Gianluca è un amico di lungo corso (anche se mi sembra ci siamo visti una sola volta, al Festival di Torino).
Lettore dai primi tempi del blog già anni e anni fa (5? 6? poi controllo) scrisse alcuni pezzi qua dentro (uno diventò "famoso" perchè il rapper J-Ax lo condivise nella sua pagina).
Lettore dai primi tempi del blog già anni e anni fa (5? 6? poi controllo) scrisse alcuni pezzi qua dentro (uno diventò "famoso" perchè il rapper J-Ax lo condivise nella sua pagina).
Me lo ricordo studente in Puglia, me lo ritrovo professore in Piemonte.
Ha detto di aver amato molto questo film e se poteva quindi scriverci qualche riga (di sicuro di ottimo livello).
Vi lascio a lui.
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Ha detto di aver amato molto questo film e se poteva quindi scriverci qualche riga (di sicuro di ottimo livello).
Vi lascio a lui.
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1892. Joseph, detto Joe, è un
capitano dell’esercito statunitense: a causa del suo lavoro di frontiera, ha
ucciso molti indiani: uomini, donne, bambini; a quanto pare, però, a volte si è
un po’lasciato prendere la mano. Non è stato, nella sua carriera militare che
volge al termine, esattamente un ‘angioletto’.
Eppure.
‘Lei è un brav’uomo, Joe’, gli dice un caporale, suo subordinato,
nel momento in cui devono separarsi.
‘Lei è una brava persona, Joe’, gli ripete la protagonista, Rosalie,
nel finale.
Può un uomo che in passato ha
ucciso tanto (forse troppo), essere o almeno diventare, nel presente, una
persona per bene?
E generalizzando, provando ad
astrarre: c’è sempre un rapporto di continuità, di coerenza, tra quello che
siamo stati in passato e quello che siamo nel presente?
Interrogativi che mi hanno
richiamato, quasi spontaneamente, una bellissima citazione di VladimirJankelevitch:
“L’essere stato appartiene in qualche
modo a un terzo genere radicalmente eterogeneo all’essere come al non-essere”.
Interrogativi, comunque, che
non valgono solo per Joe: Capo Falco Giallo, infatti, è stato un indiano
Cheyenne spietato (‘Non esistono pene
sufficienti per quella gente’, commenta Joe); ma ora è solo un anziano in
fin di vita per via del cancro. Ha passato sette anni in una prigione americana
del New Mexico e vorrebbe ritornare alla sua terra, il Montana, per essere
seppellito lì.
Per scortare lui e alcuni
membri della sua famiglia è incaricato, controvoglia, proprio Joe. ‘Conosce benissimo quei luoghi, parla la sua
lingua’, gli motiva il colonnello.
Gli Ostili del titolo, dunque, in un’ottica eurocentrica, potrebbero
essere gli indiani, che impediscono l’espansione delle colonie statunitensi
(ex-inglesi) verso l’ovest.
Gli Ostili, invece, in una lettura di diritto naturale, potrebbero
essere gli americani, i bianchi, discendenti di quegli inglesi che sono
arrivati nel Nuovo Continente, hanno colonizzato, infettato, cacciato e ucciso
gli abitanti originari di quelle terre, gli indiani.
L’ostilitàsuggerita dal titolo, ancora, potrebbe essere più
estemporanea, di situazione, e risiedere nel rapporto con l’altro, fino a
stagnare addirittura nel rapporto con se stessi, con quello appunto che si è
stati.
“Hostiles”, in ogni caso, provando ad introdurre qualche categoria,
sembra essere un western di redenzione, costantemente attraversato com’è dalle
prospettive e dagli interrogativi accennati finora; il drappello che scorta
l’anziano indiano dal New Mexico al Montana non compie – come spesso nelle
narrazioni di viaggio – solo uno spostamento fisico.
Ma tutto questo accade in un
secondo momento.
Hostiles, infatti, è un western contemporaneo (del
2017) che però inizia come il più classico dei film di frontiera: un campo
lungo, una prateria assolata, una casa tranquilla e qualcuno all’orizzonte
pronto a portarle guai. Sei indiani Comanche (‘i peggiori di tutti’, spiegherà lo stesso Capo Falco Giallo, della
rivale tribù dei Cheyenne) vogliono i cavalli: uccidono padre e tre figli, poi
bruciano anche la casa. Solo la madre Rosalie, scappando, riesce a salvarsi.
