26.8.16

Recensione "El Abrazo de la serpiente"



Un film necessario.
In un bianco e nero di una bellezza stordente ci troviamo davanti ad un film che racconta di un viaggio, anzi, di tanti viaggi.
Un on the river alla velocità di canoa.
Attraverso giungle assassine, missioni cattoliche, piante miracolose, tribù che non sono più e sogni da decifrare il viaggio di uno sciamano e di due scienziati verso la conoscenza di sè e del mondo di fuori, verso l'origine di tutto, verso la finale integrazione di due popoli, verso il segreto della creazione.

E poi vai in sala e ti trovi film così.
Ti ritrovi in un bianco e nero di devastante fascino che copre, anzi, che osa coprire, una delle parti di mondo più belle e colorate, l'Amazzonia.
L'Amazzonia delle centinaia totalità di verde (in tal senso ricordo un bellissimo concetto espresso nella serie Fargo, ma questa è un'altra storia), dei mille colori dell'acqua e degli animali che la vivono, delle tribù variopinte e policrome.
E ti ritrovi un movie on the river, che va alla stessa velocità di una canoa.
Un film che apparentemente parla di un viaggio, anzi, di due viaggi, ma che forse, in realtà, racconta del Viaggio, di un percorso molto più alto ed importante.

Fino al termine della notte, avrebbe detto un pazzo scrittore francese.
Fino al significato di sè, fino all'origine di sè, fino, forse, all'origine del tutto.


Siamo nel 1909 e siamo nel 1940.
Due scienziati (esistiti realmente, tutto il film si basa su documenti reali, come ci informano nei titoli), uno tedesco ad inizio secolo, uno americano a metà dello stesso, raggiungono la riva in cui vive Karamakate, uno sciamano solitario e, almeno secondo lui, ultimo sopravvissuto della propria tribù.
Il primo scienziato, quello tedesco, arriva insieme al suo sherpa dei fiumi, un nativo "occidentalizzato". Sta malissimo, ha bisogno di Karamakate per essere guarito. Lo sciamano odia i bianchi, non si fida di loro ma saputo dallo scienziato (Theo) che la sua tribù esiste ancora, accetta di guarirlo in cambio dell'esser portato da essi.
Trentun anni dopo è invece l'americano Richard, un botanico credo, a raggiungere Karamakate. Vuole che lo aiuti a trovare la Yakruna, una pianta ai confini del mito capace di guarire miracolosamente  (del resto è la stessa pianta che doveva guarire definitivamente Theo) ma, forse, capace anche di qualcos'altro.
Un film in montaggio parallelo quindi, un montaggio armonico, lentissimo negli incastri (solo una volta, in quella bellissima sequenza del guardarsi da riva a riva c'è una metaforica unione tra le due vicende), legato dagli stessi luoghi e, a volte, dagli stessi personaggi (Karamakate ma non solo, ad esempio gli ex bambini gesuiti diventati poi 31 anni dopo adepti di un pazzo messia).
Entrambi i viaggi, in qualche modo, devono portare alla Yakruna, e che questa in un caso sia simbolo di salvezza e in un altro di conoscenza poco cambia, quella pianta diventa metafora se ce n'è una di una meta, di una fine del percorso.

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El Abrazo, tra le altre cose, più che dello "scontro" e diversità tra culture parla del difficile tentativo di integrazione tra esse. Gli scienziati di certo non rappresentano un occidente "viziato", comodo ed agiato (sono studiosi che hanno imparato lingue, usi e privazioni del luogo, che rischiano la propria vita giornalmente, che affrontano la giungla anche da soli) ma agli occhi di Karamakate poco cambia.
Ogni cosa in più oltre al proprio nudo corpo e al proprio pensiero è un fardello, un eccesso, un qualcosa da eliminare.
"Voi occidentali siete legati agli oggetti, a cosa vi servono?" dice lo sciamano ad un certo punto. Anche i ricordi di una terra lontana, anche una mappa, anche pochi effetti personali, anche i diari di anni di studio diventano un qualcosa da lasciare dietro di sè.
Ma Karamakate è una persona profondamente intelligente. Non solo per la conoscenza che possiede, non solo per le doti divinatorie e guaritrici che sembra avere, ma anche perchè è un uomo che sa capire, che sa perdonare, che può cambiare idea (e, attenzione, il concetto di sradicamento delle proprie convinzioni in certi popoli è ancora più difficile da attuare).
La scena, bellissima, in cui Theo e Manduca cantano insieme e portano, lentamente, lo sciamano al sorriso, è manifesto straordinario di questa fiducia, questa empatia che piano piano sta arrivando.
Allora i bianchi possono anche essere onesti, allora i bianchi possono anche integrarsi con noi, allora i bianchi possono anche essere "come noi" avrà pensato Karamakate durante quel sorriso.
E infatti lo sciamano si sblocca, abbandona gran parte delle proprie corazze e diffidenze (che bella la scena del remare sbagliato o della lettera d'amore), sa diventare parte di un gruppo.
Ma per ben due volte, sia nel 1909 che nel 1940, capirà che alla fine l'uomo bianco può sempre essere traditore. Che alla fine le sovrastrutture occidentali, quelle del fine giustifica mezzi, quelle della violenza, quelle dell'inganno sono impalcature difficile da buttare giù del tutto.

