13.9.20

Festival del Cinema di Venezia 2020 - Giornate 7 e 8


Lo so, siamo fuori tempo massimo (ma per parlare di film non lo si è mai). Colpa mia che questi giorni avevo impegni.
E allora beccatevi questi due ultimi post da Venezia, pieni di film, uno oggi e uno domani.
Ah, alcune volte nella sezione di Enrico vedrete due titoli con un + in mezzo.
Ecco, sta a significare che Enrico ha recensito un corto e un film insieme.
Vi lascio a loro


ENRICO G.

The Man who sold his Skin 


Finalmente. Finalmente, dopo quattro giorni a Venezia, provo quel senso di scoperta che solo i Festival ti possono dare. Vai quasi alla rinfusa, specie in un’edizione come questa senza grandi nomi, e vedi tante opere. Alcune sono belle, altre ti deludono. E poi trovi The Man who sold his Skin.
Non parlerò della trama, basti sapere che parla di arte, e di come può cambiare la vita. Da qualche parte tra The Neon Demon e La Grande Bellezza c’è il lavoro di questa incredibile regista tunisina, metaforico ma senza la spocchia di esserlo, estetizzante ma profondo, moderno (ispirato al vero lavoro di un artista contemporaneo) ma discepolo del passato (incorpora grandi lavori della pittura e della musica, come la Tosca), pieno di tristezza e durezza ma mai rassegnato, anzi umoristico, persino simpatico, straordinariamente vitale.
Con il giusto ritmo nella frenesia e nella calma, un montaggio creativo, attori perfetti. Oddio perfetti, c’è pure Monica Bellucci… diciamo che non sfigura, col suo buon inglese e la inedita tinta bionda, in un personaggio antipatico ma non senza umanità. Nessuno ne è privo qui, e l’ho apprezzato in particolare nella figura dell’artista Jeoffrey (magnetica interpretazione). Inizialmente ricorda, anche nella fisionomia, il personaggio di Antonio Banderas in La pelle che abito; ma se lì il proseguo della vicenda rendeva quasi impossibile empatizzare con lui, in The Man si presenta immediatamente come colto Mefistofele, e ti viene pure il dubbio che lo sia. Ma no, è solo un artista, e gli artisti possono essere certo spietati, però capiscono il bisogno di libertà, per cui loro stessi combattono ogni giorno.

“Non sono io ad essere cinico, ma il mondo”

Il mondo cinico esiste anche oltre le frontiere dei musei (e dell’Europa), problematico, ingiusto, ma non privo di una sua dignità, una sua bellezza da godersi con le persone giuste, e celebrare ballando nei treni e nei bar. Vale la pena passarci quella grande avventura chiamata vita. E allora lunga vita al Cinema, e all’uomo che vendette la sua pelle.

Mainstream


 È incredibile come tutti i film dei Coppola parlino, in un modo o nell’altro, del vuoto. La vita di Frankie a Los Angeles nel nuovo millennio corrisponde a questo stilema, l’insoddisfazione, la voglia di emergere, di avere una scossa. Che arriva, sotto forma del successo come youtuber (anzi, “content creator”, per darsi un tono). Assieme a lei c’è il collega del bar, interpretato da Nat Wolff, e Link, la star del suo show interpretata da Andrew Garfield. Anche la presenza di quest’ultimo ha spinto certi a parlare di un nuovo The Social Network. Personalmente non sono d’accordo: quello è Cinema fatto e finito, dove lo zeitgeist veniva piegato ai bisogni di un grande autore come David Fincher. Mainstream nelle mani della giovane (sia di età che esperienza cinematografica) Gia si abbandona totalmente alla cultura contemporanea che sta raccontando, ne abbraccia la bruttezza. In un certo senso è la stessa operazione di Bling Ring della zia Sofia, solo che mentre quello ritraeva l’inutilità così a fondo da diventare smorto a sua volta, Mainstream si approccia con enfasi fanatica a ciò che vuole raccontare.

