma un film nostro, un grande atto d’amore per il cinema. Andate a vederlo. Parlatene. E’ giusto che il coraggio venga ricompensato. 


PILGRIMAI (PILGRIMS) di Laurynas Bareisa (Lituania)


La mia recensione sarà falsata purtroppo, avendo io dormito per i primi 40 minuti di film a spizzichi e bocconi. C’è da dire che l’inizio non favorisce la visione, essendo un film dai ritmi inesistenti. Un ragazzo viaggia con l’ex di suo fratello per visitare in pellegrinaggio i luoghi chiavi del rapimento e poi dell’omicidio del suddetto fratello. E’ un viaggio lento e sentito, in cui i due riscoprono gli ultimi tragici momenti del loro amato.

12.9.21

Festival del Cinema di Venezia 2021 - Giornate 8 - 9 settembre

 

Secondo appuntamento con Venezia,
Salutiamo Alex e Lorenzo (Tommaso tornerà invece domani) e diamo il benvenuto ad Enrico e Francesca (trovo che sia bello vedere 5 stili diversi, ad esempio i due ragazzi di oggi amano scrivere di più, hanno il mio difetto).
Vi lascio a loro, ci sono un sacco di film! (e corti)

ENRICO GASPARI


EVA di Rossella inglese + ELES TRANSPORTAN A MORTE di Helena Giròn, Samuel M. Delgado




L’anno scorso, esordendo in questo spazio sulla Biennale di Venezia, ricordo che parlai di Honey Cigar e la sua ossessione col sesso, e chiusi il cerchio concludendo con Saint-Narcisse che più o meno aveva lo stesso problema, anche se ne derivavano soluzioni molto più ironiche e addirittura geniali a tratti. Ancora una volta, quasi per caso e un anno dopo, mi siedo in una sala per la Settimana della Critica. La prima inquadratura di Eva, mediometraggio italiano, ironicamente, di Rossella Inglese, è un nudo posteriore maschile. La seconda inquadratura è un nudo femminile frontale a distanza. Ormai comincio a credere che se non gli butti in mezzo queste cose nelle selezioni manco ti fanno entrare
.

Ok, partenza a confronto un po’ ingiusta, ma mi sembrava divertente questa piccola sciocchezza, che poi tanto piccola non è vista l’attitudine di molta critica a preferire la provocazione alla capacità, specie se quella capacità si esprime nel genere, nell’horror o nell’animazione. Per fortuna Eva è un mediometraggio capace, e la sua scena iniziale solo un rimando biblico, che ci presenta un uomo e una donna prima del tempo, svestiti, animali. Taglio netto al presente (mi piace che basti una mascherina e zero discorsi per far capire benissimo quale presente): una ragazza, Eva, e un ragazzo senza nome (immagino Adamo), conosciutisi online, vanno in montagna in cerca di un posto dove consumare. Tutta qui la trama dei seguenti venti minuti, che però bastano a delineare due ritratti di un uomo e una donna, non per forza così complessi o interessanti, ma semplicemente in cerca di un’intimità. Mi è piaciuto molto l’aspetto visivo del film, nevoso e fangoso allo stesso tempo, che allontana e avvicina allo stesso tempo qualsiasi idea di purezza, mi è piaciuto l’aspetto della loro “capanna” isolata dove ha luogo l’intercorso (sulla cui soglia stanno tipo cinque minuti con la stufa accesa e la porta aperta, abbastanza improbabile). E anche se non è perfettamente recitato, più che altro da lei, il mediometraggio vanta l’assenza di un tentativo di rendere simpatici questi personaggi. Coraggiosamente vengono presentati solo un maschio e una femmina con i loro lati grezzi, e ciò basta e avanza.

 

(Guardate che capolavoro di poster)

Immediatamente dopo Eva, proiezione di They carry death. Non sapevo bene cosa aspettarmi da questo film, per me sconosciuto quasi in tutto, cast, registi, la provenienza spagnola, che si è rivelato forse la cosa più bella che potresti trovare ad un Festival: quel film che non conosci, che non avresti mai guardato, ma che siccome sei ad una mostra di cinema internazionale lo vedi e ti sorprende più di quanto avessi potuto sperare. Ambientato all’alba delle esplorazioni iberiche delle Indie, il film intreccia, più spiritualmente che meccanicamente, due storie.

