E' vero che non scrivo qua da due mesi ma mentre io prolungo sta pennichella bloggara (che se sta a trasformà in una specie de mega dormita di 18 ore tipo after rave) i miei amici/scagnozzi non si fermano.
E sono lieto di annunciarci questo pezzone (questa è solo la prima parte) che ha scritto Riccardo Simoncini, andato per me a Cannes a godersi l'ultimo Festival (non è vero, c'è andato per sè ma approfittiamo l'uno dell'altro a vicenda).
Sei recensioni, sempre emozionanti ed esaustive, nel suo stile.
E, a Festival finito, arriveranno le altre.
MIROIRS NO. 3 (Christian Petzold, Quinzaine des cinéastes)
Il capitolo conclusivo di una trilogia, il termine ultimo di una sospensione, di un'immanenza sentimentale, ma tra tutti gli amori incompiuti di Christian Petzold Miroirs No. 3, che risuona come l’ultimo movimento di una sinfonia classicheggiante, è anche quello che si apre di più al gotico, al perturbante, ma lo fa sempre con una consapevolezza di leggerezza (che in Petzold è più propriamente leggiadria), breve ed essenziale. I segreti dormono qui nella soffitta polverosa della nostra mente, sgattaiolano fuori guatti guatti mentre fuori c'è la tempesta. Una ragazza giovane, un incidente stradale violentissimo e irrimediabile: il corpo illeso, l'anima martirizzata tra le quattro mura della famiglia di una testimone che l'ha vista salvarsi e così l’ha accolta a casa, quasi amata come se ne fosse stata madre. Laura sopravvive all’impatto, mentre il suo ragazzo muore sul colpo. “Dovrei soffrire lo so, ma non è così” dice lei, la solita empirea e inquieta Paula Beer. Allora l'amore non è più impossibile perché il futuro ce lo porta via ogni istante, traslandolo in tempi e spazi contigui, ma perché il passato l'ha interrotto, ha messo un punto sulle sue immagini, esattamente come accadeva nel colossale Megalopolis di Francis Ford Coppola. Nel lutto irrisolto della moglie l'avveniristico architetto Cesar Catilina depositava il brevetto della sua genialità: il tempo di un amore mutilato, il futuribile del sentire, la materia trasparente dei sogni più grandi. L’assenza stessa è un fantasma (di un ricordo, di una vecchia normalità perduta), anche senza che nessuna entità sovrannaturale si palesi come sua immagine dichiarata. Una visione spettrale, di una routine famigliare che si deve (de)costruire man mano, tra l'invisibile e l'etereo di una casa in campagna che riceve il vento da ogni lato. “Le famiglie felici si somigliano tutte, le famiglie infelici lo sono ognuna a suo modo” recita Tolstoj in uno degli incipit più noti della letteratura russa. Infelici sono tutti anche se sembrano il contrario. Betty, marito e figlio, due meccanici tuttofare, un po’ loschi, difficilmente criminali, e poi un nome, Yelena, pronunciato continuamente, eppure nella casa, nel concreto, nel presente, assente. Così Laura entra, da miracolata, fuoricampo, in quella casa silenziosa troppo grande e vuota per essere abitata da una persona sola. Improvvisamente però nasce l’urgenza di risistemare tutto, gli elettrodomestici fuori uso, il pianoforte scordato, la bicicletta rotta, come per un’evenienza imminente e rara.
Coincidenze, suggestioni fatali, reminiscenze enigmatiche, incastri troppo perfetti per essere reali, così fortunati da essere stati scolpiti dal tempo per (ri)trovarsi, senza lasciare che nemmeno la più piccola imperfezione di colpo di scena potesse accadere imprevista a rovinarli. Tutto combacia, tutto passa da sguardi penetranti (riflessi, miraggi) che sono in sé potenti presagi, di fine e di inizio.
Rientrerà il vento a spalancare le tende della solita camera esposta. Ed è lì esposti alla vita che ricomincerà il mondo.
