Tra Fabi, De Andrè e Almost Famous un invito al non accontentarsi, al ricercare sempre qualcosa di nuovo e al seguire le proprie inclinazioni e passioni, anche a scapito di tutto il resto.
Al guardare oltre.
Di Gianluca Memoli
Elogio della ricerca personale
“Raro è
trovare una cosa speciale
nelle
vetrine di una strada centrale
Per ogni
cosa c’è un posto
ma quello
della meraviglia
è solo un
po’ più nascosto
Il tesoro è
alla fine dell’arcobaleno
che trovarlo
vicino nel proprio letto
piace molto
di meno”
Questo
elogio del non accontentarsi, del non ‘sedersi’, dell’approfondire e
dell’approfondirsi, del ricercare, appartiene al cantautore Niccolò Fabi; in
particolare, ad una sua canzone del 2003, “Il negozio di antiquariato”.
Sono passati dodici anni dalla sua pubblicazione e, se considerassi la velocità di fondo a
cui procediamo, certamente dovrei classificarla come vecchia; di quelle
canzoni, insomma, che le radio non passano più. Ma, liberandomi dalla logica
attuale per cui il ‘Nuovo’ deve coincidere necessariamente col ‘recente’, credo
che questo pezzo continui a ricordare, ancora oggi, una destabilizzante novità:
la ricerca personale, in ogni sua declinazione.
E credo lo
ricordi innanzitutto con la sua esistenza: il solo fatto di essere stata
composta, una canzone del genere, è già un tributo, appunto, alla ricerca (in
questo caso, artistica). Un segno evidente del suo essere in circolo.
La
profondità del pensiero[1], lo stupore e la veridicità delle immagini,
l’efficacia dell’allegoria dei primi due ritornelli e della variazione finale,
e poi ancora la raffinatezza dei suoni e la delicatezza della voce,
restituiscono la portata del suo autore (di uno, cioè, che quando afferma di “dannarsi
per un aggettivo e per un colpo di rullante”[2], puoi star certo che dice la verità). La cui
scoperta, la cui conoscenza non possono che essere il risultato di una ricerca
personale (declinata in campo musicale) particolarmente attenta.
Niccolò
Fabi, infatti, rappresenta uno spiacevole caso di nicchia nella nicchia.
Fabrizio De
Andrè, ad esempio, è certamente un artista d’élite; ma negli ambienti colti il
suo nome, in un modo o nell’altro, vien fuori sempre. Negli ultimi anni, anzi,
sento ripetere spesso che “De Andrè andrebbe insegnato a scuola” (e si
sa: una volta entrato nell’ambiente scolastico, significa di solito che un
autore è stato in parte canonizzato[3]).
Niccolò
Fabi, invece, è di nicchia non solo fra la massa, ma anche negli ambienti
genericamente elitari. Il cantautore romano, insomma, “non è di tanti
né pochi, ma solo di alcuni”[4].
Ora, non sto
paragonando Fabi a De Andrè – sia perché il mio non è un discorso di critica
musicale, sia perché credo che, da un certo livello in poi, non si debba più
parlare di maggiore o minore grandezza, ma più correttamente di grandezza
diversa -, sto più propriamente affermando che la sottovalutazione di Niccolò è
davvero limitante per il progresso della contemporaneità italiana: perché la sua
sensibilità, la sua acutezza[5], la sua spietatezza[6], sono rare e sacre[7]. Motivo per cui sarei felice se una diffusa ricerca
personale – orientata nella sua direzione – portasse, un giorno lontano, a
sentir dire che “Anche Niccolò Fabi andrebbe insegnato a scuola”.
La ricerca,
quindi, sintesi di curiosità, volontà, pazienza e confronto, è una pratica
feconda: ti restituisce in termini di qualità ciò che le hai dedicato in
termini di tempo e di energie. E questa può ancora rappresentare una certa idea
di Nuovo nella misura in cui, oggi, vince la tendenza a fruire facilmente,
piuttosto che ad approfondire faticosamente, a lasciarsi scegliere, piuttosto
che a scegliere.
Potrei
pensare, ad esempio, con sprezzo snobistico, che gran parte del cinema
americano sia ciarpame. Ma sì: la vecchia regola delle tre esse – sesso, sangue
e soldi – e il film è pronto. Potrei, cioè, lasciarmi scegliere da quella
massiccia distribuzione cinematografica che, onnipervasiva, praticamente impone
la visione di prodotti, di solito banali, nati per fare grandi incassi (“Un
film di Hollywood oggi arriva a costare tranquillamente 150 milioni di dollari
[…]: essendo in gioco cifre di questo genere conta la pianificazione, il
lancio, soprattutto la ricerca a priori di un pubblico.”[8]). Sarebbe come se un americano si lasciasse
convincere che, qui in Italia, si realizzano solo fiction con attori-cani e
film tipo Natale qualcosa.