Vorrei fermarmi qui e dire semplicemente che è abbastanza perché il film venga visto, così che la visione diventi una pura esperienza come è stata per me. Per soddisfare di più il curioso però, si può dire che nella prima parte seguiamo tre uomini in fuga, un po’ come in Fratello dove sei? dei fratelli Coen. Sono arrivati su un’isola misteriosa, in una grandiosa scena iniziale tra i flutti che sembra l’esito di un disastroso naufragio, con corde, corpi umani, misteriosi sacchi e una vela crociata tra le onde. Comincia una vicenda dal taglio autoriale ma con la struttura del film d’avventura, con questi personaggi braccati da uomini sbarcati dopo di loro, da tre caravelle. La ricerca di una via di fuga, le vicende interne di questo trio, l’inseguimento si piega al clima e ai ritmi estremi di questa isola, dando origine a concerti di suoni e immagini da pelle d’oca (persino la colonna sonora assolutamente immersiva, quando c’è, è più rumore che orchestrazione). La vista dall’alto, con quelle fiaccole che sembrano fuochi fatui con coscienza propria, il mare di pipistrelli, la vela lanciata dalla lingua di roccia, gli scogli schiumanti dell’inizio; ma soprattutto la sequenza dopo che il fuoco è stato spento, per non farsi trovare. Qualcosa di veramente maestoso, l’arrivo di quel buio che è vero e tangibile, non il buio da film con l’elegante penombra, i rumori lontani che sembrano evocati da qualche dimenticata divinità, quella voce che dice “Fuoco… fuoco” e il volto che ce lo fa vedere, soffiando su un cerino dove la fiamma vive ancora. Infine arriva un altro fuoco, mille volte più luminoso, mille volte più antico.

Poi il film sterza improvvisamente, non siamo più in mezzo ai mari. Avevo onestamente paura che in quel punto il film si sarebbe perso, cominciando una nuova storia senza riuscire a replicare ciò che di viscerale e interessante c’era prima. Invece il film, seppure venga a mancare l’urgenza e la disperazione precedente, compensa pienamente con un’atmosfera fredda e ostile, ben adatta alla vita di attesa ed isolamento di alcune donne (sempre lo stesso numero e di età parallele ai maschi, una giovane, una matura e una vecchia). Il ritmo è ancora più dilatato; le vite, sempre scandite dal buio e la luce, transitati da quella luna dietro la nuvola, che fa da tramite tra i due mondi delle storie raccontate. La natura rimane padrona, sempre filmata in una maniera stupenda nei selvaggi interni delle Canarie e della Galizia. Ormai si sarà capito che questo non è un film particolarmente impegnato nella storia o nei dialoghi, davvero ridotti all’osso. È un’opera-esperienza, che va vissuta come l’ho vissuta io, sentendo sulla pelle il caldo delle assolate terre spagnole, ma soprattutto, forse anche complice una bassa temperatura della sala, il freddo e i brividi che scuotono i personaggi. In particolare nella seconda parte, quella che ci regala uno smarrimento notturno in mezzo ad un’arida ma impenetrabile boscaglia, nonché l’immagine più bella, il ciuco che bruca in primo piano con la casetta di legno spazzata dal piovischio sullo sfondo, praticamente un quadro fiammingo. C’è un accenno, verso il finale, a voler dire di più, creando un inaspettato “what if” in un film storicamente tutto sommato lineare. Funziona molto bene, specie perché dà una doppia giustificazione a quel titolo: Loro Portano Morte può essere riferito al bagaglio faticosamente portato in giro dai personaggi, nell’inseguimento sull’isola, o in maniera più generale alla conseguenza dei viaggi spagnoli nel Nuovo Mondo e non solo, portatori di sterminio con armi e malattie. Funziona molto meno il tentativo di fare un serio parallelismo tra le esplorazioni e la crescente pressione dell’Inquisizione nel ‘500, quantomeno opinabile.

In effetti la pellicola non è perfetta: per dire, ci sono almeno tre sequenze composte quasi interamente da filmati di repertorio, inseriti in maniera paraculissima. Ma non si può passare sopra agli sforzi di un cinema povero, forse poverissimo (e con un’estetica meglio di quella di quasi tutto il cinema coi soldi), fatti per concertare il tutto in fase di montaggio: la sequenza delle navi mi è balzata all’occhio solo alla fine, e si merita solo applausi la sequenza dell’eruzione, mozzafiato, preparata in maniera certosina e amalgamata al resto con mezzi zero, proprio “alla Mario Bava”, un po’ di fumo, luci, e volti di attori bravissimi. Per quel che mi riguarda, il cinema spagnolo si conferma ormai accanto a quello coreano come uno dei migliori al mondo, ed Eles transportan a morte come una di quelle rare esperienze, possibili solo a Venezia, che non dimenticherò mai.


