Diciottesimo appuntamento con Roberto.
In realtà dovevo postare un altro film suo ma poi ha scritto questo di getto e, essendo attualissimo, mi ha chiesto se potevo cambiare l'ordine.
"Un film di soli 45 minuti, poco più di un mediometraggio. La storia vera, ricostruita con la tecnica del documentario e del reportage, di Rahaf Mohammed al-Qunun, ragazza di diciotto anni che, approfittando di una vacanza all'estero con la sua famiglia, mette in atto il suo piano, studiato per mesi: e fugge.
Fugge dall'Arabia Saudita, dalla sua famiglia, dalla violenza cieca dell'islam, dall'umiliazione e dai soprusi quotidiani che vive ogni donna che ha la sfortuna di nascere in una cultura illiberale e antidemocratica. Ed è impossibile non pensare a quanto sta accadendo in Afghanistan. Senza libertà, non c'è vita."
0. La porta chiusa
La ragazza si è barricata nella stanza d'albergo.
È la notte più lunga della sua vita. Forse l’ultima.
Scrive sui social, fa mille chiamate, è una questione di vita o di morte.
«Hanno il mio passaporto e domani mi costringeranno a tornare indietro...
Per favore aiutami. Mi uccideranno».
Lei si chiama Rahaf Mohammed al-Qunun e ha 18 anni.
1. Un puntino nel cielo, anonimo e con tutti i nomi
Mentre scrivo ho chiare in mente le immagini che in questi giorni affollano ogni angolo dei media: migliaia di persone che corrono disperate nell’aeroporto Hamid Karzai di Kabul, cercando di salire, in qualunque modo, sugli aerei americani che lasciano l’Afghanistan, caduto nelle sanguinarie e spregevoli mani dei talebani.
Alcune centinaia di persone sono riuscite a salire a bordo del Boeing C-17 Globemaster dell’aeronautica americana, che li ha portati via dall’orrore. Loro sono in salvo, ma per coloro che non ce l’hanno fatta, decine di migliaia di afghani che hanno tentato la fuga e non ci sono riuscite, c’è solo un destino orribile ad attenderli. Nelle prossime settimane, uomini, donne e bambini verranno umiliati, emarginati, torturati, vessati, massacrati e giustiziati in piazza.
Alcuni si sono aggrappati alla carlinga dell’aereo, mentre decollava, con ogni fibra del proprio essere.
Come stelle nel cosmo, sono precipitati.
Questi uomini, di certo, sapevano che sarebbero morti: è impensabile sopravvivere a un volo di ore aggrappati a un jet che viaggia a ottocento chilometri all’ora, a oltre trentamila piedi di altezza, con la temperatura che scende a decine di gradi sotto lo zero, dove la pressione quasi si annulla.
Ma questi uomini hanno deciso di scrivere la propria fine come stelle cadenti, scie di luce su un cielo oscurato dall’orrore di questi assassini con turbante, barba e kalashnikov.
Questi uomini, che hanno avuto la sfortuna di nascere nella parte sbagliata del mondo, hanno scelto di compiere questo gesto estremo perché sono talmente pieni di voglia di vivere da essere disposti a morirne.
Come vent’anni fa, quando da quelle due torri la gente si lanciava nel vuoto (ancora una volta: un puntino nel cielo, anonimo e con tutti i nomi):
a volte, non c’è niente di più vitale di morire.
2. Azzurro disperato
La disperazione, viene da pensare, non è il nero dell’oscurantismo di cui sono portatrici certe visioni del mondo. Non è nemmeno il rosso del sangue che sgorga da ferite che non faranno mai in tempo a diventare cicatrici. Né il viola di certi lividi scolpiti nella pelle, nel cuore, nel cervello. Non il bianco della cecità assordante di quelle parole vuote che fanno male come pugnalate negli occhi. Ma l’azzurro del cielo terso, privo di nuvole, sereno, di un Afghanistan che ha paura, che preferisce la possibilità di morire per la libertà alla possibilità di vivere senza.
L’azzurro di un cielo attraversato da uomini che precipitano come Icari involati.
3. Per sempre vivere
Le donne afghane, ormai da giorni, sono al centro di tutti i discorsi, più o meno sensati, dei media e degli individui di tutto il mondo. C’è profonda preoccupazione per le loro condizioni: le orripilanti e liberticide leggi coraniche, figlie dell’islam più cieco e barbaro, sono una condanna a morte per ogni donna.