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Non parliamo poi dell'uomo bianco religioso.
Nelle due straordinarie sezioni della missione cattolica (presente in entrambe le temporalità) lo sciamano, e noi con lui, avremo a che fare con una figura dell'uomo occidentale di assoluta negatività, di un messaggio di Cristo che prima attraverso il dogmatismo, poi attraverso la pazzia, distrugge e plagia un intero popolo.
Quei bambini cresciuti in un violento insegnamento dei precetti cristiani diventeranno 30 anni dopo delle specie di frati adepti a un delirante messia. Impossibile non richiamare Apocalypse Now, siamo quasi alla mimesi in alcune scene.
Poche volte come in questo caso il famoso adagio "la religione è l'oppio dei popoli" è stata meglio rappresentata. Ed è così sentito e convinto il collettivo delirare che arriveremo ad un finale di sequenza pazzesco (a me ha richiamato la fine di Profumo).
Ma queste sono solo le evidenze.
Perchè in realtà Abrazo sembra raccontare di qualcosa di molto più trascendentale.
Tutti i personaggi sembrano in cerca di qualcosa di molto più grande di quello che appare.
Lo stesso Karamakate non si limita ad essere soltanto accompagnatore, cicerone, disvelatore, ma lui stesso, specie attraverso la vicenda più recente, sembra andare in cerca di qualcosa.
Ed è questa la parte più affascinante di un film che ti tiene incollato a sè per tutta la sua durata.
Tutto si mischia. La ricerca della Yakruna, le usanze del luogo, le credenze popolari, il sogno e la realtà, la ricerca dentro e fuori di sè.
L'uomo, secondo lo sciamano, non ha bisogno di nulla, nè degli oggetti, nè delle mappe nè dell'apparentemente vitale bussola.
Anzi, l'uomo che ha perso la bussola, letteralmente e non, sembra essere l'unico capace di raggiungere la propria meta.
Bisogna saper pensare, bisogna saper vedere, bisogna saper interpretare (specie i sogni), bisogna saper ascoltare (meraviglioso come l'unica cosa che rimanga al botanico sia il giradischi in questo senso. La musica, ecco, la musica è qualcosa che trascende la corporalità, il mero possesso, è la voce degli uomini e dell'Uomo, va tenuta con sè).