 

MONA LISA AND THE BLOOD MOON di Ana Lily Amirpour (USA)


Come ogni anno, i giudizi lasciano il tempo che trovano, specie per chi si propone di vivere il Festival per una sola settimana. Sette giorni dove i piani vanno all’aria, gli imprevisti sono costanti (e perché no, cercati), tra ritardi, lotte per i posti e sorprese in sala. Ma i giudizi si faranno, anche perché estremamente divertenti da dare, e quindi se dovessi scegliere un film per portarsi a casa il Leone, questo sarebbe Mona Lisa and the blood moon.

Altro film dove la luna, ovviamente rosso sangue, è tramite essenziale di qualcosa, tanto che la durata di tutto ciò a cui si assiste è proprio di un ciclo lunare: il nostro pallido satellite sarà l’unica spiegazione al perché M. Lee, ragazza coreana chiusa in un istituto psichiatrico negli USA, comincia a manifestare poteri sulla mente e il corpo degli altri, come fossero bambole voodoo mosse a suo piacimento. Lei, la nostra Jeon Seo Jong, col suo criptico volto da Monna Lisa davinciana, scappa nel mondo che non ha mai visto. Questa è la premessa di un film assurdo, una grandissima sorpresa non avendo mai visto nulla di Ana Lily Amirpour, la regista iraniana di A girl walks home alone at night. È assurdo il cast, con una protagonista coreana, un ragazzino, sua madre Kate Hudson, il poliziotto che cerca Mona ovvero la rappresentazione vivente del cinema americano che odio, Cliff Robertson (qui è bravissimo). Una miriade poi di piccoli e grandi personaggi, abitanti di un’altra assurdità, tutto quel che dalle paludi (immortalate nella prima, bellissima immagine che fa molto Wild Things) e le rive del Mississippi va fino a New Orleans, un po’ indigeno e un po’ africano, un po’ profondo Sud e infin un tocco di francese. Lì può succedere di tutto, è “fucking New Orleans man”, ma sotto quella luna ci sono sempre i degradati, i miserabili. Gli scarti, i pazzi. Questo film è il loro canto, orgoglioso, che racconta di una vita ai margini ma mai sconfitta, ridotta a piangere su sé stessa. Vita passata in notti insonni rotte solo dai neon e dalla musica, la seconda protagonista qui, onnipresente eppure senza stancare.

In mezzo a tutta questa assurdità, c’è tempo anche per non perdersi i sentimenti, i momenti silenziosi, l’umorismo (la maglietta di Fuzz è una gag ricorrente che attraversa tutto il film come un filo, sicuramente la mia preferita). In fondo questo non è un videoclip modaiolo e un po’ alternativo, ma una storia quasi anni ’80 di amicizia tra un bambino adulto per forza e una bambina nel corpo di una ragazza psicocinetica. Il loro tentativo di fuga verso una nuova vita porta ad un atto finale meraviglioso e anche parecchio teso, di quelli che te ne stai aggrappato alla poltrona e non vedi l’ora di scoprire cosa succederà. Non voglio fare spoiler, dico solo questo: non ho mai visto un decollo aereo, con il suo rollio, il vuoto di quando le ruote si staccano dall’asfalto, il sollievo dopo la partenza, così bello da quando vado al cinema. L’aereo ora vola, nel cielo dalla luna rosso sangue. “Ci vediamo nel sequel”. Magari Fuzz, ma magari.


OLD HENRY di Potsy Ponciroli



Potrà non sembrare, data la mia propensione a criticare gli Stati Uniti, ma il western è uno dei miei generi cinematografici preferiti. Non c’è una forma d’arte che abbia rappresentato meglio quel paese senza Storia del cinema western (a cui si sono spesso accodati televisione e letteratura più o meno elevata), e nessuna con un’origine così unica: da The Great Train Robbery, il celeberrimo film muto, l’America non ha mai smesso di creare e raccontare i miti della frontiera. Perché quel paese è tutto lì, in quella parola, frontiera, non esisteva senza e non ha smesso di esistere nemmeno oggi, che le frontiere sono altrove: Siria, Iran (per un breve momento incrociata, in Mona Lisa and the blood moon), fino a pochissimo tempo fa anche in Afghanistan. Il canovaccio western non ha mai smesso di rappresentarlo e per quanto gli anni passino è sempre tornato in nuove vesti, ammodernandosi in base alle nuove frontiere, il Vietnam, il mondo arabo, fino ad oggi, dove il confine sembra tornato nuovamente negli States. Ma non è più la costa occidentale da raggiungere smaniosamente, o su in Canada le montagne del Klondike, dove impazzava la febbre dell’oro. È dentro le persone, nei loro cavalli che sono pick-up, nei loro saloon che sono diner, nel profondo Sud che è ancora isolato e selvaggio come 100 o 200 anni fa. Non credo sia un caso che i due western presentati alla Mostra di Venezia (quello della Campion purtroppo non visto) siano entrambi ambientati nel primo XX secolo, quando le memorie del precedente decantavano in un’epica da rimuginare fino ad oggi.