 Le forme diventano quelle di una live su Twitch, il ritmo si piega al deficit d’attenzione da TikTok. Meravigliosa e quasi macabra la scena, dove la protagonista (bravissima Maya Hawke) vomita nel lavandino e le escono solo effettini grafici, che si liquefanno orribilmente nel sifone.
Questo film (e la mia recensione che ne parla) è destinato ad un precoce invecchiamento da applicazione telefonica. Per questo è così difficile decidere se sia bello o orribile, punta con molto coraggio e molta furberia ad essere una testimonianza dell’adesso, specie nella sua accezione più passeggera, sbagliata e inutile. Ma allora dove sta il Cinema, dove sta la parte di Mainstream destinata a durare? Non certo nelle relazioni tra i tre protagonisti, la bella ingenua che si innamora del fascinoso maledetto finché non realizza che è uno stronzo e si accorge del migliore amico sommesso ma gentile. O come avrebbe detto De Crescenzo: Isso, Essa, e o’ Malamente.

Direi che sta in Link, il personaggio di Garfield, diviso tra versione mattatore assoluto e versione “quante gliene darei a lui e alle sue maledette faccette buffe”. Ma credo innegabile quanto sia cinematografico questo personaggio, così ambiguo, così respingente. Non verrà mai chiarito il suo ruolo, se è di vittima che ha perso il controllo della situazione (infatti equipara i telefoni alla droga all’inizio), venditore di fumo nato solo per la manipolazione (“bisogna essere stupidi per essere furbi”), o colui che ha fregato tutti, che ha battuto il sistema sguazzandoci dentro (“bisogna entrare nella pancia della bestia”), scoprendone tutte le brutture per poi farsi acclamare da esso.
Peccato solo che abbia un atteggiamento irritantemente sopra le righe e fintamente alternativo fin dal primo incontro con Frankie, prova che è difficile dimostrarsi genuinamente profondi e anti-sistema quando sei stato Spiderman e ti fai dirigere dall’ultima rampolla della dinastia più longeva di Hollywood. Però se Gia può dirigere una scena meravigliosa come lo show finale, se può far fare a Garfield un sorriso come quello, allora forse si merita attenzione, si merita di provare che sa anche raccontare la bellezza, e non solo denudare il marcio. La attendo alla prova del nove.


Omelia contadina + Narciso em Ferias


“Quando il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e gli artigiani, quando l’industria avrà reso inarrestabile il ciclo del consumo, allora la nostra storia sarà finita.” Belle parole, ma non sono state scritte per Omelia contadina, e se ho scoperto che appartenevano a Pasolini è solo tramite un guizzo d’occhio sui titoli di coda. Si intravede già una certa furberia in questo corto, nonostante la lodevole critica alle colture intensive delle multinazionali e la promozione dei contadini. Volti scavati, scelti e ripresi con cura, sul posto, per questo funerale dell’agricoltura, celebrato seppellendo alcune gigantografie dei coltivatori stessi sotto le note scordate di una banda musicale. Certamente d’impatto, bello da guardare, forse abbastanza confuso nei suoi contenuti: un risultato tutto sommato soddisfacente.
Dopo il corto, un lungometraggio, anzi parlerei di un non-film. Prima dell’entrata in sala non avevo nemmeno la vaga idea dell’esistenza di Caetano Veloso, musicista brasiliano scampato alla prigionia militare durante la dittatura del ’68. Ce lo racconta lui, con il suo volto, un muro dietro, e tre oggetti: chitarra, fascicolo del suo interrogatorio, sedia su cui poggia. Una storia a tratti appassionante, ti immerge in quello sguardo che molto ha visto, nella sua voce e fisicità, anni dopo i fatti. Per questo dispiace un trattamento che non è solo, come l’ha definito uno dei registi nel messaggio prima della proiezione, di “asciugatura dell’eccesso”, ma è proprio sottrazione di qualunque cosa, Cinema compreso. Sarebbe stato un ottimo monologo da caricare online, così sottotitolato, per imparare, assorbire pezzetti d’informazione, magari stoppare fino al giorno dopo. La cinematografia non funziona così, è rappresentazione, immaginazione del singolo legata all’immagine per tutti, parola e suono creativo. Anche scarna, anche asciutta. Ma sempre Cinema: Narciso em ferias, semplicemente, non lo è.

