4.10.17

Recensione "Contagion" 1987 - Karl Zwicky - Boarding House - 12 - di Giorgio Neri


Dopo non so quanti mesi (ma la colpa è a metà tra me e lui) torna il grandissimo Giorgio Neri con la sua rubrica di film cult ma al tempo stesso praticamente sconosciuti e "invedibili". E niente, fa sempre specie vedere la sua passione e la cura che mette nel recensire queste "perle" dimenticate.


Trovate tutte le 10 precedenti puntate nell'etichetta "Boarding House" alla destra del blog

“E il viaggiatore disse:
‘Guarda quanto male è stato commesso qui.
Persino l’innocente che passa da queste parti
è subito preda di questo antico morbo.
Il contagio ha infettato la sua anima.’”

Secondo una recente ricerca effettuata da due studiosi di Cambridge, John M.
Coates, un ex-trader di Wall Street convertito alla ricerca, e John Herbert,
esiste un nesso tra il livello di testosterone ed il successo od il tracollo delle
scelte d’investimento in borsa attuate dai trader “high-frequency”, cioè dagli
operatori che comprano e vendono titoli in continuazione, facendo decine o
addirittura centinaia di scambi al giorno. Secondo la suddetta ricerca, infatti,
maggiore è la concentrazione di testosterone, maggiore sarebbe la
propensione al rischio del trader. Ma, in finanza, ad un maggior rischio
corrisponde anche un maggior guadagno o una maggiore perdita; e i
ricercatori nel loro studio si premurano di avvertire che non si è ancora
capito se il testosterone influisca più sulla propensione al rischio o sulle
capacità di trading. Una cosa invece è certa, cioè che un eccesso di
testosterone ha effetti contrari: i trader diventano eccessivamente sicuri, la
spavalderia diventa arroganza ed il risultato è che sbagliano gli investimenti.
(dal sito investireinformati)

Un agente immobiliare, sperdutosi in un bosco pieno di villici rozzi e crudeli,
crede di aver trovato rifugio in una villa lussuosa di un ricchissimo
investitore. Convinto da due belle ragazze che abitano in quel luogo ameno,
cercherà di eliminare sul suo cammino qualsiasi ostacolo per raggiungere la
meta più ambita: il Successo.
Sara Tommasi, nell’introdurre il suo film pornografico La Mia Prima Volta (di
Guido Maria Ranieri, 2012), aveva detto la più ovvia delle banalità:
l’importanza delle tre ‘s’, ovvero soldi - sesso - successo. In Scarface di Brian
De Palma (1983), Al Pacino spiattella in pochi secondi ciò che è
fondamentale per riuscire nella vita: “Quando fai la grana, c’hai anche il
potere; e quando hai il potere, c’hai pure le donne”.

Questo film australiano del 1987 prende l’assunto molto semplice, e
certamente non nuovo, di un compassato impiegatuccio di provincia che
decide, ad un certo punto, che il successo debba essere la prerogativa
essenziale della sua esistenza. Ma lo sceneggiatore Ken Methold utilizza, per
narrare la vicenda, l’inquietante meccanismo dell’horror in stile kubrickiano:
cioè Shining (1981). Infatti, il film si divide in due luoghi: fuori dalla villa e
dentro la villa, così come il vagabondare di Jack Nicholson nell’hotel è
completamente diverso dal suo rapporto con l’esterno (luogo gelido, dove
morirà).

Fuori dalla villa.
All’inizio del film, un automobilista viene decapitato con un filo d’acciaio
teso da un albero all’altro: è una zona boschiva e isolata della città. Poco
dopo, l’agente immobiliare Mark (un bravo John Doyle, definito da molti
commenti sul web come mono-espressivo mentre invece, per me, è adatto al
ruolo: da pavido impiegato diventa pericoloso assassino, proprio perché ha
una faccia che “non gli avresti dato manco due soldi”) è incaricato dal suo
direttore di gestire una pratica immobiliare importante.
Un passo indietro.
Il gruppo di assalitori è accampato nel bosco, in cui vi sono carcasse di
automobili e probabilmente anche i cadaveri dei proprietari. Rubano i loro
oggetti, li stuprano e poi li uccidono. Questo accade sia alla ragazza sia a
Mark, che viene sodomizzato da uno di loro. Ovviamente si sta parlando di un
film probabilmente direct-to-video, quindi tutto è un po’ soft e un atto
sodomitico ci è risparmiato, a noi spettatori. Il gore, però, non manca (gli
effetti speciali sono realizzati bene) e due assalitori fanno la fine del sorcio:
Mark li uccide, scoprendo di avere la forza di poter andare avanti, di riuscire
ad essere unico fautore delle sue scelte; in poche parole, di essere padrone
della sua vita. Infatti, in quel preciso momento, correndo per il bosco,
s’imbatte in una ragazza che lo condurrà alla villa, dalla quale rimarrà
incantato e imprigionato in maniera ossessiva.
Ma non entriamo ancora in essa.