Arriviamo finalmente ad Old Henry, un esponente del genere che più classico non si può: gli stilemi ci sono tutti, sceriffi e fuorilegge, leggende viventi e i loro revolver tuonanti, cavalcate e onnipresenti sedie sui portici. Anche la trama è quella di un uomo qualunque, un vedovo dal passato di ammazzasette, che trova un mucchio di soldi portatori di nient’altro che guai. Quindi sì, suona un po’ un misto tra la storia di Non è un paese per vecchi (con tanto di voce fuori campo iniziale, di un vecchio uomo ormai stanco su un montaggio paesaggistico) e i personaggi crepuscolari de Gli Spietati. E saranno i modelli illustri, ma Old Henry è davvero un buon film, che comprende chiaramente il genere di cui fa parte e non prova ad essere nient’altro. Forse per alcuni questo potrebbe essere un limite, se ci si aspetta che un neo western debba innovare a tutti i costi, creando un fossato tra esso e il passato cinematografico: Old Henry se ne infischia, e anzi riprende la tradizione di uno dei classici per antonomasia, Sentieri Selvaggi, raccontando la necessaria messa da parte di una generazione selvaggia e violenta come la frontiera che hanno contribuito a scoprire, per lasciare spazio alla prossima, giovane e possibilmente più civilizzata. Il figlio di Henry, Wyatt, che conosce suo padre solo nella veste di rude contadino, incarna questo conflitto. A dir la verità è uno scontro padre e figlio che lascia un tantino a desiderare, riciclo continuo della stessa conversazione: lui dice che vuole fare qualcosa, il vecchio Henry lo zittisce. Ad essere sinceri c’è una scena nel finale scritta in modo veramente emozionante, ma perlopiù salvano questo rapporto gli attori, il giovane Gavin Lewis che evita una potenziale performance fastidiosa e piagnucolosa, ma soprattutto l’immenso Tim Blake Nelson con la sua faccia di pietra e l’occhio mezzo guercio. Non posso assolutamente sottolineare abbastanza quanto sono contento di vedere un grande attore come lui finalmente protagonista assoluto e con in mano un gran personaggio da valorizzare. Senza contare che, per entrare un attimo nei tecnicismi, Tim Blake Nelson spacca una notevole quantità di culi qui, a pistolettate, calci e mani nude, e scusate se è poco. Tra gli altri del cast, tutti molto bravi, spicca il volto veramente irriconoscibile di Stephen Dorff, nel ruolo del cattivo Sam Ketchum. Ho dovuto leggere il suo nome sui titoli di coda e poi controllare due volte per esserne sicuro: la sua faccia era inscindibile da quell’eterno aspetto da ragazzino che aveva in Blade (anni ’90), e poi praticamente uguale in Somewhere, più di dieci anni dopo. Ora un’altra decade è passata, e fa uno strano effetto vedere gli anni su di lui, con quella barba brizzolata e la gravitas di un uomo maturo. Altro grande personaggio tra l’altro, crudele ma non certo invincibile, e quasi più sviluppato nell’eloquio che nel tiro al bersaglio. Da notare la credo voluta mancanza di donne: l’unica che viene menzionata (nemmeno vista), la madre di Wyatt, è morta, e siccome viene fatto un chiaro punto sull’inesistenza di redenzione, potremmo vedere nel sesso femminile lo stilema di salvezza (o almeno di “conforto”: elegante uso della lingua d’allora, era dai tempi di Ian Fleming che non sentivo la parola “solace”), cercata ma introvabile tra quei brulli campi dell’Oklahoma nel 1906.

È proprio in generale una gioia godersi un film così, ammirevole soprattutto per la competenza delle persone che l’hanno fatto, davanti e dietro la macchina da presa. Assistiamo ad un montaggio chiarissimo e impeccabile, una fotografia buona di giorno ma davvero spettacolare in notturna, specie in quei flashback tinti di rosso. Non so bene come sentirmi sul significato che viene loro dato, alla luce di un colpo di scena sul finale, ma di nuovo, questo è un palese omaggio ai vecchi miti, nonché una storia sulla figura paterna (non necessariamente di sangue) e il gap anagrafico con le figure filiali. Molto potrebbe essere detto, sulla vita passata del contadino di Tim, ma ormai non è più uno di quei cowboys, “rootin tootin and shootin”. Lui ora è solo Old Henry, e sono contento ce l’abbiano raccontato.