E straordinario è il concetto di Chullachaqui, del guscio vuoto, dell'immagine di sè priva di qualsiasi spessore.
In un'epoca come la nostra di social network galoppanti ed apparire debordante, in un'epoca come nessuna piena di miliardi di Chullachaqui, vedere Karamakate accarezzare quella foto regala un brivido.
Ma anche lui, come gli scienziati, ha bisogno di "pienarsi", tornare un uomo intero e non parzialmente scremato. Lui lo deve fare attraverso il ricordo. E il ricordare va di pare passo col viaggiare insieme a questo nuovo bianco. Che non sia lo stesso di 30 anni prima poco cambia, per lo sciamano è lo stesso.
Non a caso, in un dialogo da brividi, Karamakate dice al botanico quanto da tempo, 1 anno, 40 anni, 1 milione di anni, lui avesse aspettato il suo ritorno. E questo ritorno sembra tanto essere quello dell'altra cultura. Solo adesso lo sciamano capisce quanto il suo sapere, la sua conoscenza, fosse qualcosa da donare all'Altro, non ai suoi simili.
Meraviglioso.
Le due vicende arrivano alle rispettive mete.
Ad inizio secolo un indio ritrova finalmente la sua tribù.
Ma non è più la sua tribù.
E anche la Yakruna è diventata una banale pianta da coltivare, non un regalo degli Dei da trovare e preservare.
Sarà fuoco, bellissimo.
Anni dopo, invece, la Yakruna, in una location da sentirsi male dalla bellezza, sarà ritrovata in cima ad una montagna.
Un solo fiore, l'ultimo esemplare.
Quel fiore è mille cose, ma è anche l'ultimo rimasuglio di una conoscenza milionaria che rischia di perdersi per sempre.
L'uomo bianco vorrebbe quel fiore per altri fini.
Ma è lo stesso uomo bianco che ha saputo privarsi di tutto, rimanere nudo, essenziale.
E allora lo sciamano lo rispetta.
E allora anche quel pugnale rimane incerto sulla mano.
Karamakate offre a Richard la conoscenza del mondo, la conoscenza del'origine, la conoscenza del tutto.
E noi planiamo sopra l'Amazzonia in cerca di questa origine.
La troveremo, in colori psichedelici.
Poi, con la pelle disegnata come un giaguaro, un giaguaro che ha saputo resistere all'abbraccio del serpente, si rimane soli.
Del tutto soli.
Ma quelle farfalle bianche che un tempo volteggiarono intorno ad uno sciamano, adesso, sono qua intorno a noi

10 commenti:

  1. Tu vedi l'abbraccio del serpente come una cosa negativa? Perchè io invece la vedo nettamente positiva, simbolo di incontro e integrazione di culture ed energie.

    Ciao! :)

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    1. No no...
      All'incirca diciamo le stesse cose. Dicevo solo che quell'abbraccio, probabilmente, rappresenta il dono che lo sciamano fa alla nostra cultura. E lui ha saputo resistere a questo abbraccio senza esserne ucciso. Lo stesso sciamano gli dice che vedrà l'anaconda ma non dovrà aver paura, dovrà saper resistere. Per quello ho scritto quella frase

      ciao!

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  2. direi che ci ha coinvolto molto, no?

    https://markx7.blogspot.it/2016/07/el-abrazo-de-la-serpiente-ciro-guerra.html

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    1. Hai fatto benissimo a citare Bechis...

      ricordo che in videoteca ce l'avevo. E gli avevano fatto una locandina così subdola che qualcuno lo noleggiava pensandolo un horror...

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    2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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    3. Beh, ma perchè hai cancellato?

      era perfetto, appena posso me lo vedo!

      (a me arriva comunque la notifica giusta)

      anzi, lo rimetto

      https://www.youtube.com/watch?v=xd0I1xAICOc

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    4. eh! ho cancellato perché in realtà era mia intenzione rispondere ad ismaele che aveva linkato un filmato analogo di herzog e non a te. debbo ancora far pratica

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    5. ma a parte che non potevi fare meglio (nel senso che ormai la catena sotto il commento di ismaele l'avevo iniziata io, non potevi inserire il commento direttamente sotto lui, hai fatto benissimo così), dicevo a parte questo tutti rispondiamo a tutti

      e se proprio vuoi essere specifico scrivi "per ismaele" e festa finita ;)

      comunque lo sto vedendo tutto, bellissimo

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  3. Recuperata quest'opera grazie al tuo commento. Bhe debbo dire che ho visto quello che mi potevo aspettare: un viaggio e un'esperienza che va oltre il tangibile, oltre le culture, la natura, l'anima.

    Come dice Ismaele più su anche a me ha ricordato "La Terra Degli Uomini Rossi" di Bechis, anche se qui il taglio che gli dà Ciro Guerra è più contemplativo, meditativo, lento, meno commerciale anche se Bechis non lo è affatto.

    Pellicola densa di riflessioni e tematiche importantissime, che tu svisceri monto bene, sicuramente opera che merita anche di essere rivista e rivissuta per quanto necessaria.

    Voto: 8+

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    1. Sì, credo che rispetto al film di Bechis (che non ho visto ma mi è bastato Garage Olimpo per capire che Bechis è un grande autore) questo sia più filosofico e trascendentale.
      E sì, penso anche io che questo sia uno di quei film "esperienza", a prescindere dal valore o dal giudizio

      bene!

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due cose

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