Oppure,
ancora, potrei lasciarmi scegliere dall’inesorabile trascorrere del tempo: che
porta, inevitabilmente, tutti i film a datarsi e quasi a scomparire dai media
di massa.
Una paziente
ricerca personale, al contrario, mi ha fruttato la scoperta di pellicole
americane, sì, ma meravigliose (o, per lo meno, che io considero tali secondo
certi parametri). E poco importa se per trovarne una del genere, ho dovuto
vederne quattro o cinque ‘medie’ (sempre secondo quei parametri): perché una
volta scovate, certe pellicole, mi sono parse delle folgorazioni. Rendermi
conto che un film americano, realizzato appunto a migliaia di chilometri dalla
mia città e spesso decine di anni prima del mio presente, abbia descritto con
precisione un’idea particolare a cui tenevo profondamente e che coltivavo io,
nel mio tempo, nella mia realtà così distante da quella terra, mi sembra, ogni
volta di più, una manifestazione della verità. E questo difficilmente accade
con i film mainstream: perché, dovendo soddisfare il maggior numero possibile
di spettatori, non possono sperimentare, non possono azzardare, non possono
curiosare; quindi si accontentano di raccontare la superficialità, la banalità,
la mediocrità (spacciandole demagogicamente per semplicità).
Fra i vari
film che credo andrebbero rivisitati e che vorrei condividere, scelgo “Almost
famous” di Cameron Crowe (anno d’uscita: 2000). Per due motivi: sia perché
‘celebra l’amore per la musica’[9], sia perché, in una sequenza, esprime il modo in cui
questo concetto della ricerca personale, dello stimolo a migliorarsi, andrebbe
presentato.
Siamo nel
1973 e William Miller, quindicenne con la passione per il giornalismo musicale,
incontra Lester Bangs, considerato il critico-rock più influente del momento. I
due si parlano, Lester si complimenta con William per degli articoli che gli ha
spedito, ma poi lo ammonisce sulla figura del giornalista-rock: “Una volta
che andrai a Los Angeles avrai una barca di amici, ma saranno tutti falsi
amici: cercheranno tutti di corromperti; con quel tuo faccino onesto quelli lì
ti diranno qualsiasi cosa, ma non si può diventare amici delle rockstar…guarda
che sarà una brutta storia: ti offriranno da bere, incontrerai delle ragazze,
volerai gratis con loro da un posto all’altro, ti offriranno la droga: lo so
che sembra una svolta, ma non saranno mai tuoi amici, cioè quelli vogliono che
tu ti segni dei santini sul grande genio delle rockstar, ma in realtà
rovineranno il rock’n’roll e soffocheranno tutto quello che amiamo del rock…e
poi diventerà solo l’industria del più fico. Cioè, davvero, ti giuro: sei
arrivato in un momento pericoloso per il rock’n’roll”.
Lester
comunque commissiona un articolo al ragazzino; da cosa nasce cosa, e la
prestigiosa rivista “Rolling Stones” ingaggia William per seguire una
band in tournèe. E qui, pian piano, le previsioni di Lester iniziano ad
avverarsi. Il rock, insomma, sembra effettivamente aver perso l’autenticità
delle origini.
William ha
solo quindici anni e sua madre, assillandolo di telefonate durante la tournèe,
capisce che l’ambiente ‘allegro’ che sta frequentando suo figlio non è genuino
(sesso, droga e rock’n’roll, insomma, non fanno per lui). Un giorno, durante
una telefonata, la mamma riesce a parlare con Russell, uno dei componenti del
gruppo. Uno di quelli che stanno deviando il piccolo William. Russell, con voce
spocchiosa e canzonatoria, le dice che ormai suo figlio è schiavo del gruppo e
che non può farci niente; e lei, decisa, gli risponde: “Stammi a sentire
giovanotto: guarda che con me non attacca, ti ho già capito. Lo so, è chiaro
che ti piace William: lui stravede per voi e la cosa vi sta bene finché vi
aiuta ad arricchire. E’ un ragazzo di cuore e dotato, ha quindici anni e ha un
potenziale infinito. Non stai parlando con la solita mammina in grembiule:
conosco a memoria il vostro decadentismo: non dovevo lasciarlo venire, non è
pronto per il vostro mondo di valori compromessi e spreco di cellule cerebrali
che voi gettate via…se annienti la sua vitalità, se lo ferisci in qualsiasi
modo, conoscerai dal vivo la voce che ti sta parlando, e non sarà un’esperienza
piacevole. Non volevo fare questa parte, ma la reciterò.”; poi cambia tono,
la sua voce diventa pacata e sinceramente premurosa: “Ora fai del tuo
meglio, sii audace e la potenza correrà in tuo aiuto: l’ha detto Goethe; non è
tardi: puoi ancora diventare una persona di un certo spessore, Russell.”.