Pieces of a Woman


Una sensazione riporta a The man who sold his Skin, guardando questo film. Forse non altrettanto positiva, non si raggiunge quel perfetto equilibrio di drammaticità e coraggio. Anzi, le sequenze iniziali del film sono tutte eccessive: un futuro padre, operaio nella imminente costruzione di un ponte, apre le porte del rumore, del caos, ad un fiume di parole. Stacco e siamo dalla sua compagna: assisteremo al parto domiciliare in piano sequenza, senza interruzioni, senza poter indietreggiare di neanche mezzo centimetro da quegli intensi e imbarazzanti momenti.

Qualcosa va storto, e lì Pieces of a Woman svela la sua carta dalla manica, la rabbia. Questo intendevo paragonandolo al bellissimo belga-tunisino: ha la stessa vibrante energia, incanalata però non nella scrittura, regia e recitazione perfettamente equilibrate, ma nella furia, repressa in lei (bravissima Vanessa Kirby) e strabordante in lui (prendere Shia LaBeuf sul serio, sto sognando?), nella reazione di pancia, nel nervo. Sembra quasi un film di Scorsese imborghesito e senza pistole, e guarda caso Martin è produttore. Ci sono parole dalla linea grezza, ma taglienti come lame, specie nello splendido confronto natalizio della Kirby con la sua madre di finzione, una intensissima Ellen Burstyn.Dura tanto, impegna tanto. E proprio quando tale rabbia viene convogliata in qualcosa di estremamente positivo, dalla scena del processo in poi, perde un poco della sua vitalità. Eppure sento che si farà ricordare in questa selezione festivaliera, con le sue parole dure e relazioni tossiche, in mezzo alle quali mi sono ritrovato, mio malgrado, perfino commosso.


Fiori fiori fiori + Salvatore shoemaker of dreams


Ok, almeno ci ho provato: devo venire a patti col fatto che Guadagnino proprio non lo sopporto. Abbiamo una concezione totalmente diversa dell’estetica, di profondità e leggerezza, e stasera scopro, anche dell’informazione. Il suo documentario parte, come tanti progetti presentati al Festival, da una buona intuizione. Anzi, direi affascinante: la vita di Salvatore Ferragamo, ciabattino (ma di lusso) per trent’anni di divismo hollywoodiano.
È la parte migliore del documentario, il corpo della vicenda con le avventure di Ferragamo in America. I suoi passi sono stati accompagnati da quelli molto più ingombranti del Cinema, e per chi lo ama è una goduria. Si rivivono i momenti di sperimentazione, i primi western, poi i ruggenti Anni Venti, con Santa Barbara e i propri protagonisti: Rodolfo Valentino, Charlie Chaplin, Douglas Fairbank, Mary Pickford, David Griffith. E gli anni ’30, con il baricentro del mercato sempre più a Hollywood (anzi, Hollywoodland), le dive misteriose, sensuali o sfrontate, gli uomini erculei e sardonici. Lo storico che in me è scattato nel vedere il ritorno in Italia durante il fascismo, il marchio del brand in stile futurista, la stretta anni ’30 del regime, il periodo d’autarchia… manca però qualcosa, ce ne siamo accorti? Proprio il protagonista stesso del racconto, Ferragamo.
Alla fine non hai empatizzato con Salvatore, con la sua storia di migrante e artigiano, sei rimasto come quella trafila di attori ed attrici, meravigliato dalle creazioni, ma dell’uomo forse in fondo non ti interessa granchè. Anzi, ti sta pure un filo antipatico, con quella sua ossessione dell’avanti, senza mai uno sguardo all’indietro, senza mai un errore che sia uno: la perfetta storia hollywoodiana, guarda caso. Sarebbe stato sensato a questo punto far parlare artigiani e calzolai dell’impatto che ebbe su di loro, fare proprio un viaggio nella materia viva e pulsante, piuttosto che le interviste, orientate a tre quarti (andiamo, persino I am Greta non usa certe riprese, e uno dei registi più famosi d’Italia sì?), della famiglia che fa il panegirico del suo infallibile avo.
Per fortuna che almeno c’è Martin Scorsese tra gli intervistati, a rubare lo show e contemporaneamente portare un po’ più di dignità al progetto, rispetto alla promozione dell’azienda di famiglia. Il mio consiglio, nel dubbio, è di guardare Il Giardino delle Parole: non solo per sopperire alla tragica mancanza di ogni tipo di animazione al Festival, ma anche vivere una storia di passione per la calzoleria fittizia, ma molto più onesta e intensa di “Salvatore shoemaker of dreams”.
Ah, Fiori fiori fiori non lo commento neanche, nemmeno io mi abbasso tanto da recensire filmini delle vacanze post-quarantena girati con l’IPhone. Segnalo però una battuta che funziona: “mi sono abituata a chiudere la porta” “ma per masturbarti?”. Ci tengo a precisare che il discorso non parte, e non arriva, da nessuna parte, rendendolo totalmente inutile, come il mio quarto d’ora passato in sala.


