Cominciamo a parlare dei film del festival.
Io sto avendo tantissime difficoltà a scrivere, mi ritrovo a casa praticamente al massimo due ore al giorno e considerando docce, colazioni, chiacchiere, vestirsi e tutte le cose minime della vita non sto avendo un minuto.
E mi ritrovo così con già 7 film contemporaneamente in testa, un disastro.
Per fortuna che almeno il mio giovin Riccardo ha trovato tempo.
Cominciamo quindi con 4 film suoi (anche se uno l'ho visto pure io), tra cui anche il nuovo di Wheatley.
Grazie Riccardo :)
Da domani DEVO parlar dei miei, almeno una decina di righe l'uno
Happy New Year, Colin Burstead (di Ben Wheatley)
Festeggiare l’anno nuovo con tutta la famiglia. Arrivare addirittura ad affittare una ricca villa per l’occasione. Ma non si tratterà di un capodanno qualsiasi. Il nuovo film di Ben Wheatley (Killer in viaggio, Kill List) porta infatti all’estremo un mezzo che il regista britannico ama molto: il dialogo. Sembra di essere davanti ad uno spettacolo teatrale. Un’unica grande scenografia con attori che entrano ed escono dalla scena. E poi un lunghissimo ed ininterrotto dialogo a più voci che si alternano e si sovrappongono l’una con l’altra. Come se fosse vedessimo sulla scena un unico lungo monologo: quello della famiglia Burstead. Un dialogo che è un crescendo di voci, di ritmo, di toni: un climax di tensione che diventa poco per volta più serrato. L’iniziale caduta della “madre” a causa di uno scalino all’ingresso della sontuosa casa. L’arrivo di ospiti inattesi e inaspettati. La richiesta di un prestito familiare. Vecchi amori e vecchie conoscenze. Si parla di tutto. E le parole scorrono rapide, taglienti, spesso dirette e violente. Ma quelle parole non portano comunicazione. In quella famiglia si parla (e si urla) tanto, ma sembra sempre difficile capirsi ed intendersi. Ma la famiglia Burstead alla fine è così e forse in molti casi quando si è insieme è meglio non parlare, se ciò diventa così doloroso. Non resta allora che cantare, prima piano e poi più forte. E dopo aver cantato, iniziare a ballare, abbandonandosi alla musica e smettendo almeno per un momento di pronunciare parole di odio. Fino almeno al prossimo capodanno.
History of Love (di Sonja Prosenc)
“Tanto c’è tempo”, pensiamo. Per imparare, per scoprire. Per domandare e per capire. Diamo per scontato che le persone che abbiamo vicino rimangano lì per sempre. Ma in effetti spesso sono proprio queste le persone che conosciamo meno. Perché crediamo di avere un’intera vita davanti. Una vita che si può, però, spezzare in un momento. Così la giovane Iva viene a dover affrontare la morte della madre. Senza forse conoscerla davvero. E con lei il fratello, la sorellina e il padre. Ma è Iva la vera protagonista, colei che concretamente vorrà conoscere di più sulla madre. Il film inizia proprio con la giovane orfana, che scopriamo essere una tuffatrice. I suoni in questo momento ci si mostrano come ovattati. Ma pensiamo sia normale dato che la prima ambientazione che vediamo è l’acqua, la piscina. Poi l’attenuazione sonora continua. Delle persone parlano con Iva, ma non capiamo cosa dicano, come se lei fosse isolata dal mondo che la circonda. Solo successivamente intendiamo che ha un problema all’udito che la costringe ad usare quando non è in acqua un apparecchio che pone sopra all’orecchio. La percezione ed i sensi sono in effetti il vero motore del film. Suoni, stimoli visivi e sensazioni tattili. Tutto si fa percezione. Tutto diventa esperienza e scoperta. La pioggia, la piscina, le api, i lampi. Ogni cosa ha un’espressione tangibile che ci permette di conoscerla. Iva vuole conoscere allo stesso modo quella che è stata sua madre. Cerca la percezione come mezzo di comprensione. Quando il corriere porta un pacco indirizzato alla madre (e giunto dopo la sua morte a causa di un ritardo nella spedizione) Iva non vuole aprirlo, ma lo tocca e lo esplora con le mani. Estrapola informazioni attraverso i sensi. E poi incontra persone, visita luoghi. Tutto per costruire un’immagine più completa possibile di quella donna che l’ha data al mondo. Emergono segreti e tante sofferenze. Ma quel vuoto rimane.