Dall’altra
parte della cornetta, il musicista riesce solo ad annuire. E’ ammutolito. In un
paio di frasi, le ultime, questa signora, questa mamma di famiglia – che pare
essere l’ultima persona a cui Russell, carismatica rockstar in ascesa, darebbe
ascolto – è riuscita a smontargli il suo mondo adrenalinico ma vuoto (fatto
solo di donne e di urla adoranti delle platee), per ricordargli di guardare
oltre quegli abbagli, di non auto-limitarsi, di rischiare. E, soprattutto,
riesce a farlo senza ricatti, economici o morali, né costrizioni: bensì,
maternamente, esortando il ragazzo alla ricerca di gesti importanti in sé (quel
‘Puoi ancora diventare una persona di un certo spessore’ è micidiale),
al di là del riconoscimento altrui, al di là dell’ammaliante applauso del
mondo.
E, nella
scena successiva del film, un Russell stralunato che confessa a William: “Tua
madre mi ha spiazzato di brutto”, pare aver recepito il consiglio.
La ricerca
personale, ovviamente, richiede un minimo di sacrificio. In sintesi,
riprendendo l’allegoria della canzone di Niccolò Fabi, ‘non si può entrare
in un negozio e poi lamentarsi che tutto abbia un prezzo’. Ed è pensando a
quest’idea che ho ritrovato, non solo perdonata, ma del tutto riscattata, una
persona a cui tengo molto. Qualche tempo fa, infatti, mi ha spiegato che deve
il suo ritardo negli studi universitari, il suo ‘minimo di sacrificio’ appunto,
alla ricerca personale. In particolare, a quella in campo musicale. Lei investe
tempo ed energie nella scoperta e nell’ascolto di cantanti e di gruppi musicali
giovani ed innovativi (oltre che nell’ascolto e nell’approfondimento di quelli
più maturi e più noti). E per spiegarmi questo concetto, per sintetizzare in un
termine tutti i benefici esistenziali che trae da questa sua passione, ha
detto: “E’ alla ricerca della Bellezza che io devo il mio ritardo”.
Ecco: l’ho
ritrovata riscattata, questa persona, perché è riuscita a nominare – cioè a
concretizzare – una categoria, quella della Bellezza, conosciuta (magari anche
solo nominalmente) soprattutto da chi ha a che fare con l’arte; e non da chi,
come lei, professionalmente si occupa di tutt’altro. E tutta la veridicità di
questo discorso – cioè tutta la potenza di una spontanea curiosità – la ritrovo
intatta ogni volta che, parlando con i miei amici della facoltà di Lettere, mi
accorgo che molti di loro questo concetto non lo conoscono proprio (l’ultima
volta, ad esempio, un ragazzo pensava che, mentre elogiavo la Bellezza, io mi
stessi riferendo alla bellezza estetica standardizzata e mi ha risposto: “Ma
guarda che invece quel tipo di bellezza andrebbe eliminato”). Il che, da un
lato, è grave per gli studenti di Lettere, dato che gran parte degli scrittori
è ossessionata proprio dalla ricerca della Bellezza; ma, dall’altro, è
gratificante, è appunto riscattante, per la persona di prima perché le dà –
oltre al piacere in sé della scoperta – la soddisfazione di aver individuato da
sola una categoria, un concetto, che altri conoscono (o dovrebbero conoscere)
tramite studi specifici.
Insomma, la
ricerca è, davvero e sempre, meritocratica.
E questo, in
un paese come il nostro – invecchiato con e da nepotismi e favoritismi -, è
Nuovissimo.
“Ascolta
‘Tommy’ con una candela accesa
e vedrai
davanti a te il […] futuro”
“Il
negozio di antiquariato” – Niccolò Fabi (http://www.youtube.com/watch?v=r5yRXiIX8IA)
[1] Mi riferisco, ovviamente, al testo intero.
[2] Dal suo blog ufficiale (http://www.niccolofabi.it/category/blog/)
[3] Parlo del canone letterario, o più genericamente
culturale, creato, appunto, dalle istituzioni educative, oltre che dai critici,
dal pubblico, dalla politica culturale dei governi e delle case editrici; “in
esso – citando il critico Luperini – si esprimono la soggettività della
ricezione storica, il gusto, la cultura di una società, che sceglie i propri
classici e la propria tradizione”.
[4] La citazione è tratta da un altro brano dello stesso
Fabi: “E’ non è”.
[5] Penso, per esempio, alla critica di certo vittimismo
amoroso racchiusa in questo stralcio: “Camminare nella pioggia ti fa sentire
più importante, perché stare male è più nobile per te…ricordati che c’è
differenza tra l’amore e il pianto” (dalla canzone “Lasciarsi un giorno
a Roma”).