THE LOVE THAT REMAINS (Hlynur Pálmason, Cannes Premiere)
Quando l'amore finisce cosa rimane? Un residuo, un avanzo, più spesso una scoria. Ma nella terra dell'Islanda desolata, ricolma di vita e di trionfi di natura, rimanere soli sembra impossibile. Come se quei luoghi, animati da dentro, tenessero prima di noi i fili delle nostre relazioni, attaccati ad un ramo flessibile o alla radice di una betulla, impedendoci di cadere nel baratro della solitudine, magari anche dispersi a galleggiare nell’oceano ghiacciato, ma comunque ancora con qualcosa in mano. Una fantasia, una visione. È impossibile che lì tutto termini in un istante come quei classici amori tormentati raccontati dal cinema americano. Gli avvocati spietati di Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, in perenne lotta per custodia e mantenimento, sono infatti qui la natura stessa: un ceppo conficcato nel terreno che arriva a sfiorare il cielo, la neve scottante e friabile. Quei profili acuminati di paesaggio sembrano cattivi, ma possono esserci amici, se li si sa ascoltare con ironia, quel bizzarro umorismo nordico qui più sciolto che mai, con tanto di inserti onirici e fantasmatici esilaranti, inediti persino per lo stesso Pálmason.
Funghi, bacche in grappolo da spremere fino all’ultima goccia, la sabbia pesante che vola via. Decostruire l’amore scavando in profondità nel fango, strato dopo strato, scheggia dopo scheggia, vedere cosa si nasconde al centro della Terra, nel nucleo primo di una famiglia, le cui leggi di natura sono quelle della natura stessa e da cui, di conseguenza, passa ogni legge superiore, giuridica, morale, spirituale. Le contraddizioni sono intrinseche per definizione in questa dinamica, nello stesso tempo il sole scalda e brucia, la pioggia disseta e scioglie, “Ti amo ma non ti amo” diceva la protagonista de La persona peggiore del mondo di Joachim Trier. Una famiglia, un padre che dall’oceano profondo tira su vecchi ordigni esplosivi insieme alle reti piene di aringhe, una madre artista della ruggine ma senza pubblico né gallerie, tre figli appresso, un sacco di animali attorno. Le vite si separano, riunite solo dall’occasione di natura. Sembrano le generazioni (mal) intersecate di Alcarràs di Carla Simón, dove ognuno trova autonomamente la sua strada e il suo punto di vista personalissimo in mezzo allo sconfinato paesaggio rurale di raccolto.
Pálmason torna alle sue stagioni trasformanti, al loro inarrestabile fluire e mutare, tra il gelo e il (ri)fiorire in frutto, daccapo come un ritornello sentimentale. L’uomo è solo personaggio di contorno, un rumoroso ingranaggio meccanico che gira e rigira finché non si inceppa, ridicolo protagonista insignificante rispetto al quadro naturale più grande. Così l'amore finisce, ma come da titolo rimane, con una presenza costante, invisibile ma tangibile di natura. La famiglia cambia, si disgrega, vive per la prima volta una distanza, ma appunto rimane qualcosa. Sicuramente la casa, anche se scoperchiata come nell’incipit del film, da sempre ossessione materica e spirituale di Pálmason, struttura (apparentemente) stabile in mezzo alle più dure ostilità. La casa di Dio in Godland, la casa dei giochi d’infanzia in Nest, la casa familiare da ristrutturare perché resista alle intemperie in A White, White Day, il cuore caldo love after love. Ma come far profumare ancora di casa un luogo in cui non c’è più romanticismo, ma soltanto al massimo qualche fredda e meccanica pulsione sessuale? Attraverso i ricordi, i profumi fuori da quelle mura, in mezzo al niente, dove nuove case devono invece essere costruite, riempite di nuovo amore, più abitabile per tutti.
The Love That Remains è forse un film minore rispetto ai precedenti, ma rimane comunque un pezzo essenziale (inedito nel suo tono più umoristico e spensierato) della natura metamorfica del mondo che ha da sempre caratterizzato tutto il cinema di Pálmason. Perché anche l’amore si trasforma e si riforma. Non si butta via niente.
