Seconda triade di film recensiti da Riccardo Simoncini dal Torino Film Festival.
TRUE HISTORY OF KELLY GANG (di Justin Kurzel)
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Ci sono personaggi che entrano a far parte dell’identità collettiva di un intero Paese, diventando, a tutti gli effetti, simboli riconosciuti ed aggreganti di popoli e terre. Grandi condottieri, statisti, scienziati ed artisti, emblematiche figure di orgoglio e di eccellenza nazionale. Stupisce invece che sia un criminale ad ergersi a guida collettiva in cui forse potenzialmente identificarsi. E questo è il caso proprio del personaggio reale, protagonista del film, Edward Ned Kelly, il conosciutissimo fuorilegge australiano esaltato dai posteri alla stregua di un Robin Hood oltreoceano. Paladino di una causa di riscatto sociale, volta a sovvertire il (dis)equilibrio di una terra eterogenea in cui etnie e popoli si scontrano e si sottomettono reciprocamente.
Inglesi, irlandesi, americani. Tutti sembrano aver perso qualcosa (o qualcuno) in cui identificarsi. Difficile, infatti, sentirsi parte di un popolo intero, più facile invece sentirsi integrati in un piccolo gruppo, spesso criminale, solo apparentemente simbolo di una nazione che vuole capirsi, più verosimilmente giustificazione della volontà di sopraffare l’altro.
Ma il dramma che vive Ned non è solamente collettivo, figlio di un contesto dove la terra natale è condivisa, al contrario è principalmente personale e privato. Diviso infatti in tre capitoli, simbolo delle tre fasi teoriche del processo di ascesa e caduta del protagonista, il film vive dell’individuazione di momenti cardine della sua vita. Da un giovane bambino biondo (sicuramente la sezione più riuscita di tutto il film) costretto a crescere troppo in fretta, assumendosi responsabilità che nessun altro osa prendersi e vincolato ad un mondo in cui dilaga una violenza che bisogna ancora imparare a conoscere. Per arrivare ad un Ned più maturo, ma non per questo indipendente dalla sua infanzia, perché forse ossessionato dal ricordo di una figura paterna fisicamente ormai lontana, ma che continua a vigilare su di lui come un’ombra e da cui, a tutti costi, vuole separarsi.
Quel giovane irlandese deve scegliere (e capire) chi essere. E il dramma della scelta è proprio quello che lega indissolubilmente tutti i momenti di massimo climax dei tre capitoli del film. Scegliere per trovare la propria strada, per decidere a chi appartiene la vita che stiamo vivendo, provando a diventarne protagonisti assoluti. Ned dovrà dunque distaccarsi da una visione imposta, che lo obbliga a vivere all’ombra dell’eredità di un padre che non c’è più e di una madre che vede un futuro ormai già scritto. Stesso motore d’azione che spinge il giovane Arthur Fleck in Joker a farsi artefice del proprio destino, staccandosi da tutte quelle aspettative di felicità e sorrisi che la madre gli ha imposto. Una scelta esistenziale come decidere se premere un grilletto o lasciare cadere l’arma. Se uccidere o se lasciar vivere. Se essere parte di un gruppo criminale (diventandone addirittura leader) o se invece rimanerne distaccati.
Ned dovrà privarsi di ogni forma, etichetta, vestito imposto e condizionato. Dovrà rimanere nudo, con il suo corpo tremante, come un albero spoglio in una terra desolata. Dovrà scrivere la SUA storia, con le sue mani, con il suo corpo. E dovrà inciderla indelebilmente sulla pietra, sul metallo. Così che un figlio possa sempre leggere. E sapere. La vera storia. La sua storia.