Niente di più di un mero oggetto, una proprietà. Sono condannate a subire violenze fisiche e psicologiche quotidiane, sancite da leggi di stato. Non hanno identità, non hanno scelta, non hanno alcuna libertà. E allora ecco che ritorna la disperazione dell’azzurro del cielo: il desiderio di innalzarsi in volo senza ali, perché tarpate e massacrate da una cultura assassina, andando incontro a un’inevitabile morte, è più forte di ogni cosa, perché l’alternativa è vivere morendo, desiderando la fine ogni secondo.
Anonima e con tutti i nomi: la donna afghana, araba, e di ogni cultura misogina e razzista, è un puntino invisibile che precipita dall’aereo del mondo libero, strappata alla vita dalle mani di questi mostri che odiano le donne.
Quel cielo azzurro veniva solcato da un aereo che portava una famiglia araba in vacanza nel Kuwait. Nel cuore della notte, dopo averlo studiato e preparato per mesi, una ragazza di 18 anni mette in atto il suo piano di fuga. Prende un aereo e fugge in Thailandia, il suo obiettivo è arrivare in Australia e chiedere asilo. Ma viene bloccata in aeroporto, a Bangkok, le confiscano il passaporto, vogliono rimpatriarla in Arabia Saudita. Si barrica nella stanza dell’hotel che le hanno offerto per la notte, prima di essere rispedita in Arabia, dalla sua famiglia, il giorno dopo.
Rahaf al-Qunun.
Escape from Saudi è la sua storia. Ma in realtà è la storia di ogni donna che ha avuto la sfortuna di nascere in Arabia Saudita, o in qualunque altro posto del mondo dove i diritti delle donne – e di altri gruppi sociali – sono praticamente inesistenti.
In quella che potrebbe essere la sua ultima notte di speranza, di vita, di possibilità di salvezza, Rahaf scrive sui social, denunciando la sua situazione. In poche ore l’hashtag #saverahaf invade i social media, facendo scalpore a livello mondiale.
Una giornalista vola a Bangkok per appurare che sia tutto vero perché «non avrei pace se questa fosse una persona reale e non facessi tutto ciò che posso per aiutarla».
L’attenzione del mondo intero arriva in quella stanza di un hotel thailandese.
Che ne sarà di Rahaf? Dove andrà?
Lei sarà fortunata. Non tornerà mai più dalla sua famiglia: il padre, gli zii, i fratelli, ma direi anche sua madre e le altre donne della famiglia, ognuno di loro l’avrebbe massacrata fino a ucciderla. Sì, lei è stata davvero fortunata. Non riuscirà a raggiungere l’Australia, terra verso la quale migliaia di ragazze arabe tentano di fuggire dall’oppressivo regime saudita, ma sarà accolta dal Canada, che le concede asilo.
Ora è libera. È nella parte del mondo in cui può esserlo.
Ma Rahaf è un’eccezione.
La maggior parte delle ragazze che fugge dall’Arabia Saudita – o da altri luoghi di morte – non ce la fa. Il regime saudita le rintraccia, spesso anche grazie ai governi nazionali dei paesi in cui le giovani si rifugiano, e le riporta in patria. Dove verranno imprigionate, umiliate, maltrattate, picchiate, vendute, annientate. Lo stato saudita è estremamente attivo nell’esercitare la sua influenza diplomatica per cercare di interdire e fermare – sovente con tattiche ingannevoli e subdole, facendo pressione psicologica e ricorrendo all’uso della forza fisica – la fuga verso la libertà di queste giovani donne. Per bloccarne il volo, per frenarne l’ascesa, per bruciarne le ali e farle precipitare.
Ma le donne che ce la fanno, come mostra il film in chiusura, dicono di sentirsi ancora a rischio. L’indagine della giornalista che ha aiutato Rahaf, mette in luce il fatto che le ragazze che hanno avuto la fortuna di raggiungere l’Australia vivono nella paura, comunque, nel terrore, dato dai continui tentativi da parte di funzionari del regime di indurle con l’inganno di riportarle a casa.
Queste donne sono come le persone che abbiamo visto ammassarsi all’aeroporto di Kabul: sono talmente piene di voglia di vivere da essere pronte a morirne.
Perché senza libertà, non c’è vita.
Belle righe Roberto ,guarderò il film.
RispondiEliminaSolo una cosa : questa rece la dovrebbe leggere chi è da mesi che continua a lamentarsi che qua in Italia siamo in dittatura e con la libertà limitata..e mi fermo qua.