PILIGRIMAI di Laurynas Bareiša


Oh, finalmente, se posso permettermi, finalmente una bella stroncatura. Cominciavo effettivamente a sentirmi meno ispirato a cantare i pregi di un film dopo l’altro, ed è arrivato in mio soccorso il lituano Pellegrini. Non arriverei al punto di dire che è “una totale presa per il culo” come commentato da un ragazzone due file più avanti, ma è certamente una delusione, estremamente frustrante per quanto riguarda le sue potenzialità e soprattutto maledettamente noioso. La storia, come detto, avrebbe tutte le carte in regola: un uomo e una donna, Paulius e Indre, che hanno interrotto i rapporti da quattro anni, si ritrovano e vanno da Vilnius a Kaunas, dove è stato ucciso il fratello di lui e l’amante di lei, ripercorrendo il tormentato cammino che ha portato alla sua morte. Ora, se questa non è un’idea potente. Ci sono enormi potenzialità drammatiche, ma anche l’opportunità di fare cinema fastidioso e teso alla Festen o Niente da nascondere, specie considerate le possibili reazioni di chi vive in loco e non ha nessuna voglia di rivangare la faccenda. E dallo stile sembrerebbe proprio puntare a Haneke, peccato che il film non abbia la minima idea di come comunicare disagio o rabbia se non con una pletora di inquadrature statiche/carrellate che vanno avanti per minuti e minuti. Cosa che ovviamente scoppia in mano a chi non le sa montare con ritmo (sì, perché anche un film lento deve avere ritmo), e castra ogni possibilità di sentire qualcosa per questi personaggi. Per dire, c’è una scena dove i due, in una mattina nebbiosa, vanno fino alla diga dove è stato violentato e ucciso il loro caro. Indre, e tra i pregi di questo film annoto che l’attrice assomiglia parecchio a Naomi Watts, scende nel canale di scolo sotto questo ponte, e si immerge nell’acqua a pensare a lui. Ecco, questo sarebbe un momento con grande valenza simbolica (soprattutto religiosa, ci arrivo subito), ma soprattutto sarebbe stato un momento dannatamente emozionante se ci avessero dato un primo piano o uno zoom. Invece no, teniamo tutto uguale perché dobbiamo fare gli Haneke dei poveri. Non aiuta che questi personaggi, in particolare Paulius, siano tremendamente fastidiosi. Detesto quando nei film usano questa scusa di far subire una grande ingiustizia ad un personaggio per giustificare tutte le cose stupide o meschine che fa: un anno fa, in Pieces of a Woman, di certo il personaggio di Vanessa Kirby non veniva presentato come positivo solo per via del trauma famigliare subito (evidentemente però questa cosa piace a molti, guardate a chi hanno dato il Leone l’anno prima ancora). Potrei capire se il film suggerisse un malinteso tra gli abitanti, che pensano che i due vogliano vendicarsi senza motivo (l’omicida è stato condannato con le loro testimonianze e ha preso l’ergastolo), e il vero motivo di quel viaggio, un pellegrinaggio spirituale per ricordare il defunto. (Ciò creerebbe tensione, appena intravista in una scena notturna in macchina, mentre Paulius è in carcere e temi che qualcuno degli abitanti potrebbe voler attirare Indre per farle del male. Ovviamente la cosa si conclude senza che accada nulla di rilevante.) Ci potrebbe stare, di nuovo, i simboli ci sono, come l’attraversamento di un fiume che è una costante, in ogni cultura, di cambiamento. D’altronde i pellegrini questo fanno: cambiano in viaggio. I nostri due, odiosi pellegrini, non mi pare che imparino qualcosa, visto che nel finale si ristabilisce esattamente lo status quo dell’inizio. Quindi sì, per me è bocciato in blocco, stile e scrittura assieme. Almeno scrivendone mi è tornata voglia di rileggere I racconti di Canterbury: non tutto il male vien per nuocere.