Le due linee narrative
iniziano ad interagire quando il drappello guidato da Joe incrocia, per caso,
la casa bruciata di Rosalie. Quando il capitano entra nella struttura
carbonizzata per capire cosa sia successo, trova la donna a vegliare sulle
salme insanguinate dei suoi tre figli: il più piccolo, un neonato, lo tiene
ancora in braccio, freddo. Lei gli dice di fare piano, i suoi figli stanno
dormendo; Joe guarda i suoi uomini, s’intende, glielo ripete: ‘stanno dormendo’. Da qui inizia quello
che il capitano statunitense Joe farà per tutto il film: assecondare una madre
sopravvissuta solo fisicamente, prendersene cura, vegliarla. Una cura discreta,
la sua, e agita forse nell’unico modo possibile: accompagnando il dolore di
Rosalie, con garbo, senza quasi dire una parola, ma standoci accanto, essendo
presente.
Non c’è nome, mi sembra, per
indicare un genitore che abbia perso dei figli: indicibile resta la sua
condizione. Come impronunciabili – perché deboli, mancanti, vuote – restano le
parole di conforto per la donna. E infatti Joe non parla: compie dei gesti
semplici: le dà una coperta pulita, un po’ d’acqua fresca; di notte le cede il
suo posto nella tenda; la ferma quando vuole suicidarsi sul terreno smosso, ancora
fresco, delle sepolture dei figli; veglia su di lei quando si accontenta di
addormentarcisi accanto.
Ho sempre l’impressione che
sia abbastanza semplice prendersi cura delle persone in situazioni
emergenziali, di chi è stato disarcionato, di chi, dopo aver toccato il fondo,
continua suo malgrado a scavare. Ogni gesto, anche il più quotidiano – come una
doccia calda ed asciugamani puliti – sembra una mano dal cielo, il primo
gradino di una lunga e lenta risalita. E così l’ipotesi (a tratti forse sussurrata
dalle dinamiche del film) di un’eventuale relazione futura tra i due – Joe e
Rosalie, grosso modo coetanei, entrambi soli – mi è sembrata improbabile, o
quanto meno forzata. ‘Le storie che
nascono in circostanze eccezionali non durano mai’, sentenziava Sandra
Bullock a Keanu Reeves in un cult degli anni ’90: “Speed”.
Eppure, non una sola volta Joe
ha l’atteggiamento compiaciuto di chi sa di stare compiendo un gesto
caritatevole, di chi gioca e vince facile, facendo lo splendido con una donna
che ha negli occhi solo il buio. Se c’è un modo giusto di presenziare accanto
ad una madre che ha perso tutto, Joe lo incarna.
Come un dovere.
Come una missione.
Come un’occasione.
E’ nella premura silenziosa ma
sostanziale che Joe usa a Rosalie che credo risieda il fortificarsi della tesi
del film: lui può ancora essere una brava persona.
Una premura silenziosa, però,
necessita di una compensazione: degli sguardi eloquenti. Non ci sono, in Hostiles, situazioni che potrebbero
degenerare dopo un whiskey al saloon, o duelli sulla strada principale sotto il
sole di mezzogiorno, niente stalli alla messicana: l’aria tesa è sottratta all’intero
archivio western ed affidata agli occhi solenni di Christian Bale (Joe),
all’abisso pregnante che celano.
Occhi che, verso gli indiani,
odiano, e poi comprendono, poi odiano ancora, e poi si sorprendono.
Occhi che, dalla prima scena
in cui lui compare, scrutano, e riconoscono, e leggono; occhi che non sorridono
mai.
Occhi, ancora, che esitano e
poi annuiscono davanti all’unica vendetta che Rosalie può prendersi; una
vendetta comunque mancante, perché solo simbolica, postuma: i Comanche, gli
stessi che le hanno distrutto la famiglia, si sono scontrati col drappello in
viaggio e sono stati uccisi; Rosalie si avvicina al corpo già esanime di uno di
loro e gli scarica addosso la rivoltella. I proiettili finiscono, ma lei
continua a caricare e a sparare, caricare e sparare, carica e spara. Nel
silenzio sceso sulla pianura dopo la battaglia, riecheggia solo quello: il cane
della carica, il grilletto sordo dello sparo a vuoto.
Non ci sono cartucce a
sufficienza per vendicare un gesto così; non ci sono parole a sufficienza per
consolare una donna così, per nominare una madre così: sembra, sempre, non
esserci un limite, in un dolore così.
Occhi, sempre quelli di Joe,
infine, che piangono.
Si piange davvero tanto in
questo western.
Per l’abbandono coatto di un
caporale ferito.
Per la sepoltura di un
sergente ucciso.