SYNONYMS (di Nadav Lapid)
Onde
A programma presentato, veniva da chiedersi per quale motivo il vincitore dell’Orso d’oro all’ultima Berlinale si trovasse, con il rischio potenziale di rimanere nell’ombra, in una sezione così tanto singolare e sperimentale qual è “Onde”, piuttosto che nelle ben più considerate sezioni maggiori. A visione conclusa, è facile rispondere al quesito iniziale. Perché Synonyms è infatti un’opera multiforme, stralunata, schizoide, spesso forse anche delirante e per questo di difficile catalogazione. Riprendendo una buona dose di ironia nordica (da Ostlund a Kaurismaki), gioca (e diverte) su un piano intellettuale e teorico che tanto ama astrarre la vicenda da cui prende avvio (risultando, per questo, a tratti pretenziosa e fin troppo prolissa). Yoav (un travolgente Tom Mercier) è un giovane israeliano giunto da poco a Parigi che vuole diventare (ed essere considerato) a tutti gli effetti francese, limitando e distruggendo ogni qualsivoglia legame con la sua terra natia. Ma per essere tale, deve totalmente confondersi (e perdersi) nel luogo in cui è giunto, partendo dalla più semplice forma di comunicazione: la lingua. Diventando il suo assoluto tormento, il linguaggio, ed in particolare la parola, diventano l’ossessione stessa del film. Parole che si ripetono incessantemente (i sinonimi del titolo) in flussi di coscienza, dove la parola perde spesso di significato, per esaltarne il significante puro, che si reitera e si moltiplica fino all’estremo. È la sonorità ciò che conta, la pronuncia, la forma con cui si confeziona una parola. La stessa che permette solitamente di distinguere un madrelingua da uno straniero (per questo motivo, effettiva ossessione di Yoav). La stessa che, capiamo, affascina a prescindere dalla comprensione. È l’armonia del suono, quella che si ricerca nella musica, in un’orchestra. O che nel film accompagna una sessione di tiro al segno, per dare ritmo ad una sequenza di spari. Se Shakespeare sostiene, parlando come la giovane veronese del celebre “Romeo e Giulietta”, che “ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo”, questo discorso non vale linguisticamente per il giovane Yoav. Perché pronunciare la stessa parola in ebraico o in francese significa percepire un odore di guerra piuttosto che un profumo di pace. Per questo motivo il nostro eccentrico protagonista si rifiuta di parlare ebraico. Addirittura quando è in chiamata telefonica con il padre, per farsi capire preferisce usare l’inglese, piuttosto che identificarsi in qualcosa che non sente più come proprio. Il suo passato è ormai lontano, rilegato ad una dimensione evanescente che non ha più neanche caratteri temporali. Gli unici legami con la sua vita passata vengono infatti conservati in racconti pre-parigini che, proprio per questo motivo, appaiono assurdi, paradossali ed eccezionali, così tanto distanti dalla sua nuova, attuale, ma teorica realtà, da essere adatti a divenire quasi solo materia letteraria di finzione.
Yoav non si gira più indietro verso ciò che è ormai stato, ma si limita a guardare davanti, o meglio in basso. Osserva quella piccola porzione di terra che lo circonda ai piedi, che lo costringe a credere, immaginare, sognare un mondo che può solo nominare e descrivere attraverso sinonimi astratti, ma che non può mai vivere davvero. “Israele morirà prima di me” dice. Ma ad un certo punto dovrà alzare lo sguardo. Guardare il cielo, perdendosi all’orizzonte. E capirà forse che quel mondo non è nulla di ciò che credeva. E così inizierà a sgretolarsi. A crollare, pezzo dopo pezzo. Dall’alto. Sulla sua testa. Come se qualcuno avesse sparato. Come in guerra. Come in Israele.
GOD EXISTS, HER NAME IS PETRUNYA (di Teona Strugar Mitevska)
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Ecco che arriva uno dei film più vivi ed energici (almeno per ora) visti a questo 37 TFF.