BRAND NEW LANDSCAPE (Danzuga Yuiga, Quinzaine des cinéastes)
Tokyo cresce, verticale e prosperosa, occupa angoli di cemento con altro cemento più pesante e acciaio. Sotto i grattacieli, nel punto più basso della loro gravità, le persone girano, si perdono, come in ogni altra metropoli, per trovarsi o lasciarsi, difficilmente per cambiare, “troppo piccole per essere ancora umane” diceva ne La città delle ultime cose Paul Auster, padre della letteratura americana metropolitana, in cui il brulichio di passi è sempre sintomo di un’alienazione più grande. Ren consegna orchidee ornamentali a domicilio, le impacchetta nel bagagliaio con cura e dedizione. Da quando è morta sua madre, suicida, ha perso ogni contatto con il padre, famoso architetto della modernità, landscape designer, autore di imponenti palazzi per gli altri anche a costo di sacrificare le fondamenta emotive della sua casa familiare. Idealmente Ren si ricongiunge a lui nei ricordi, con le vite che non sono mai state, lasciate là ad arrugginire in mezzo ai cantieri, sempre in attesa che qualcuno le riprenda, recuperandole come si fa con il passaporto sgualcito all’ufficio oggetti smarriti. La famiglia di Ren è questo: un’idea, un ricordo, uno spettro remoto che si aggira come comparsa nelle stanze sigillate del passato, una cartolina sbiadita appartenuta per lui a secoli prima, per il calendario ad una manciata di anni appena trascorsi. È la stessa pervasiva nostalgia di 45 Years di Andrew Haigh (ma anche del suo più recente straordinario All of Us Strangers) capace di riportare in vita, come in un paradosso storico, anche i nostri fantasmi più deteriorati. Solo che a differenza di quella coppia anziana in pensione che sta per festeggiare i 45 anni di matrimonio, Ren è un giovane come tanti, che la vita ha appena iniziato a viverla, eppure la nostalgia riguarda anche quei primi fugaci attimi di passaggio sulla Terra, di mani ancora lisce e glabre, le gambe veloci e scattanti, ma gli occhi sono tristi, non entusiasti. Ecco il destino dei giovani d’oggi (il regista, appena 26enne, è il più giovane della storia della Quinzaine): invecchiare nel corpo di un adolescente, accelerare un futuro strabordante, dilatare un passato traumatico incerto e fragile. Torna alla mente il destino della giovane protagonista 22enne di The Cloud in Her Room di Zheng Lu Xinyuan, le ceneri granulose e acri del tabacco che appestano ogni pezzo di appartamento, i miliardi e microscopici granelli di polvere da raccogliere insieme ai ricordi frammentati. “Il passato non conta più” dice la sorella poco più grande a Ren, aggrappandosi ad un trasloco imminente con il futuro marito come rifugio di accordo e distrazione per cancellare di netto quello che è stato. Ma per Ren non basta, si può dimenticare il suono della voce di un padre, ma non i vuoti che le sue assenze hanno portato. Ren crede si possa ancora riallacciare i rapporti, riassemblare i pezzi rotti della propria famiglia come nell’arte giapponese del kintsugi, ma non accetta di vederne le cicatrici dorate in bella vista, i punti più deboli di frattura. Rimane il rumore assordante di solitudine dei grattacieli che grattano via il vuoto dell’infinito cielo interiore. Lo spleen di Baudelaire, lo spaesamento moderno ma composto in un quadro contemplativo di struggente malinconia: è un bivio del (nel) tempo.
A quale luogo sentiamo allora di appartenere? Quale tempo ci può finalmente contenere? Siamo una rievocazione storica, un’installazione come The Zone of Interest di Jonathan Glazer, ma con i fantasmi personali al posto dei mostri dell’Olocausto. Diceva sempre Auster che i fantasmi muoiono sempre nel sonno. La speranza è di averne ancora qualcuno per ricordo. Il coraggio almeno di immaginarlo.