Per l’ordine imposto di
accompagnare gli indiani dal New Mexico al Montana: per Joe, proprio una beffa:
come mettersi, più o meno simbolicamente, al loro servizio. Lo vediamo piangere
e urlare disperato con le mani nella terra, ma sentiamo solo la colonna sonora:
questo scarto audio – video, personalmente, crea sempre un grande contrasto
drammatico. Sottrarre può anche voler dire enfatizzare.
Ma il pianto più insostenibile
non è di Joe: è di Rosalie. La donna deve scavare la fossa per i suoi figli:
inizia a farlo a mani nude, prova a strappare le erbacce; poi passa, malamente,
al badile.
Siamo una società sdoganata:
riceviamo tante, troppe informazioni al giorno, da ogni parte del mondo, e
sembra, mi pare, che non ci sorprenda quasi più niente. È degli ultimi tempi,
credo soprattutto qui in Italia, la tendenza a sdoganare persino l’ignoranza
come identità. Non c’è – non dico vergogna – ma almeno pudore, un cenno di
imbarazzo, un gesto a coprirsi, nell’essere ignoranti: c’è orgoglio. So di non
sapere, e me ne fotto. Anzi, me ne vanto.
Eppure, nonostante questa
sorta di abitudine a tutto, una delle situazioni che continuano a restare
davvero ‘contro-natura’, proprio strutturalmente, logicamente sbagliate, una di
quelle cose che invece sdoganate non lo saranno mai, è l’immagine di un
genitore che sopravvive ai propri figli.
Anche gli artisti lo sanno: la
propria morte aggiunge valore alle opere.
Ed è un’immagine
contro-natura, un’idea resa cinematograficamente con questi cinque uomini,
questi cinque soldati che, in disparte, guardano una donna, una madre scavare
la fossa a quelli a cui avrebbe dovuto rimboccare le coperte. Un soldato si
toglie il cappello; un altro, il più giovane, si gira dall’altra parte: l’urlo
straziato di Rosalie sembra davvero non finire mai. “Mi prometta che, quando morirò, mi seppellirà in questo campo”,
chiede la donna a Joe. Come a dire: la mia anima muore qui.
Tra case bruciate, uomini
uccisi, morti suicidi, indiani impiccati, donne stuprate, figli orfani,
sepolture non concesse, pare proprio non esserci scampo in questo western.
Eppure, ogni tanto, qua e là,
c’è umanità; è centellinata, è nascosta come la bocca silenziosa di Christian
Bale sotto i suoi bei grossi baffi ottocenteschi, ma c’è.
È Joe che toglie le catene
agli indiani che scorta, dopo che questi hanno aiutato gli statunitensi durante
l’attacco subito dai Comanche.
È Rosalie che accetta una
coperta da una donna indiana, nonostante i suoi tratti somatici – così
distintivi di un popolo – sono inesorabilmente un tutt’uno con la carneficina
della sua famiglia.
È un sergente americano,
fradicio d’una pioggia battente, che chiede pietà al capo Cheyenne, perché “il modo in cui hanno trattato i nativi non
può essere perdonato”. Suonano come le scuse di un popolo intero, più che
come le parole di un solo uomo.
Piccoli segni di un’ostilità,
quella del titolo, che si fa via via liquida: parte mantenendo intatto il
ricordo (che è peso, fardello, zavorra) dei ruoli nella Storia – coloni
ex-inglesi da una parte, nativi americani dall’altra – ma pian piano, complici
la vicinanza, la conoscenza reciproca, la gentilezza, la malattia (che è
conoscenza potenziata, propria e altrui) sembra dimenticarsene; sembra, almeno,
ammettere che l’interazione umana è più complessa, più imprevedibile, delle
schematizzazioni, delle semplificazioni storiche. Un’ostilità, dunque, che si
scioglie, si distende, come il volto di Joe nell’unico sorriso che rivolge in
tutto il film: al figlioletto degli indiani, con la sua bella faccia pulita da
bambino indiano, le sue trecce nere ordinate, i suoi piccoli occhi lucenti al
chiarore del fuoco da bivacco.
Non è la prima volta,
naturalmente, che un film di frontiera metta in scena i conti che gli
statunitensi fanno con l’ingiustizia congenita del loro passato, ma il fatto
che Hostiles risulti un western
atipico (o almeno, a me è parso così) denota che, di solito, il genere cavalca
verso altri orizzonti.
Gli attori, e i loro
personaggi, poi, sembrano suggerire rimandi o possibilità combinatorie da
patiti cinefili.