Where the leaves fall + Non odiare



Le foglie cadono dove sono sorte: mai dimenticare quei due luoghi, quei due momenti. In soldoni è questo il punto del corto, opera se ho ben capito, di un sino-italiano. Esattamente come il ragazzo protagonista (è abbastanza surreale vedere un asiatico in Cina che parla la lingua nostrana), in visita alla città del nonno paterno. Tutto qui, due personaggi, un rapporto non stretto ma bello, tra vecchie e giovani radici. Forse bisognoso di una durata e sviluppo più consistente: così com’è, rimane guardabile.
Finalmente un film italiano, che poi finalmente fino ad un certo punto perché se andavo a vedere Guida romantica per luoghi perduti magari avrei speso più parole di elogio per il nostro paese. Non che Non odiare sia brutto, intendiamoci, diciamo che genera più che altro un sacco di frasi con il “non” (del tipo, non è minimamente insulso come Miss Marx).
Ora, seriamente, il film qualche merito ce l’ha. Innanzitutto è un esordio, affrontato con garbo ma anche la necessaria durezza, competenza e distanza dai peggiori clichè. Se la vicenda, partita da un dottore ebreo che non soccorre un neonazista morente, è infatti fortemente prevedibile fino al secondo atto, la fine riserva qualche gradita sorpresa; in particolare un brevissimo gesto, la mano alzata al cimitero, che mi ha davvero fatto percepire attimi di grande cinema. C’era bisogno di più momenti simili: prendiamo Gassman (non lo apprezzo particolarmente come attore, in tutta onestà), interprete del detto medico. La vicenda lo spinge a ripensare al padre con cui era in rotta da anni. Torna alla sua casa, con questo pastore tedesco aggressivo e senza nome in giardino, la casa stipata di oggetti e fascicoli dei tempi della guerra. Ci si aspetterebbe chissà che rivelazione, su questo padre delatore degli altri per salvare se stesso, o magari collaborazionista, o persino nazista in toto, per creare un meraviglioso paradosso. E poi viene fuori che Gassman lo odia perché faceva il dentista al campo di concentramento… sinceramente in un mondo dove esiste Il Figlio di Saul bisognerebbe osare un bel po’ di più, considerando pure che Non Odiare tratta specificatamente di neonazismo, e non di neofascismo. Constato con amarezza che nel nostro paese ancora non ci si è liberati della retorica “italiani brava gente”, che liquida ogni imbarazzo storico piuttosto che contemporaneo scaricando la colpa sul nazismo (ironico rifiutare la tesi del “problema immigrazione”, per poi dare implicitamente la colpa ad una estremizzazione arrivata da fuori). Saranno sottigliezze, ma la Storia vive di questo, è indispensabile curarle se si vuole raccontare il presente tramite essa. Altrimenti è solo distogliere gli occhi, e farlo in sala può voler dire distoglierli dai problemi che stanno fuori, ignoranza, lotta tra poveri, periferie degradate, per rifugiarsi nel solito dito puntato ad un’ideologia morta quasi 80 anni fa in Germania (ma nata in Italia).