URCHIN (Harris Dickinson, Un Certain Regard)
Mike è un giovane pigro, scanzonato e vagamente immaturo, ha lasciato la scuola troppo presto, e adesso si è ritrovato in un brutto giro, ma senza un vero e reale motivo. Droga, dipendenza, vagabondaggio, depressione, non siamo nelle periferie di Andrea Arnold, sporche di terra e di lingua, ma nella Londra delle mille opportunità. Il ciclo di Mike è un loop caustico e inarrestabile, si ripete sempre identico, alla stessa maniera: trova un lavoretto stagionale, perde le staffe, ritorna alla droga, a dormire sull’asfalto, qualche furto lo fa rinchiudere in carcere e poi il ciclo riparte, sempre uguale, temporaneo, senza alcun minimo segno di ravvedimento o conversione. Sono infiniti incontri che si susseguono e si perdono sempre attorno agli stessi quattro isolati di terreno. Quei luoghi e quegli spazi metropolitani costituiscono un ecosistema di comparse che via via lo avvicinano, lo allontanano. Uno spettacolo sconsolante degli stessi ultimi che sempre lì chiedono l’elemosina, rubano portafogli, suonano violini per spettatori assenti e distratti. Il ciclo è lo stesso per tutti, con le stesse distanze, tra chi ha tutto e chi non ha niente, gli occhi non si incrociano mai neanche per un istante, sempre con la paura di avere qualcosa da perdere. Così lo sguardo di Harris Dickinson (il volto seducente e provocante di The Square e dell’ultimo controverso Babygirl, qui all’opera prima) si concentra dissacrante sulle idiosincrasie di questa separazione, sul carattere crudelmente sarcastico di quel niente e di come farselo bastare. Non c’è mai un attimo di pietà o commiserazione. Gli ultimi sono lì a prendersi la loro rivincita di sguardi (complici, divertiti), come nel cinema umanista di Sean Baker e in quello filantropico di Mike Leigh, con quel realismo sociale dolceamaro che lo lega fin troppo evidentemente al meraviglioso Naked. Riposizionarsi in un nuovo equilibrio normale, di sbieco al fato avverso, trovando un nuovo centro di gravità permanente, come l’avrebbe chiamato Battiato. L’unica conferma di Mike è però per l’ennesima volta di non aver combinato niente, di averlo fatto consapevolmente. La vita è sempre allo sbando, sfilacciata come chiunque la abiti con un contratto a tempo determinato, come in Diciannove di Lorenzo Tortorici, sfuggevole, adirata, senza però quell'autocompiacimento sedizioso e serio che in quel caso diventava in ogni scena anche il suo limite più grande. Il problema di Urchin è spesso proprio qui, quando il regista vuole fare di più di un racconto semplicemente umano, forzando una visionarietà di fatto assente, un virtuosismo registico che il più delle volte non solo allontana dal racconto, ma risulta anche artificio ridondante e altezzoso.
Il ciclo ricomincia, di nuovo senza motivo, un altro anno, un anno come tutti gli altri, per parafrasare Another Year appunto di Mike Leigh.
Stavolta ci sarà un unico spettatore. Se stesso.
AMOUR APOCALYPSE - PEAK EVERYTHING (Anne Émond, Quinzaine des cinéastes)
Nel futuristico Her di Spike Jonze la voce incorporea di un'AI era il rifugio alla solitudine del mondo, l'amore perfetto e impalpabile da generare su misura per ognuno. In Amour Apocalypse una voce femminile di assistenza clienti, stavolta umana, corporale, apre le porte all’amore, cerca di tamponare una crisi del futuro che appartiene invece già al presente, con una minaccia ambientale talmente traumatica e irreversibile da essere causa di disturbi di personalità. Adam (Patrick Hivon con l’aura weird di Joaquin Phoenix) non fa eccezione, è uno sfigato responsabile di un rifugio per cani abbandonati, che per tanti versi gli assomigliano, così insicuri, indifesi, spesso anche un po’ ingenui e incoscienti. Con quella stessa leggerezza ansiosa ha acquistato una lampada terapeutica per rilassarsi, uno di quegli oggetti di design eleganti ed essenziali che promettono la salvezza eterna al costo di svendere la propria. Le ha provate tutte per superare la crisi esistenziale di origine climatica: podcast meditativi e motivazionali, psichiatri che anagrammano il suo nome per decidere diagnosi e farmaci, e ora utilizzare il supporto tecnico telefonico di quella nuova lampada miracolosa come aiuto psicologico ed emotivo. Adam così incontra Tina, una voce, la promessa di un’alternativa, la condivisione bilingue al di là della cornetta dello stesso “masso che pesa dentro”. Quando l’ennesima (improbabile) calamità naturale interrompe la telefonata, Adam, ancora una volta preoccupato, si convince a raggiungere quella voce, assicurarsi che sia tutto ok, farla diventare corpo consistente. Insieme inseguono una nostalgia primordiale all’inizio del mondo, fresco di creazione (Adam come Adamo dice lui stesso, “il primo uomo”), quando non c’era nulla di cui preoccuparsi, nel passato, presente e futuro, prima che tutto arrivasse ad un punto di non ritorno, a quella tristezza così invadente da essere anche il primo elemento identitario in cui sentirsi rappresentati.