Si è giunti a quel vuoto in un istante, in un momento, in un tempo che separa vita e morte. Un tempo che è breve come un tuffo di Iva, in cui ad essere separati sono l’aria e l’acqua. Ma in questo tuffo, quando si entra in acqua, non si riesce più a riemergere. E si sa: in acqua i suoni sono ovattati. Nella vita di Iva ormai è tutto ovattato, come una bolla di vetro, ma in questo caso nessun apparecchio acustico potrà riportare la normalità.
53 Wars (di Ewa Bukowska)
L’esordio alla regia dell’attrice polacca Ewa Bukowska è il ritratto (non del tutto riuscito) di una donna, sola a casa ad aspettare il marito che è un corrispondente di guerra. I due sono entrambi giornalisti, ma solo lui è riuscito ad inseguire il sogno di viaggiare così tanto e così lontano. Lei vorrebbe in effetti seguirlo, accompagnarlo, ma deve rimanere a casa. Lui dice di aver bisogno di una solida certezza ad aspettarlo a casa. Qualcuno che gli dia la forza, che gli dica che tutto va bene. E poi è pericoloso, laggiù, in guerra. È una situazione difficile da sopportare. Ma l’impressione che noi abbiamo è che quel luogo in cui la protagonista Anka dovrebbe rimanere per dare forza al marito non sia in realtà così felice, ma che porti tanto dolore quanto la guerra stessa. Sì, perché mentre il marito Witek va e viene dalla guerra, Anka inizia a sviluppare una sindrome da stress post traumatico. La sua casa diventa un campo di guerra, dove ad ogni angolo si nascondono mine pronte ad esplodere. Due campi di guerra paralleli: quello di chi parte e quello di chi rimane, interconnessi attraverso suoni, immagini, testimonianze dei due fronti. Questi input sensoriali portano Anka a idealizzare in maniera onirica e tragica quella guerra, ad interiorizzarla ed immaginarla, anche se spesso in maniera troppo scontata e convenzionale. La sua guerra a (ed in) casa diventa appunto un’ossessione, così difficile da sopportare da costringerla a separarsene ad ogni costo, diventando così anche lei una veterana.
Relaxer (di Joel Potrykus)
C’è qualcosa di imminente. Qualcosa di grande. Qualcosa che quando arriverà sconvolgerà le vite di tutti. Ma non sappiamo mai con certezza di cosa si tratti, perché fisicamente non vediamo cosa c’è fuori. È difficile contestualizzare spazialmente l’ambientazione del film. Perché Relaxer si compie in una singola stanza, in un singolo angolo, su un piccolo pezzetto di un divano. Non ci stacchiamo mai di lì. Il protagonista Andie stesso sarà costretto a rimanere lì fermo, in quel pezzettino di divano. Tutto per una sfida. Ma capiamo che in realtà di sfide ne ha affrontate tante, con esito negativo però. Questa volta vuole riuscirci, vuole dimostrare che lui ce la può fare. Che non è un perdente, che nella sua famiglia lui conta qualcosa. Così questa sfida diventa un lento (ed eccessivamente lento e lungo) decadimento dello spazio (quell’unico spazio) e dell’individuo (Andie). Un’autodistruzione portata all’estremo. Con sporco e schifo di ogni tipo. E l’esistenza di Andie è lì. La sua essenza, i suoi stimoli, le sue aspirazioni sono lì. Con un gusto nostalgico degli anni ’90, in quell’angusto e sporco appartamento arrivano persone di ogni tipo (e tutti i personaggi sembrano a loro modo usciti da un film di Todd Solondz) e tutti prendono in modo diverso contatto con Andie, sempre intento a raggiungere il suo unico scopo: vincere la sfida, battere il record di Pac-Man, senza potersi mai alzare da quel divano. Per lui quelle sfide non rappresentano semplici giochi, ma sono dei veri e propri obblighi morali, attraverso cui dimostrare a se stesso di potercela fare. Non può sottrarsi. E se non può sottrarsi dalla sfida, si potrà però sottrarre ed isolare dal mondo, perdendosi così l’inizio del nuovo anno. L’inizio del nuovo millennio. Ma forse anche la fine del mondo.
Quello di wheatley, l'unico che ho visto anch'io tra questi, l'ho trovato interessante. È un festen un po' più tranquillo, meno esagerato (ed esacerbato)...
RispondiEliminaBravi gli interpreti
Concordo pienamente su Festen ;) è davvero un film notevole, anche se a parer mio risulta comunque minoritario rispetto ai grandissimi precedenti film di Wheatley!
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