[6] Un concetto per tutti: “Una donna per sempre
esalta l’amore, ma è un lusso e mortifica i sensi” (dal brano “Oriente”).
[7] Mi riferisco, in generale, alla sua discografia; in
particolare, a canzoni personalmente necessarie come “Senza rabbia”, “Lasciarsi
un giorno a Roma”, “Il mio stato”, “Sembravi”, “Scherzo”,
“Lunedì”, “E’ non è”, “Mimosa”, “Offeso”, “Essere
speciale”, “Senza prudenza”, “Quello che volevo”, “Costruire”,
“Evaporare”, “Rapporti”, “Solo un uomo”, “La promessa”,
“Parole che fanno bene”.
[8] Geoffrey Gilmore (dal 2009 a capo della Tribeca
Enterprise, organizzatrice del Tribeca Film Festival: “un luogo ideale –
a detta dello stesso Gilmore – per la scoperta dei film dei giovani”)
[9] A detta delle stesso regista.
Cercare la bellezza è una cosa pericolosa. Le parole arrivano prima, e circoscrivono qualcosa che non ha confini precisi; l'equivocità del linguaggio.. Si rischia di dare una definizione, e poi cercare qualcosa che le si adatti.
RispondiEliminaÈ una cosa prettamente personale che obbliga a farsi il culo e mettersi in gioco? Vero.
Ti farà del bene? Uff, difficile rispondere, potrebbe finire per renderti più cinico o semplicemente meno disposto a scendere a compromessi. Potrebbe renderti meno aperto a ciò che ce la mette tutta, ma non raggiunge quello che vorrebbe. Potrebbe farti diventare uno che cerca apostoli, che vuole che anche gli altri riconoscano quello che ha trovato. (Non "conoscano", ma "Riconoscano") Potrebbe renderti ostile a chi non vede quello che per te è così importante, e lo svilisce, magari involontariamente, con paragoni campati in aria, o indifferenza e noncuranza.
Sforzarsi di apprezzare qualcosa perchè ci sembra la cosa giusta non è mai una buona strada, sforzarsi di migliorarsi per poter arrivare a capire se la si apprezza realmente o meno, è una strada migliore; ma certamente non sarà facile distinguere le due cose.
Potrebbe anche non valer la pena dell'impegno che ti richiede. (Spesso a causa tua, non sua)
L'umiltà di rendersi conto di non poter essere in grado di capire la bellezza in alcune sue forme, la fermezza e coscienza di non farsi infinocchiare da ogni sparata in suo nome. Con la coscienza che non esistono solo le due opzioni che ho appena detto, che ci si può benissimo sbagliare, ma, in buona fede, sarà così importante? La consapevolezza che a volte la bellezza sarà menzogna e verità al tempo stesso, senza diventare un controsenso.
Rendersi conto soprattutto che non ti renderà migliore.
Non puoi usarla per costruire quello che vorresti essere, al massimo per scoprirlo.
Che commento Edo...
EliminaChristopher McCandless prima di morire scrisse un appunto in uno dei libri che aveva dentro il camper:
"Happiness only real when shared"
"La felicità è autentica solo se condivisa"
Ci sarebbe da discutere tanto su questa frase, che un pò cozza anche con tutti i suoi ultimi anni di vita, sa quasi di fallimento e presa di coscienza di un percorso che forse aveva sbagliato.
Ma, a parte questo, leggendoti è come se avessi percepito:
"Beauty only real when shared"
e, insomma, tu hai ragione, ma spero non sia così
Però Edo...che commentone. Ho dovuto rileggerlo due o tre volte per esser certo di averlo compreso.
EliminaBellissima la precisazione: <>.
Però su una cosa posso risponderti con relativa certezza, e cioè il discorso del linguaggio: nel senso che, almeno nel mio caso, prima arriva qualcosa di bello e solo dopo lo definisco. Quando, cioè, io 'sento' qualcosa di così intensamente ed estremamente meraviglioso, che quasi non c'è modo di definirlo precisamente (a meno che non ci si accontenti di svilirlo) , ecco, allora - e non capita spesso - parlo di Bellezza.
Gianluca- Questa risposta su cosa trovi prima mi fa piacere, pure io ci provo. :)
EliminaCaden- "Beauty is only real when shared" è il rischio in cui si cade, non l'obiettivo.
(senza negare assolutamente il piacere della condivisione neh!)
Sì sì, ti eri spiegato perfettamente ;)
EliminaIo meno
Ma insomma, volevo dire, speriamo che non sia così, che non ci sia bisogno di conferme e adepti anche in questo.
Altrimenti davvero, il mondo e facebook non avrebbero più differenze