Chi ha fagocitato (è il caso di dirlo) il cinema horror che vede un gruppo di
persone di città scontrarsi con un gruppo di persone viventi secondo la legge
del più forte sul più debole, troverà delle attinenze con Le Colline Hanno Gli
Occhi di Wes Craven (1977).
Quindi, si dirà, non un prodotto proprio originale... Invece la verve
dell’originalità c’è, in quanto non è molto facile trovare un film che unisca
l’articolo che apre questa recensione con l’outback australiano ricolmo di
gente abituata a considerare l’estraneo come selvaggina e, in più, appiccicarci
le diramazioni orrorifiche di Shining. Oserei dire che il vero seguito del film
di Kubrick è questo, perché realizzato in quel periodo d’oro che erano gli anni
Ottanta, le cui pietanze a base di sesso e morte avevano un sapore meno
patinato e meno ovvio di tanti film che, se affondano nell’abbietto, lo fanno
con freddezza o, nel peggior dei casi, con un distacco che ha il gusto del
moralismo spicciolo. Figli di quel tempo, il regista Karl Zwicky e lo
sceneggiatore Ken Methold, con tutti i limiti di un budget risicato, parlano di
economia selvaggia (far soldi, in poche parole, sulla pelle degli altri) e di
sesso (il desiderio del protagonista di eliminare la sua brutta compagna per
darci dentro con due belle figliole...). Ha del geniale e del triviale.
Colpisce duro e, considerati i tempi anestetizzati in cui viviamo, fa bene.


Così, se molti lo prendono in giro per essere una scopiazzatura, allora anche
Wrong Turn (2003) di Rob Schmidt e Wolf Creek di Greg Mclean (2004,
quest’ultimo australiano) per quale motivo non dovrebbero subire i medesimi
strali derivando da questo sconosciuto Contagion? I carnefici non sono
deformi ma violentano ed uccidono senza nessuna compassione; intorno a
loro vi sono carcasse arrugginite di auto; conoscono il bosco e per tale motivo
sono abili predatori; uno di loro si mette una maschera da coniglietto per
sodomizzare Mark... I fatti di cronaca a cui i film di Schmidt e Mclean si
ispirano (la storia di Sawney Beane nella Scozia del XVI secolo, nel primo caso, e il
serial-killer Ivan Milat, accusato di aver brutalizzato ed ucciso 6 turisti nel
New South Wales negli anni ’90) sono vaghi spunti per film che puntano su
trame da survival, genere sempre apprezzato. In Contagion si afferma che, nel
posto in cui si trova Mark ormai uscito fuori di senno, un uomo massacrò tutta
la famiglia: Shining o cronaca? Entrambe. Da una parte il meta-cinema,
dall’altra i numerosi omicidi nell’outback australiano, che, senza tante
discussioni di lana caprina, è la periferia di Sidney. E come tutte le periferie...
Nel film di Zwicky, la sopravvivenza è una condizione sine qua non per poter
percorrere ciò che nel lungometraggio viene denominato il “sentiero a tre
svolte” (d’ispirazione vagamente taoista): coraggio - determinazione -
crudeltà. Senza questi ingredienti, lui fallirebbe. Senza tali azioni, non
riuscirebbe ad eliminare l’odioso collega, a cui propone una sfida: se solleva il
manubrio dei pesi per venti volte Mark sparirà; invece, muore. Senza tali
sensazioni rinvigorenti, Mark non avrebbe il coraggio di uccidere il suo
datore di lavoro spruzzandogli in faccia tutto il liquido di un estintore. Senza
queste impellenti emozioni, non deciderebbe di uccidere la compagna
sabotando l’aeroplano con il quale lei lo cerca. Senza un preciso obbiettivo di
cambiamento, non sedurebbe la collega della compagna per portarla alla villa,
e poi ucciderla quando questa si rifiuta di stare lì (“come regalo per il ricco
magnate”, affermano le belle ragazze a cui si vota).
Da pavido è diventato impavido: un’animo da broker senza scrupoli.