Ogni anno, nella cittadina di Stip, viene organizzata una cerimonia religiosa durante la quale viene lanciata una croce nel fiume. Chi riesce a raccoglierla, secondo la tradizione, vivrà un anno intero di fortuna e prosperità. Solo che questa apparentemente innocua tradizione prevede che a partecipare siano i soli uomini. Così, quando la corpulenta Petrunya del titolo si getterà in acqua e riuscirà nell’impresa di raccogliere la croce, verranno alla luce una serie di tensioni e conflitti, destinati a sconvolgere per sempre l’equilibrio e la normalità di quell’inizialmente impersonale realtà cittadina macedone. Sì, perché quel mondo e quel contesto, prima del gesto “iconico” di Petrunya, è scandito infatti dalla ripetizione continua di azioni quotidiane, vincolate dogmaticamente a convenzioni imprescindibili. Questa, in effetti, l’idea che sta alla base del concetto di tradizione. Un rispetto anche illogico, irrazionale nei confronti di un evento o di un’azione solo in virtù del passato che lo fonda. È sempre stato fatto così, e allora perché cambiare. E allo stesso modo: non si è mai fatto così, perché bisognerebbe farlo ora. Si crede e ci si affida, senza porsi troppe domande, alla lunga storia che fonda la nostra quotidianità. Questa dimensione irrazionale è proprio quella che è stata sfruttata e potenziata tecnicamente da tanto cinema contemporaneo che, in misura diversa, ha riflettuto sul concetto di tradizione. Da Midsommar a The Witch, a più recente Scales, visto quest’anno a Venezia: il visionario e l’oltre-reale (spesso orrorifico) diventano vie di accesso principali (perché più immediate) per raccontare qualcosa di estremamente irragionevole e spesso inconciliabile. Ma, in questo caso, la regista Teona Strugar Mitevska interpreta variazioni sul tema, ricorrendo ad un’altra sfaccettatura dell’irrazionale: l’ironia, nella sua componente più surreale e contraddittoria, perché tale è l’idea che sta alla base del concetto di tradizione.
La stessa protagonista Petrunya (una Zorica Nusheva che stupisce ad ogni scena) vive, prima della fatidica impresa, un’esistenza piatta, apatica, in cui nulla sembra portarla alla ribalta. È bloccata al limite di una società che impone range di normalità in ogni contesto. Per cui, se non rispetti determinate condizioni, non puoi vivere, lavorare e persino partecipare ad una funzione religiosa.
Petrunya è una trentenne anonima, una delle tante, come quel busto di manichino senza una reale identità che l’accompagna nelle prime scene del film. Fino a quando ci sarà quel tuffo, quell’impresa, quel recupero di una croce riservata ai soli uomini. E nulla sarà lo più stesso. E quel manichino, simbolo del suo anonimato esistenziale, rimarrà lì in acqua, perché Petrunya, a quel punto, sarà considerata. Sarà odiata, insultata, picchiata, ma qualcuno si sarà finalmente accorto forse di lei. L’impresa di Petrunya diventa così emblema di quel dialogo impossibile tra buonsenso e testardaggine, tra ostinazione e ragionevolezza. Ella si pone come intermediario scandaloso nella lotta millenaria tra Chiesa e Stato, tra regola e legge, realtà di potere che hanno spesso escluso tutte le donne dalla partecipazione attiva.
Tutti si chiedono il perché di quel gesto considerato tanto ignobile. E in questa generale ricerca della causa prima, i media provano semplicisticamente a trovare una risposta, una giustificazione, che ricade ovviamente su un significato sociale, di provocazione, come accadeva in Joker, dove le pulsioni personali di Arthur venivano erroneamente considerate come collettive, in un’ottica di classe.
Ma il fatto stesso che tutti cerchino un motivo all’azione di Petrunya rivela la natura iniqua del sistema in cui vivono. Perché in fondo essere liberi significa poter agire senza un perché, per volontà, per impulsività, per sentimento. E così come è sacra quella croce che Petrunya pesca dal fiume, dovrebbero essere sacri tutti i diritti delle donne. Solo che molti, purtroppo, li lasciano giù, immersi nel profondo dell’acqua.
Di questi al festival ho visto solo petrunya, e m'è parso uno dei film più interessanti dell'anno (non solo festivaliero, dato che uscirà a breve nelle sale)...
RispondiEliminaSorpreso dalla mitevska ho guardato 3 degli altri suoi 4 lungometraggi, grazie alla retrospettiva personale dedicatale... è un'autrice decisamente interessante, che porta alla ribalta il cinema d'autore macedone...
Tra l'altro qualche giorno fa il film s'è aggiudicato il premio lux assegnato dal parlamento europeo...
A star is born, maybe...
Vincenzo
Concordo su Petrunya. Prima di aver visto Beanpole (di cui dovrei scriverne nei prossimi giorni) era assolutamente anche tra i miei preferiti.
EliminaSì, diciamo che la buona Teona sta iniziando a farsi conoscere sempre di più tra festival e premi vari(buon e meritato segno).
purtroppo della retrospettiva non ho visto nulla... Spero di riuscire a recuperare ;)
-Riccardo