Class enemy di Rok Biček è il miglior film che abbia visto sul tema “scuola”; insieme a Non uno di meno di Zhang Yimou esprime il meglio sull’universalità dell’insegnamento, quale momento chiave della continuità dell’ “essere umano”. Nella pellicola cinese ne vengono percorsi in crescendo i valori positivi, qui invece troviamo tutto quanto li opprime nel nostro mondo e, riguardandoci così da vicino, rimane una pellicola di cui a maggior ragione far tesoro. Ciò che mi pare si imponga all’attenzione (a monte di qualunque lettura) è l’incomunicabilità quale ratio di un sistema, in un insieme sovraordinato di relazioni che talvolta trascende persino le intenzioni dei suoi attori nella propria incapacità di vedere oltre quelle; e il primo effetto (e anche il più grave) è il fallimento delle possibilità del protagonista “prof”, che diversamente avrebbero tutto per essere elevate ad arte. La profondità della persona (che pur apprezziamo cristallina) mostra di fatto la sua impotenza di fronte all’apparato scuola – rimanendo ingessata nel proprio ruolo – e uscirà sconfitta proprio dal rapporto con i ragazzi. Interessante è capire le origini di questo fallimento, che personalmente rintraccio nel non aver compreso che la prima relazione efficace è il proprio rapporto con l’insegnamento stesso, nella consapevolezza che nulla viene prima dell’incontro quotidiano con ogni singolo studente. E non può che essere un momento creativo perché ogni volta nulla può essere omologato a quanto già vissuto. Egli invece non solo quel momento irreggimenta (e quindi omologa) ma fa del suo patrimonio umano e intellettuale un bagaglio retorico da impartire con altero distacco, piuttosto che da condividere accogliendo le diffidenze che deve affrontare; a noi appare sempre incapace di vedersi negli occhi o nei gesti di quell’adolescenza che, nell’atto di insegnare, diventa semplicemente parte di sé.
L’atteggiamento del docente sempre contribuisce a strutturare quello dell’istituzione in cui agisce e con esso quello dei suoi discenti, ma fuori da questo percorso l’impermeabilità alza barriere che si impongono in controcampo. Già la semplice distanza da egli imposta - con una tempestività che anticipa in sé gran parte dei contenuti – suscita nei ragazzi soltanto ostilità verso chi avrebbe avuto invece molto da dire su ciascuno di loro; ma – con tali premesse - ciò non provoca la minima scintilla, nessuna benevola o impertinente curiosità: regna un clima nel migliore dei casi di anaffettiva diffidenza.
Gli studenti – da canto loro - non posseggono alcuna attitudine all’altro da sé fosse anche da irridere, ma intanto da accogliere nella sua genuina rivelazione. Conta invece l’aspettativa di venir assecondati alle proprie condizioni (così come l’istituzione stessa ha stabilito), su una strada che si pretende sempre e comunque in discesa avendo perso il gusto di ammirare il paesaggio dalla cima del pendio, forse perché il “sistema” ha già tradito quella promessa a partire da se stesso. Ma il sistema qui è tutti loro, anche l’insegnante colpevole di mancare proprio di questa consapevolezza e cavalcarla (che è materia sua). La classe raccontata da Biček non si cimenta neanche davvero nello scontro (che sarebbe tale solo alla luce di un confronto realmente vissuto) ma piuttosto nella difesa a oltranza delle rassicurazioni (elevate a status di diritto) elargite a proprio favore da una scuola in apparenza strutturata per esigere ma sempre ammiccante all’indulgenza (estremi dello stesso rovinoso equivoco). E’ un mondo adulto che in fondo vuol sentirsi per primo al sicuro, cristallizzando i propri paradigmi per mettersi al riparo dal futuro; quel mondo al quale noi tutti per altro abbiamo imparato piuttosto ad abituarci (diversamente declinato anche nella nostra esperienza): omologato dal puntiglio prolisso e formale della norma, in cui si omologano persone e scopi; mentre il cuore della sua missione è ridotto a ragioneria del profitto e burocrazia didattica all’insegna del dovere, che è coazione all’apprendimento e mortificazione della curiosità (sempre motore della conoscenza). Ogni atto è finalizzato alla mera sopravvivenza dell’apparato scuola, disinteressato e comunque impreparato a spingersi oltre se stesso. In questo scenario l’impotenza elevata ad atto estremo, il suicidio di un’alunna che paga (anche) quest’ennesimo abbandono, è quel momento di rottura che pone gli uni di fronte agli altri elementi sostanzialmente ripiegati su sé stessi (il “sistema”, il prof e la classe), svelandone le contraddizioni una volta rimossa la coltre di conformismo che le nascondeva o peggio che le facesse sembrare normali parti del gioco; che è una critica forse più ampia e rivelatrice di un modello di umanità di cui la scuola è modello in erba e che retroalimenta la propria crisi anche laddove ci sarebbero le risorse (se non per uscirne facilmente) almeno per affrontarla.
Un appello volutamente crudo in cui si individuano molte assenze e troppi discorsi colmi di silenzio. Ogni elemento in sé positivo (il rigore intellettuale del prof, la “migliore amica” quale immagine genuina del candore adolescente e la direttrice dell’Istituto armata a modo suo delle migliori intenzioni) rimane chiuso nel suo isolamento e destinato a dissolversi senza lasciar traccia; quell’assenza di volto in locandina che è sintesi dell’intera vicenda, quando alle maschere è affidata l’espressione più audace della protesta.
N°2: ULTIMA NOTTE A SOHO (E BARTON FINK) – LA GESTAZIONE GROTTESCA DELL’AMBIZIONE