Finis terrae + Topside

Di questo corto non so veramente che dire. Ci sono due amici in viaggio, per ragioni parzialmente Di questo corto non so veramente che dire. Ci sono due amici in viaggio, per ragioni parzialmente oscure, in una specie di vacanza per il recupero fisico e mentale di uno. Esattamente come in Where the leaves fall, il duo di protagonisti è diviso dalla maturità, in questo caso non anagrafica. Solo che è più un’intuizione, appena si delinea qualcosa, quello con la testa meno apposto se ne torna a casa per conto suo e blocca i contatti. Titoli di coda. Eh?
Vorrei richiamare alla memoria una scena di quel film moralmente ignobile che è La Ricerca della Felicità, probabilmente la migliore in assoluto. Will Smith e figlio sono senza un tetto sulla testa, ne hanno bisogno per la notte. Allora si rifugiano in un bagno della metropolitana, con il terrore che qualcuno venga, magari per scacciarli, magari per affidare il bambino ai servizi sociali. Ecco, bisogna immaginare quel padre e quel figlio diventare madre e figlia, vederle vagabonde, scacciate da un rifugio sotterraneo alla città, per un film intero: il risultato è Topside. Con una distinzione rilevante rispetto a La Ricerca della Felicità, ovvero che nel primo non esiste un capitalismo equo, non esiste il sogno americano dove tutti possono farcela a diventare agiati. Il mondo di Topside, in qualunque dei tre atti ci si trovi (sotterranei, mondo esterno, metropolitana), è angosciante, fatto di chi sta sotto e chi sta sopra, della disperazione dei primi che li fa sprofondare ancora più in basso. Non si parla di un normale drammatico dove ci si piange addosso, ma della terribile normalità di chissà quante persone, affrontata con piglio estremamente realistico (a parte forse la corrente elettrica, improbabile lusso per una baraccopoli sotto la metro). Esempio eclatante la figura dello spacciatore, capace di infondere nello spettatore qualsiasi sensazione in una decina di minuti: rabbia, disgusto, ma anche compassione e quasi simpatia per la sua umanità, e timore di essa subito dopo.

Forse eviterei questo film se si è troppo impressionabili per la sorte dei bambini, ma credo che il punto sia proprio quello: denunciare un sistema senza speranza dove sono loro le prime vittime, e lo fa con coraggio, senza pietismi né svolte melodrammatiche, solo la cruda realtà.
TOMMASO FERRERO

Dorogie Tovarischi! (Cari Compagni!) – Andrei Konchalovsky, Russia  

1962, Russia, regione del Don. Degli scioperi in un’azienda di locomotive di importanza nazionale attirano le più alte cariche del partito comunista in una cittadina di modeste dimensioni. La situazione dopotutto è ridicola. In quella che dovrebbe essere l’utopia comunista, dove il socialismo e i suoi ideali raggiungono la totale statalizzazione, l’idea che i lavoratori abbiano voglia di scioperare sconvolge chiunque. In particolare, è sconvolta la protagonista Ludmyla, parte del comitato della città. L’intervento durissimo dell’esercito e del KGB però le mostrano il vero volto del sogno comunista, un totalitarismo instabile e in sfacelo. La scomparsa della figlia porta la donna ad agire contro un sistema che ha sempre amato e protetto. Quello di Konchalovsky è, per ora, il mio film preferito in concorso. Riesce a mischiare i generi con facilità ed eleganza. Inquadrature fisse dal respiro infinito, un bianco e nero non aggressivo e di piacevole visione. La sceneggiatura mostra la surreale ironia della vita sotto il regime, ma le emozioni iniziano a trasparire dietro la maschera dei funzionari statali a mano a mano che il film avanza. Il finale è un respiro enorme, dopo una gigantesca corsa contro qualsiasi cosa, dall’alto di un tetto sopra una città che balla per dimenticare i propri morti.  