FRANCESCA MUNARIN


PLASTIC SEMIOTIC di Radu Jude
Nei 22 minuti di cortometraggio si distende, elastica, la vita umana. Protagonisti delle immagini gli altrettanto plastici giocattoli, che ci accompagnano, fatiscenti, oltre la soglia dell’innocenza.
Attraverso infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia il regista tenta di plasmare in fotogrammi l’essenza della vita.
Il film è un susseguirsi affannato di diapositive o brevi filmati in cui barbie, lego, bambolotti, soldatini (e chi più ne ha più ne metta) impersonano avvenimenti cardine della quotidianità. La messa in scena è intellettualmente e visivamente brillante, e riesce nell’intento di manifesto della stupidità (intesa come balordaggine fanciullesca) con svergognata ironia.
Jude corre il rischio che in alcuni punti la densità di immagini disorienti lo spettatore, ma probabilmente confusione e perdita di sé rientrano nelle sensazioni che intende stimolare. Nel corto si gioca anche con gli opposti: innocenza - malizia, pulito - sporco, guerra - pace, giocattoli piccoli su schermo cinematografico, ma soprattutto si ride; io ho riso di gusto più volte, sotto la mascherina, per l’accostamento dei personaggi (la nonnina immortalata in un rapporto sessuale con peter pan mi dispiace non poterla mettere come immagine della recensione perché non la trovo) o per le citazioni alla culla di “La Corazzata Potëmkin” e alla doccia di “Psyco”.
Viene voglia di rivederli questi venti minuti, per ritrovare e perdere ludicamente il nostro candore ad ogni visione.



DJANGO & DJANGO di Luca Rea



Il Documentario di Luca Rea e Steve della Casa sul regista Sergio Corbucci guarda con occhi diversi al cinema western Italiano, alla sua eredità e al tema dell’eterno secondo.
Si racconta “l’altro Sergio”, maestro degli spaghetti western, tramite le testimonianze e le considerazioni di Quentin Tarantino (ispiratosi dichiaratamente a Corbucci in più pellicole), Franco Nero (attore feticcio di Corbucci) e Ruggero Deodato (aiuto regista di Corbucci in Django).
L’omaggio al regista italiano è intriso d’affetto nostalgico e di spunti intellettuali non indifferenti, al punto da valicare il pregiudizio con cui talvolta ci si affaccia al vecchio West.
Più che un commento formale, il quale non mi compete in alcun modo, ancor meno trattandosi di un documentario, ci tengo a sottolineare alcuni snodi contenutistici che mi hanno colpita e sui quali non così spesso siamo portati a riflettere.
Innanzitutto l’ordine di grandezza della passione con cui Tarantino parla e con cui senza dubbio svolge il suo lavoro. L’amore del regista per un certo tipo di cinema italiano violento e crudele non era certo sconosciuto, si vedano gli stessi Leone e Corbucci, ma anche un poliedrico Lucio Fulci. Il punto è che l’enfasi con cui racconta il suo rapporto con gli autori italiani e la verve con cui sradica quello che per lui è il significato più proprio del film coi quali di volta in volta si interfaccia, sono galvanizzanti, tanto da portarmi a pensare per un momento: “forse un vero genio non pensa cose oggettivamente geniali, le inchioda solamente al muro con entusiasmo tale da convincerci tutti che lo siano”.
La seconda cosa su cui puntare un riflettore è il filtro politico applicato da Tarantino ai film di Corbucci in forza della biografia di quest’ultimo (padre fascista e lui bimbo del coro all’incontro Mussolini-Hitler): western come bandiere di denuncia politica. Questo è un assist considerevole per chi fatica ad accostare il suo gusto ad alcuni generi, nel mio caso ad esempio gli horror (ora forse miei preferiti), in modo da “smagarli”, svelarli, e cogliere dietro una pugnalata la violenza di un’epoca. “L’altro Sergio”, o almeno il ritratto che se ne evince dai filmati, era un autore scaltro e irriverente, diceva quel che voleva e come voleva, ironico e sadico, riverso nel polveroso West.
Altro punto focale per me all’interno del documentario è la tenerezza con cui il lugubre Franco Nero e il fedele Ruggero Deodato ricordano l’amico regista. È sempre affascinante notare come dietro opere arte-fatte e sottoposte al pubblico in maniera dislocata e asincrona rispetto alla loro origine, ci siano esseri umani. Non si tratta di realizzare che è fatto dall’uomo e non dall’uomo investito da un potere divino, ma di sorridere pensando che quegli uomini del loro lavoro ricordano con amore le stesse cose che noi ricorderemmo del nostro, o verso i nostri affetti.
Franco Nero Racconta di essere andato al cinema e di aver visto un film con un attore americano perfetto per il ruolo del messicano nell’allora imminente pellicola di Corbucci e di avergli detto: “vai a vedere questo film, c’è l’attore perfetto”, Sergio andò e lo prese nel cast, d’accordo con lo spunto di Nero. Mentre Deodato riporta una frase di Corbucci: “Ruggero io non vincerò mai un Oscar, ma ho vinto l’Oscar del pubblico”, sottolineando la capacità dell’amico di arrivare ai più e di tentare, di avventurarsi nel suo cinema, con grande coraggio.
Sono coaguli di vita che, come sottolinea Tarantino verso la fine, non possono in alcun modo rendere l’etichetta di “eterno secondo” un qualcosa di negativo.
Avendo desiderato per l’intera proiezione di aver visto i film che venivano citati e di cui, per età e ignoranza, non sapevo quasi nulla, allego la lista delle opere di Corbucci trattate se qualcuno volesse vederli prima del documentario: Django, Il grande silenzio, Gli specialisti, Il mercenario, Vamos a matar compañeros, Cosa c’entriamo noi con la rivoluzione. Quest’ultimo con Villaggio e Gassman da recuperare quanto prima.


