Quinto appuntamento con il nostro recensore poeta Roberto.
Wakefield? io mai sentito.
Voi?
Un'ottima occasione per andarlo a conoscere.
Wakefield? io mai sentito.
Voi?
Un'ottima occasione per andarlo a conoscere.
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Questa è la storia della catastrofe di Howard Wakafield.
Howard torna a casa.
La folla di un marciapiede, il silenzio delle voci, le luci della città.
Entra in stazione, sale sul treno, il paesaggio si frantuma nei riflessi sul vetro.
Il traffico, il lavoro, i documenti, il cellulare, le scadenze, la routine.
Il treno si ferma nel bel mezzo del nulla.
Anche Howard si ferma, nel bel nulla del mezzo del cammino della sua non vita.
Non ha risposto alle chiamate di Diana, sua moglie. Ora è sul vialetto, sta per entrare in casa, anche stasera è in ritardo, lei e le figlie sono già sedute a tavola per la cena. È stanco, sa che litigherà, non ne ha alcuna voglia. Poi accade qualcosa. Un procione attira la sua attenzione. Lui tenta di scacciarlo, ma l’animale fugge e si rintana nella soffitta sopra il suo garage, di fronte casa sua. Sale le scale, lo rincorre, poi lo trova e lo manda via. Ora è solo nella soffitta. E qui accade un’altra cosa. Si rende conto che dalla finestra ha una perfetta visuale della sua abitazione, che ha grandi vetrate. Osserva sua moglie, arrabbiatissima ormai, e decide, in quell’istante, di non rientrare a casa per la notte.
Inizia sempre con un attimo di buio. Ogni volta, passa inosservato, non ce ne accorgiamo mai. Comincia con una variazione impercettibile, come un alito di vento che sfiora le tempie. Quello è l’inizio del tornado che ti sconvolgerà l’esistenza. È impossibile accorgersi della sua nascita. Farà molto male. Fino alla fine. E sboccerai.
È la catastrofe.
Si sveglia di soprassalto. La soffitta è in disordine. Osserva sua moglie e le sue figlie. Valuta la possibilità di rientrare, ma lei di certo penserà che lui sia stato con un’altra donna. Non capirebbe la sequenza di scelte del tutto razionali che ha portato Howard a dormire nella piccola soffitta del suo garage. Allora aspetta. Rientrerà quando lei uscirà per andare a lavoro. Howard accenna un sorriso. I pensieri si rincorrono. Un procione gli passeggia nel cervello.
Entra in casa. Si lava, mangia qualcosa. È nella sua camera da letto, sul comodino c’è un taccuino, lo prende, sta per scrivere qualcosa, poi si ferma. In quel momento ha un’intuizione. Pulisce le tracce del suo passaggio, prende poche cose e torno nel suo nascondiglio. Si chiude nel suo mondo, in se stesso, non c’è posto per nessuno. Pensa a lei, a sua moglie. Ecco qual è stata la sua intuizione: «Diana ha sposato l’uomo sbagliato». Ora vede tutto in modo molto chiaro. Lei sta continuando la sua routine. Non è cambiato niente per lei. Vedi, Howard? La tua scomparsa non la sconvolge, anzi per lei è un sollievo che tu sia sparito. Ripensa al suo matrimonio, alla sua storia d’amore, a se stesso, alla sua famiglia. Rivede le immagini della sua esistenza che si affollano, in un turbinio di emozioni confuse, impenetrabili, insaziabili. Ripensa al rapporto con Diana, alla gelosia con cui condiscono i loro momenti di intimità, ai giochi di sguardi, alle provocazioni, al sesso, all’amore, all’odio, all’abitudine, ai giorni uguali, all’assenza. Si avvicina alla finestra. Sua moglie ha chiamato la polizia. Lui osserva le lacrime di quella donna che forse non ha mai amato veramente. Ed è di nuovo notte.
Dopo quell’attimo di buio, invisibile come una colomba nella neve, tutto resta uguale, ma il germe del divenire è già ovunque. Niente sarà più come dopo, perché quel dopo non ci sarà più. Si tratta di futuri abortiti, di deviazioni, di atomi di follia (e di follia di atomi). Si tratta di configurazioni inedite di tasselli primordiali, di nuovi meridiani (come direbbe Paul Celan). È la catastrofe che fa il suo corso, che fa la sua corsa, implacabile e poetica, come un procione affamato che scava tra i rifiuti.
Gli occhi di Howard cominciano a indossare un sguardo del tutto nuovo. A un certo punto, tra le sue infinite riflessioni, ci pone una domanda «chi non ha mai sentito l’impulso di sospendere la propria vita? Ve lo chiedo». Perché è esattamente questo ciò che lui ha fatto. Ha sospeso la sua vita, ha interrotto il fluire della sua esistenza. Pausa. Stop. Potrebbe essere la fine, lo sarà sicuramente. Non è un gioco: ha agito razionalmente, vorrebbe gridarlo in faccia a tutti coloro che ora stanno a casa sua, con la sua famiglia, i quali pensano che se ne sia andato, abbandonandoli. Ma lui è lì, è a pochi metri di distanza, passa più tempo con loro adesso di quanto abbia mai fatto prima. Si prende cura di loro, osserva le sue donne, le ri-conosce, le ri-scopre. Sua moglie, per esempio. Diana era la fidanzata del suo migliore amico, Dirk. Due amici, quasi fratelli, entrambi molto competitivi, e Howard trasforma anche questo in una sfida. Fa di tutto, e riesce a fare in modo, con la disonestà e la manipolazione, che il suo amico sbagli irrimediabilmente. Ora Diana è sua. L’ha conquistata, con l’inganno e la menzogna. A questo pensava quando rifletteva sul fatto che sua moglie avesse sposato l’uomo sbagliato («l’avrei mai voluta se non fosse stata la ragazza del mio migliore amico? È stata solo competizione?»). Lui non le ha dato scelta. La voleva, e non era propriamente amore. Ora lo ammette, lo riconosce. È stato un mostro. L’amore è un’altra cosa. L’amore è dare la possibilità di scegliere, di non essere scelti. Howard lo sa, eppure continua a manipolare sua moglie. La sua assenza è una presenza troppo ingombrante nella vita di Diana: sa che fino a quando lui resterà scomparso, lei non potrà ricominciare a frequentare un altro uomo, non senza lo stigma e gli occhi accusatori dei parenti, degli amici. La sua brama di controllo pulsa ancora molto forte. Si compiace di se stesso. «Sono ancora in possesso di mia moglie». Sparire in questo modo è stata una mossa di potere.
Ecco chi è Howard Wakafield.