La Nuit Des Rois – Philippe Lacôte, Costa D’Avorio  



La MACA non è una prigione. È un mondo a parte. Immerso nella giungla più fitta questo carcere di massima sicurezza vive di regole tutte sue, retta da un detenuto chiamato Barbanera che, oramai anziano, per le leggi della MACA dovrebbe suicidarsi. Per guadagnare tempo e sedare gli animi dei suoi sudditi il carcerato ricorre a un’altra tradizione della prigione: un detenuto a sua scelta dovrà raccontare una storia mentre la luna rossa brilla nel cielo, alla fine del racconto verrà ucciso. E quindi Il Romanzo, nome del narratore, è il protagonista di questo film che, nelle sue pecche, è un vero gioiello. I corpi e visi di quella che è una vera e propria tribù mimano e cantano mentre un ragazzo racconta una storia senza spazi e senza tempi. La sua narrazione si intreccia con la vita di una notte di questa prigione dove governano i detenuti. Negli effetti speciali c’è la grande caduta di questo film, che poteva ben farne a meno, ma dopotutto, essendo limitati a una sola piccola parte della narrazione, regge e ci si crede fino alla fine. Una rielaborazione ricca e fantasiosa di leggende e riti tribali della Costa D’Avorio, dove ancora, per fortuna, una bella storia vince sempre.  

Notturno – Gianfranco Rosi, Italia  


Rosi è un pazzo sadico, ma anche l’unico che poteva fare questo film. Immagini stupende e storie strazianti ci accompagnano in un viaggio attraverso il Medio Oriente. Personaggi a noi lontanissimi raccontano le loro quotidianità martoriate dagli interventi distruttivi delle potenze straniere e dal terrorismo. Immagini estetizzate di un mondo distrutto, vite celebrate mentre si spengono lentamente. Un bambino descrive i suoi disegni, in cui dei membri dell’ISIS sgozzano delle donne e le impiccano. Una madre torna nella stanza dove il figlio è stato legato e picchiato a morte. In un manicomio dei pazienti ricreano uno spettacolo che inneggia alla libertà e alla pace. E noi speriamo con loro, finalmente.  

Topside - Celine Held e Logan George, USA  


C’è un mondo sotto le strade di New York, e in questo mondo abitano Piccola e sua madre. Piccola ha cinque anni, vive in mezzo alla sporcizia e alle lucine appese. Fa amicizia con gli oggetti che trova, guarda su un vecchio tablet dei video per bambini. La sua infanzia è diversa, ma non è triste. L’arrivo di uno sgombero della polizia costringe la madre a portare la bambina in superficie, dove rischia di vedersela portare via. Topside è un ottimo film d’esordio, forse non raggiunge appieno il suo potenziale, ma ha alcune scene che sono dei picchi di cinema altissimo. La bambina è un’attrice formidabile ed il contrasto della sua dolcezza col mondo marcio della madre dipendente è devastante. Due scene in particolare sono potenti e di grande impatto: il primo approccio della bambina all’esterno, pauroso e confuso, e la scena del treno, dove la suspence mangia l’anima per tre minuti di piano sequenza. Un finale chiamato, ma giusto, termina una piccola esperienza di bel cinema.  

Selva Tragica - Yulene Olaizola, Messico  


Una giovane fugge nella foresta amazzonica, inseguita da un uomo che la desidera. Ferita da uno sparo viene salvata da dei raccoglitori di gomma della foresta, lavoratori al cottimo per un padrone spagnolo. Dopo aver scoperto il suo ascendente sugli uomini la ragazza si trasforma lentamente in qualcosa di diverso, portando la fine di tutti coloro che vengono a contatto con lei. Un film che ammetto di non aver capito del tutto, o perlomeno spero di non aver capito. Il film parte dalla leggenda della Xtabay, strega della giungla maya che portava la morte a ogni uomo che seduceva. Il film ha delle belle premesse ma si abbandona in una trama sfumata e che si perde fra le frasche insieme ai suoi protagonisti. La discesa nella follia e nella disperazione non è graduale e mal gestita. Il cambiamento della ragazza da giovane verginella a strega emanata dalla foresta repentino e poco giustificato. In fondo la ragazza è emanazione della forza naturale femminile, una rivalsa nei confronti dell’uomo distruttore. Il film alla fine non arriva al dunque, con qualche accenno a un femminismo cannibale, lasciandoci con un finale che oserei definire sborone.  