Tou sheng, ji dan, zou ye ben - Mulaqat - Heltzear - cortometraggi 


I tre cortometraggi li ho visti uno di seguito all’altro, il primo mi è piaciuto gli altri due forse un po’ meno, ma mi sentirei comunque di consigliarne la visione. Cina, Pakistan e Spagna, una bambina e due ragazze sono protagoniste di episodi di vita quotidiana immerse ognuna nella propria cultura. Intendo parlare delle tre opere in un unico testo per due motivi: non conosco sufficientemente le condizioni culturali dei paesi di cui si narra (in particolare Cina e Pakistan), non sono riuscita a pensare ad altro che alla considerazione che tenterò di esporre nelle prossime righe.
Nelle prime due opere mi aveva colpito la presenza di indumenti, del bucato, dei panni stesi cui si avvicinano le protagoniste, nel terzo abbiamo un elemento leggermente diverso ma che comunque ho ricollegato alla stessa sfera semantica, lo spogliatoio. Lungi da me lo sterile lamento femminista che soffoca sul nascere chi lo pronuncia mal interpretando queste proiezioni, credo ci sia una domanda che le immagini correlate alle lenzuola, al velo, allo spogliarsi e allo stendere portano a galla, e che non possiamo ignorare, nessuno di noi, non c’è dicotomia uomo-donna per questo dilemma.
Sono costretta a fare dei brevi riferimenti.
La bimba cinese, la cui madre subisce violenze dal padre, la aiuta a stendere le lenzuola e la madre le dice: “questa non è una cosa che devi fare tu, vai a studiare”. Le stesse lenzuola che dovrebbero proteggere, sotto cui ognuno di noi ha sempre messo entrambi i piedi per non essere rapito da sataniche ombre, si fanno emblema di un candore incenerito in un cortometraggio in cui la violenza finale recide persino qualsiasi debole interpretazione di deriva etica. Non c’è spazio per i moralismi nel film di Luo Runxiao, non è una storia di facciata sociale versus mura domestiche, è solo una storia in cui la violenza è protagonista, taglia e mette a nudo.
La ragazza pakistana, Zara, è inquadrata mentre stende i panni lavati, che sono per la maggior parte veli, prenderà la sua decisione finale durante una tempesta di sabbia, sporca e dispersiva, anche qui polvere e candore si affiancano, forse in modo diverso però.
La terza ragazza, Sara, che arrampica divinamente in un corto fisico e verticale, affronta le consuetudini della sua adolescenza nello spogliatoio dove sveste per un momento i panni della dedita sportiva, parlando con un ragazzo, che come dice lei “le fa il filo”, lì dove ci si scopre.
Allora io mi sono chiesta: che panni devono vestire queste donne? Che cosa si deve indossare nella vita di tutti i giorni? La domanda non riguarda i vestiti, in senso metaforico mi chiedo, quale deve essere l’habitus. Chi concia le pelli? Come si deve truccare, che trucco deve usare, una donna per non andare né nella direzione di una virilizzazione del genere, né in quella di una concessione da parte dell’altare maschile d’una parvenza di parità? O meglio: dobbiamo tutti capire cosa indossare? Tutti gli otto miliardi? O basta che quattro prendano iniziativa?
Io non so rispondere a questa domanda, ma secondo me è davvero importante porsela, per tutti. A mio parere non è un problema da risolvere è un problema da porsi, e pochi se lo pongono troppi provano a risolverlo.
Lars Von Trier racconta che il bucato delle prostitute non si asciuga mai, è sempre umido. Sarebbe interessante non provare a portare indietro il sole dal tramonto, ma mettere i panni ad asciugare da un’altra parte, spostandoli assieme.