Stephen Lang, il colonnello
che ordina il drappello, svolge un ruolo di comando simile (sarà l’espressione
cagnesca) in “Avatar”, versione
contemporanea, fantasy, immaginifica, ma pur sempre fedelissima, di “Pocahontas”, archetipo di ogni
narrazione di frontiera. Q’oriankaKilcher, una donna indiana nel drappello, è
la stessa che in “The New World – Il
Nuovo Mondo” personifica il ruolo, appunto, di Pocahontas. Accanto a lei,
nel film di Terrence Malick, nei panni di John Rolfe c’è Christian Bale,
colonna portante, filo rosso, filo conduttore – qualunque locuzione vi venga in
mente per descrivere la bravura, la profondità, la credibilità versatile di
questo attore – di Hostiles. Bale,
comunque, non è alla sua prima esperienza con la pelle bruciata dal sole
dell’ovest: anche in “Quel treno per Yuma”,
infatti, come nel nostro film (per una breve sottotrama), si oppone allo stesso
spietato attore biondino: Ben Foster.
Ma Avatar, Il Nuovo Mondo, Geronimo, L’ultimo dei Mohicani, L’ultimo
pellerossa, Un milione di modi per
morire nel West, e, naturalmente, il Nostro, hanno un bellissimo
denominatore comune: Wes Studi. La sua segnata faccia da indiano sembra sempre
farsi rappresentanza dell’intero popolo nativo.
Hostiles non solo inizia, ma ci finisce anche nella
miglior tradizione dei film western: con una scena alla stazione, con
quell’idea di ineluttabile progresso che, nell’‘800, comunicavano una ferrovia
ed un treno in partenza; Rosalie ed il bel bambino indiano stanno per prenderlo
(sono sopravvissuti e lei, in una sorta di contrappasso, sì, ma paradisiaco,
l’ha adottato): Joe li saluta, si allontana e poi – in uno dei finali più
cinematografici degli ultimi anni, al rallenty, con una colonna sonora solenne
– torna indietro e decide di salirci anche lui su quel treno. Ha una promessa da
mantenere: restituire Rosalie, quando sarà morta, alla terra dei suoi figli e,
nel frattempo, da viva, prendersi cura di lei, vegliarla ancora, amarla.
Mi è piaciuto tantissimo. Sono un amante del western e restando a questo genere per me Hostiles è una delle migliori pellicole degli ultimi anni.
RispondiEliminaConcordo.
EliminaAnche se, forse, proprio l'appartenenza al Western (un genere che, di solito, o si apprezza o non si sopporta) lo ha condannato un po' a passare in sordina.
Un sontuoso Christian Bale soprattutto. "La scena con Rosamunde Pike che continua a sparare al Comanche che le ha trucidato la famiglia, anche quando la pistola è scarica.. comunica un pazzesco senso di vuoto e compassione, quel continuare a premere il grilletto è il riflesso di una rabbia inconsulta, cieca, disperata. Un frammento di estremo coinvolgimento emotivo, con una Pike dallo spessore elevatissimo" (cito dalla mia rece su FilmTv - Lampur)
RispondiEliminaQuella scena, straziante, è difficile da farsela scivolare.
Elimina"Compassione", hai detto bene: è strano, considerato il gesto che sta compiendo, ma è proprio così.
L'aspetto che apprezzo maggiormente di Bale è che, nonostante la sua notorietà e dunque automatica identificazione con alcuni ruoli/personaggi, riesca a risultare credibile sempre.
Piaciuto tanto anche me, ne scrissi due anni fa quando ovviamente lo vidi, un western atipico ma sempre grande western/cinema ;)
RispondiEliminaWestern atipico, ma grande: assolutamente d'accordo.
EliminaQuesto blog lo seguo da un... 3 annetti buoni ma non mi espongo mai, nemmeno nella pagina FB. Non so recensire, non so analizzare i film in maniera "profonda" sviscerandoli per bene per meglio esporre ciò che mi danno.
RispondiEliminaLeggo con piacere queste recensioni, e questo film (benchè sia amante dei western ma tant'è, questo film potrebbe benissimo essere piazzato in altra epoca) mi ha davvero commosso, emozionato e lasciato qualcosa. Lo vidi solo ieri sera per la prima volta. E niente, complimenti per ciò che hai scritto.
ci tengo a dire che questa recensione (non so se te ne sei accorto) non l'ho scritta io (l'autore del blog) ma un amico, è un pezzo esterno ;9
Eliminaquindi rimandiamo a lui i complimenti (sperando che legga)