Bu Zhi Bu Xiu (The Best is Yet to Come) - Jing Wang, Cina  


Un ragazzo di ventisei anni, dopo aver lasciato gli studi, non abbandona il suo sogno di diventare giornalista. L’opportunità arriva quando un redattore del giornale di Pechino lo nota in un blog per la sua ottima scrittura. La sua prima inchiesta lo pone di fronte al dubbio morale se sia giusto riportare notizie senza poter intervenire sulla realtà. Il suo secondo servizio invece scoperchierà un’ingiustizia sociale nei confronti dei malati di Epatite e rischierà di fargli perdere il suo amico più caro. Un film semplice, lineare ma ben riuscito. In fondo il protagonista è un antieroe con un sogno ben preciso, il suo dubbio morale diventa ben presto anche il nostro. Un bel film di giornalismo tratto da una storia vera.  

Le Sorelle Macaluso – Emma Dante, Italia  


La versione cinematografica di uno degli spettacoli della Dante. Cinque sorelle si guadagnano da vivere affittando colombe per i matrimoni. Il passare degli anni porta il loro numero a scendere e ad aumentare i loro rancori e amori reciproci. Un film strano questo. Alcune parti, soprattutto la terza, di un bellissimo cinema, altre molto fastidiose, con due personaggi in particolare dal respiro poco credibile, anzi dai tocchi stereotipati e teatrali. Inutile dire che l’ascendenza del palcoscenico sia presente in numerose scene e, in certi casi, è anche piacevole. Immagini comunque bellissime accompagnano una scelta narrativa scomposta in tre atti, che rende onore a una perfetta ricerca attoriale, che valorizza il senso di invecchiamento dei personaggi. Una chiusura agrodolce, un po’ piaciona, mi ha fatto comunque dimenticare le scene che ho odiato. Tutto sommato un bel film, forse mi aspettavo di più, ma, in questo caso, è colpa mia e delle mie aspettative.  

Zheltaya Koshka (Yellow Cat) - Adilkhan Yerzhanov, Kazakistan  


Una commedia kazaka al limite del surreale. In mezzo al nulla un omino con una camicia hawaiana e un fedora si crede il sosia di Alain Delon. Insieme a una prostituta dai capelli rossi fugge per le distese della steppa dopo aver rubato dei soldi a un signore della malavita locale. Il suo sogno è quello di aprire un cinema con la sua amata. Il film è assurdo, strano, infatile a tratti. Ma non posso negare che mi sia piaciuto. È un mio piccolo sfizio diciamo, non di certo universale. Il protagonista è simpatico ed odioso allo stesso tempo, la storia è dilatata è lenta, ma ci sono delle trovate comiche geniali, che si rifanno a un grande amore per il cinema classico. Un film strano, dai colori spenti e dalle inquadrature fisse, ma che sicuramente merita di essere visto. E poi magari odiato, ma, magari, anche amato.  

Nowhere Special – Uberto Pasolini, Italia  


Che bello vedere un italiano che fa un film del genere. Che bello vedere un film del genere. Nowhere Special dopotutto non parla di una storia speciale. Un giovane padre single si ammala e deve decidere a chi affidare il figlio di quattro anni, visitando numerose famiglie adottive. Basta. È solo una storia stupenda di un amore enorme. Non sono padre, ma sono figlio, e in questa storia c’è tutto l’ideale di essere un genitore, soprattutto la difficoltò di lasciare andare ciò che si ama di più. Ho pianto tanto, di nuovo, questa volta singhiozzando e con fastidiosi rumori di naso. Le scene in cui il padre spiega al figlio cosa sia la morte toccano delle bellissime corde di scrittura che fanno tremare anche i chi bambino non è più.  