L'esordio di Anne Émond cavalca tutto quel filone canadese inventivo, anarchico, caotico, ma leggero, a cui per ultimo appartengono anche i meravigliosi film di Monia Chokri da regista (Babysitter, Simple comme Sylvain), in cui l'amore non è che una magica follia, un sollievo irriverente e tenerissimo travestito di assurdo (siamo dalle parti del surrealismo di Quentin Dupieux e di quello più esistenzialista di Miranda July - e se proprio bisogna trovargli un difetto è nei risvolti più drammatici in effetti che il film è meno brillante e convincente). Il tempo in cui viviamo non ha nulla della pulizia compositiva levigata e pudica di Her, i colori pastello sono ormai sporchi, riempiti di linee, schizzi, scarabocchi di pensieri. Ci sono complotti, scambi di persona, multiple fini del mondo che si rincorrono, via via più sfacciate e disinibite. Anne Émond gioca, cita, sovverte cliché o li cavalca (zoom veloci, musica pop, slow-motion). Sono lì gli stereotipi nevrotici del nostro tempo, come rifugiati climatici in perenne stato di guerra e di abbandono.
Tutto sta cambiando. Come cantava Vasco Brondi in Cara catastrofe, preparandoci all’apocalisse “Sventoleremo le nostre radiografie per non fraintenderci / Ci disegneremo addosso dei giubbotti antiproiettile”. Prima dell’ultima, vera e definitiva fine del mondo sarà meglio innamorarsi per un’ultima e prima volta.
LA DANSE DES RENARDS - WILD FOXES (Valéry Carnoy, Quinzaine des cinéastes)
Camille contempla allo stesso modo le vittorie sul ring e il suo corpo snello da adolescente, anche quando lo vede sconfitto e perdente. Ha 17 anni, frequenta una scuola sportiva d’élite immersa nella natura in cui ogni classe è specializzata in una disciplina diversa, la sua è la boxe, e come tanti altri ragazzi della sua età, a prescindere dal tipo di carriera agonistica intrapresa, vive tensioni, rivalità, prime cotte serie e meno serie. Tra i tanti però è uno dei più promettenti atleti della sua generazione, con un futuro medagliato pressoché già scritto, che già lo fa ben posizionare tra i candidati più favoriti dei prossimi Europei. Un giorno, però, durante una delle sue tante uscite nell’ampia foresta vicina ad attirare e inseguire volpi (che danno il titolo al film), Camille cade giù da un dirupo. Il suo migliore amico lo salva, ma la cicatrice morale che si porta dietro da quel giorno lo cambia per sempre. Per la prima volta Camille si sente vulnerabile, fallibile, perso più che perdente. Sente per la prima volta la paura e ora teme di riprovarla di nuovo, ossessivamente. Così è meno performante, più debole, suscettibile. “È sempre il braccio” ripete come scusa. Eppure persino un amore adolescenziale (che qui è più simile ad una forma matura di affetto) accarezza tutte le cicatrici, anche le più recenti. Quel dolore non è fisico, ma mentale, e quegli episodi di nero, di deconcentrazione palpitante, hanno la fisionomia di attacchi di panico ricorrenti. Camille si allontana progressivamente dai suoi amici, si isola, si sabota, conferma lo stigma della psicologia come forma inaccettabile di disagio.
Al netto di interpretazioni attoriali anche molto efficaci (di Samuel Kircher in primis) l’approccio di Valéry Carnoy è però fin troppo convenzionale e scialbo. A parte le premesse drammaturgiche onorevoli (la rivalsa dell’archetipo maschile del giovane campione che deve performare ad alto livello e che invece fieramente è fragile e piange), non c’è mai un’analoga visione filmica capace di valorizzarle. Manca cioè uno sguardo, compiuto, soppesato, che renda lo sport, anche lontano dal ring, più di una semplice competizione con ansie collegate, vedere, cioè, in quella lotta esasperata, nel sudore che cola, nel sacrificio rabbioso della disfatta, quello che facevano, tra i tantissimi, Martin Scorsese con Toro Scatenato e per ultimo in ordine di tempo Luca Guadagnino con Challengers: sfruttarne i dispositivi linguistici (di tensione, di montaggio) per costruire un’iconografia, una forma di ossessione (per Scorsese la violenza inaudita, per Guadagnino il desiderio ubiquitario).
Al di là della forza, della velocità, della resistenza, lo sport è sempre questione di testa. Anche dopo aver vinto si può avere paura. La storia di un’amicizia (mancata) con se stessi.
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