11.9.21

Recensione: "First Reformed" - Rocco's House - 1 - Su Netflix

 

La storia di un giovane prete malato che scrive le sue (ultime?) memorie.
Ma l'avere a che fare con una terribile vicenda di suicidio lo porterà a mettere in crisi tutte le sue convinzioni, o quantomeno a "spostare" la sua battaglia spirituale in terreni molto più concreti.
Dopo The Card Counter vedo un altro film di Schrader (e inizio una nuova rubrica su film visti a casa de Rocco) e ancora una volta trovo un'opera gonfia di dialoghi (a tratti bellissimi, altri meno), visivamente piena di momenti grandiosi, con riflessioni interessantissime, "impegnata" socialmente e con un protagonista, in qualche modo, in cerca di una risposta o di una salvezza.
Con un finale tronco meraviglioso

E' davvero tanto tanto interessante vedere in soli 3 giorni 2 film dello stesso regista, specie se è un regista di cui, fino a quel momento, non avevi praticamente visto nulla.
Ed è così che dopo il bel Il Collezionista di Carte mi vedo (anzi, ci vediamo, stesso compagno della sala) l'ancor più bello First Reformed, sempre di Schrader.
E' tanto interessante la cosa perchè vedendo due film dello stesso regista a così breve distanza diventa esercizio intellettuale (oddio, intellettuale riferito a me è troppo) veramente stimolante ricercare punti in comune, assonanze e dissonanze, tra le due opere.
Esercizio in realtà anche "pericoloso" perchè in una filmografia molto vasta di un dato regista avere "l'arroganza" di volerne capire la cifra stilistica con soli due film è sbagliato, visto che capita spessissimo che nell'arco di una carriera si cambi registro o stile.


Però, ecco, nel mio piccolissimissimo posso azzardare qualcosina sul cinema di Schrader.
I due film, infatti, si somigliano moltissimo pur essendo, apparentemente, tanto diversi.

La cosa che balza più all'occhio (anzi, all'orecchio) è l'uso spropositato che fa Schrader dei dialoghi.
Se già in The Card Counter non c'era quasi soluzione di continuità tra un dialogo e l'altro in First Reformed, se possibile, siamo davvero al parossismo, tanto da ritrovarci davanti a quello che, con una provocazione, potrei definire, mutatis mutandis, un audiofilm (dico provocazione perchè no, il film in realtà è visivamente tanta roba).
Ancora una volta Schrader dimostra di prediligere i dialoghi di coppia (non si riesce nemmeno a contarli quanti sono tra i due film sommati) anche perchè, come nel film precedente, ci ritroviamo davanti ad un'opera dal cast ridottissimo, non più di 3 personaggi principali.
E ancora una volta i dialoghi sono alternati da...monologhi (con voice over) del protagonista.
Voice over e dialoghi, in una continua alternanza che non si spezza mai.
Del resto - altra somiglianza - anche First Reformed è un film che pare quasi un'auto-analisi del protagonista, un uomo che in qualche modo sta cercando un senso ultimo alla propria esistenza o una possibile espiazione.
Ovviamente in First Reformed (ah, nemmeno ho detto di che parla, praticamente di un giovane prete malato che scrive un diario di memorie e, nel mentre, ha a che fare con una vicenda che gli cambierà del tutto il modo di pensare), dicevo, ovviamente in First Reformed tutta questa analisi ha connotazioni più spirituali, più "grandi" (sempre che lo spiritualismo o il divino siano, de facto, più grandi della "semplice" analisi di sè) ma sicuramente sia il giocatore del primo film che il prete del secondo sono in cerca di un senso, di una risposta o, oserei dire, di una direzione da prendere.
Il terzo punto in comune (dopo la massiccia parte dialogica e lo struggimento del protagonista) è la denuncia politica e sociale.
Se in The Card Counter c'era quella sulle torture perpetrate dall'esercito americano ad Abu Ghraib, qui abbiamo quella verso la distruzione sistematica che l'uomo sta facendo del pianeta Terra (insomma, tipo in madre! di Aronofsky anche se con metodi completamente diversi), verso l'inquinamento, verso lo sfruttamento delle risorse, verso le multinazionali che stanno distruggendo il nostro ambiente.
E' davvero interessantissimo vedere la figura di questo prete che passa da discorsi sui massimi sistemi come la Vita e la Morte, la Speranza e lo Sconforto, la Colpa e il Perdono all'informarsi invece di cose molto più pratiche, come quelle descritte appena sopra.
Ma la cosa ancora più interessante è che questo cambiamento di Padre Torrel è in realtà meno radicale di quello che sembra perchè la sua nuova lotta per l'ambiente e per la salvaguardia del Pianeta è proprio una lotta densa di spiritualità, un cercare in tutti i modi di difendere la Creazione del suo Dio (non a caso il brutto sottotitolo italiano è "La Creazione a rischio").