Spy no Tsuma (Wife of a Spy) - Kiyoshi Kurosawa, Giappone  


1940, un ricco commerciante cosmopolita giapponese si reca in un viaggio in Manciuria. Lì scopre le terribili sperimentazioni di armi batteriologiche che lo stato giapponese sta compiendo contro le popolazioni locali. Al ritorno, con l’aiuto della moglie, vorrà portare le prove raccolte in America, così da far intervenire gli USA nella guerra appena iniziata. Un film che abbandona gli stilemi visivi e scenografici tipici del cinema giapponese, ma che esalta Mizoguchi, Tanaka, Ozu e i grandi del cinema classico nipponico tramite una recitazione esagerata ed espressiva. La trama si sviluppa come quella di un normale spy movie per poi appiattirsi, ma conservando un colpo di scena verso il finale. L’ultima parte si discosta dal resto del film, la figura della moglie vive di momenti schizofrenici e non si delinea in modo chiaro. Un film però che conserva una forte dignità e che mostra un grande amore per il mezzo cinematografico.

  Cortometraggi  

Dei corti a Venezia ne parlerò poco, tendenzialmente sono brutti, non lo nego.  

Finis Terrae – Tommaso Frangini  

Due ragazzi si recano su una scogliera prima di separarsi, uno dei due scompare per non dover salutare l’amico di una vita. Belle immagini, non troppo empatico.  

Das Spiel - Roman Hodel  

Una partita della lega calcio svizzera vista con gli occhi di un arbitro e suo padre. Belle immagini ma poca narrazione.  

The Shift - Laura Carreira  

Una ragazza fa la spesa col suo cane. È attenta a non spendere troppi soldi, evidentemente è a corto di liquidi. riceve una chiamata. Ha perso il lavoro. Abbandona spesa e cane. Brava attrice, storia raccapricciante e di cattivo gusto.  

Entre Tu y Milagros - Mariana Saffon  

Una figlia in cerca di attenzioni da parte della madre entra in competizione con lei fino ad avere la sua prima esperienza sessuale. Infine, si finge morta senza ricevere attenzioni dalla genitrice e, dunque, torna a sdraiarsi al suo fianco prendendo il sole. Un corto che non resta impresso, né per immagini né per altro.  

Nattaget - Jerry Carlsson  

Un’esperienza omosessuale di due ragazzi in un viaggio notturno su un treno. Uno dei due, però, viene prima di iniziare l’atto. Un corto di sguardi e seduzione mediata da un’arancia. Ben girato e diretto.  

Being my Mom – Jasmine Trinca  

Una bambina viaggia per una Roma deserta assieme alla madre (Alba Rohrwacher) e a una gigantesca valigia. Madre e bambina vivono il viaggio come un gioco, dove una diventa il supporto fondamentale dell’altra e viceversa. Un corto che affonda le radici nei ricordi della Trinca, non arriva dove vuole, o almeno non colpisce nel profondo.  

Mây Nhu’Ng Không Mu’a - Nghia Vu Minh, Thy Pham Hoàng Minh  

Folle corto vietnamita in cui un cantante di karaoke si reincarna in un cavallo, mentre la sua amata si perde per le strade del quartiere ricco della città di Hanoi. Belle immagini, non ci si capisce nulla. 

The Return of the Tragedy - Bertrand Mandico  

Un sequestro di persona mascherato da corto. Io ero sconvolto. Capisco l’omaggio al cinema underground americano degli anni ’80, ma qui siamo alla follia. Due poliziotti in diversi universi irrompono in una cerimonia segreta operata da un certo Katebush dove si estraggono fegati da donne e si riempiono di elio. Il resto è puro dialogo delirante su interiorizzare e sul glam. Terrore cinematorgrafico  

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