Dentro la villa.
La prima battuta che l’anziano riccone e senza scrupoli dice al protagonista è
“se la scelta che lo ha portato alla villa sia stata dettata dal denaro o dal
sesso”.
È tutto qui il film, come si è detto. Ma con una implicazione che rende
Contagion una spanna superiore ai film coevi che trattano una simile
tematica. Pur se in poche scene, il vecchio espone le sue teorie crudeli che
vedono la fame e la guerra come due business davvero redditizi. Nel caso
della guerra, chi la gestisce deve essere bravo a fare in modo che rimangano,
sia nelle fila dell’una che dell’altra, abbastanza uomini da poterla far
continuare. Tali idee e pratiche costituiscono l’ossatura principale di un
vampiresco metodo di sopraffazione attuato da un uomo ricco e insensibile,
che si delinea sempre di più come la personalità accettata dal giovane e
miserabile Mark. Nel mix di sesso e denaro, la sua precedente vita, informe e
scialba, perde senso. Ciò che lui asseconda è la principale regola di chi deve
avere successo (essere senza scrupoli o rimorsi di coscienza), soprattutto dopo
aver dimostrato di essere un valido assassino (contro i barboni) - pur con la
scusante dell’autodifesa. In quei momenti Mark è il “maschio alfa” che
difende se stesso e il suo spazio vitale. Se prima era indeciso circa l’idea di
salvare l’autostoppista, quando il coraggio prende spazio nel cervello arriva
ad uccidere. Quando la determinazione al raggiungimento dell’obbiettivo si
contraddistingue nel commettere atti criminali, lui è soddisfatto. Nell’attimo
in cui la crudeltà s’impossessa di lui, non c’è alcun freno: perciò, quando la
moglie si salverà dall’incidente sull’aeroplano, ormai non può tornare indietro
e in lei vede le immagini allucinate di quei villici che lo hanno fatto regredire
a bestia sanguinaria, causa del suo cambiamento e del suo desiderio insito e
rimosso di farcela da solo a tutti costi, gettando all’aria la vita passata.
È il sentiero a tre svolte.


È l’american way of life (il dollaro è invasivo).
È il mito non del superuomo ma del self made man.
Se a tale possibilità si aggiunge il sesso, il meccanismo stritola ogni azione
contraria, ogni confessione fatta in chiesa (una scena del film). Appena mette
piede nella villa, entrando nella sua stanza riccamente ammobiliata, la ragazza
che lo ha ammaliato si denuda di fronte a lui, integralmente, mostrando i seni
e il sesso alla luce lunare (il corpo dell’attrice è perfetto: Pamela Hawkesford,
non farà altri film nella sua carriera). È lei la parte più dolce dell’eterno
femminino che si richiede per catturare (o adescare?) il potenziale umano
insito in ogni maschio, glorificandolo. Questo tipo di donna è necessario per
renderlo fiducioso in se stesso. È il ruolo di Helen (Elena di Troia?).
L’altra controparte femminile, Cleo (deriva dal greco e significa “rendere
famoso”) corrisponde alla forza contraria, alla necessaria iniezione di
testosterone che il maschio deve avere per essere dominante: essere robusti e
duri per essere famosi. Ironizza su di lui, lo offende e ha dubbi sul fatto che
Mark riesca nell’intento che si è prefissato. Lo pungola continuamente fino a
quando non si concede in una tripletta sessuale soft-core. Tripletta osservata
da una telecamera a circuito chiuso; dietro gli schermi: il magnate.
Il voyeurismo del vecchio è quello di Mark.
Le due ragazze sono le parti più utili alla sua personalità di maschio.
È stato contagiato dalle aspettative che la società offre a qualsiasi umile
mortale. Il non raggiungimento crea sfiducia. Se il livello di autostima è
elevato - se si ha l’intraprendenza di uccidere fisicamente e mentalmente il
proprio Super Io - il senso di sfiducia sposta il suo fulcro verso l’Esterno,
divenendo accusa rabbiosa verso l’Altro. Così, la lotta finale tra Mark e la
compagna è tutto giocato su questo lato nascosto di ogni essere umano. Qui
Shining è presente anche a livello di immagini: Mark rompe con un’ascia la
porta della baracca in cui si è rifugiata la donna. Ma non c’è un bambino che
ha catalizzato l’amore della madre, relegando il padre a mero scrittore senza
idee (una parziale spiegazione di ciò che avviene ed è avvenuto all’Overlook
Hotel); nel film di Zwicky esiste qualcosa di più impalpabile (la “luccicanza”
del Successo?): è il contagio messo in atto da una aspettativa di vita migliore
e simbolizzato da quella meravigliosa villa in mezzo ad una natura ostile e
selvaggia, scrigno di tesori e costituente il grande segreto che cova
nell’animo, e solo in esso, di chi ha intenzione di non fallire.
Ma tutto ciò è illusione.
Perché quella villa e quelle persone non esistono: l’una è una fattoria
fatiscente, le altre sono soltanto parti di un animo inetto che rifiuta il vero Sé
per un altro Sé, opposto e irraggiungibile ma sempre alimentato dal
sentimento della speranza nel cambiamento.
Morto Mark, il contagio non muore. La moglie che lo ha ucciso, cioè ha
compiuto il rito necessario per incamminarsi sul “sentiero a tre svolte”
(precedentemente aveva infilzato con un forcone uno di quei degenerati che
vivono nel bosco), ride mefistofelica.

[Diffidare della trama sul retro del dvd, pubblicato dalla collana Futurama,
che non ha niente a che spartire con ciò che si vede sullo schermo. Questo è
un vero mistero...]

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