In seno alla società occidentale, e lo stiamo vedendo sempre con maggiore evidenza, vi sono tantissime persone (di ogni rango ed estrazione sociale) che parteggiano per visioni del mondo illiberali, antidemocratiche, oscurantiste, complottiste, antioccidentali, antisemite, filoislamiche, filocomuniste, filoterroriste, misogine, antiscientifiche, antitecnologiche, razziste, "ecologiste", "ambientaliste", infarcite di politicamente corretto, retorica spicciola e altre pericolose e insulse stronzate - e possono farlo, appunto, perché vivono nel mondo occidentale: libero, democratico, capitalista, consumista e tecnologico che loro tato odiano. Il mondo che ognuno di noi dovrebbe difendere e sostenere sempre, comunque e ovunque. E mi fermo anche io qua.
EliminaCiao Max, e grazie :)
Ciao .
RispondiEliminaAllora il documentario non mi è dispiaciuto, non riesco a capire però se la parte dedicata a Rahaf sia un vero reportage o se è “ ricostruita” e in parte recitata.
Okay che la giornalista faceva le riprese dentro la stanza d’albergo ma a me la ragazza sembrava molto “rilassata” per la situazione che stava vivendo.
Molto più “autentica” a livello di resa documentaristica ed emozionante la storia della seconda ragazza che non è riuscita a scappare.
Come le tre ragazze che restano nascoste a Sidney …con il terrore di vedersi cancellato il visto per restare, da un momento all’altro.
E da brividi la dichiarazione di una di queste che preferisce suicidarsi piuttosto di tornare in patria .
Piccola riflessione personale con il senno di poi: non riesco a togliermi dalla testa che probabilmente Rahaf sia libera perché il padre abbia deciso di gettare la spugna .
Probabilmente, fortunatamente, la ragazza è riuscita a sollevare un tale polverone mediatico che il padre ha preferito desistere dall’intento di riportarla indietro.
Essendo poi da quello che capisco dal documentario un personaggio molto importante.
Parere personale.
Comunque è da brividi sentire suo padre in conferenza stampa dire che piuttosto del passaporto avrebbero dovuto toglierle il telefono.
Come è da brividi sentire parlare di tutor maschile , di donne che non possono guidare e di tanti altri diritti negati all’altra metà del cielo nel 2021.
Dura poco il film ma ti lascia dentro una profonda tristezza che non se ne andrà via molto facilmente
Purtroppo, non è una parte recitata, benché montata come si deve per una migliore resa. Il film, comunque, come ben dici tu, lascia dentro una profonda tristezza, e anche grande rabbia. C'è una parte di mondo che odia e perseguita le donne, che le umilia ogni giorno, ogni momento, negando loro ogni libertà. Io non credo che il padre abbia deciso di gettare la spugna, sebbene il polverone mediatico creato da Rahaf abbia inciso in maniera determinante. Semplicemente, lui, come tanti altri - come anche i talebani in Afghanistan - aspetta, covando rancore e orrore. Per questo quelle ragazze temono, anche se si trovano dall'altra parte del mondo, di essere rintracciate e fatte rientrare in patria, quell'Arabia Saudita che significa morte. E allora trovo che sia comprensibile che preferiscano uccidersi da sole, piuttosto di tornare a vivere una vita di abusi e nefandezze. La cultura misogina e illiberale del fondamentalismo islamico (e non solo) è una piaga mondiale che deve essere sradicata quanto prima, con ogni mezzo. La libertà dell'individuo, i diritti fondamentali dell'uomo devono essere tutelati e difesi a spada tratta, contro ogni regime autoritario e oscurantista. Invece, quando si tratta di Islam e mondo non occidentale, si tace. Lo trovo così squallido. Poi si fanno proteste, manifestazioni, inginocchiamenti vari e petizioni verso l'occidente libero e democratico. Si sentono sproloqui intrisi di retorica da due soldi, monologhi accusatori, invettive di ogni tipo, anche e soprattutto da parte di quelle categorie che qui, nel mondo libero, godono di ogni libertà. Mah.
EliminaGrazie Max, un abbraccio.
(Se vieni al raduno ci vediamo lì ;))
lo cerco, tante storie vere o verosimili appaiono nel cinema, servono a ricordare il mondo come è, e non come molti vorrebbero che non si sapesse in realtà.
RispondiEliminanel nostro piccolo vedere e diffondere storie "altre", in tanti sensi, mi sembra necessario.
grazie per averne parlato
Il cinema, come ogni espressione artistica, racconta, o può raccontare, la complessità del mondo, o quantomeno la visione del mondo del suo autore. "Escape from Saudi" si pone in quella scia di opere che tentano di parlare, in qualche modo, di una realtà spesso misconosciuta: una realtà pericolosa, figlia e madre di un'ideologia, una visione del mondo, che vuole la morte di ognuno di noi. E concordo con te sul fatto che, di certe tematiche, ora più che mai, è necessario parlare. Senza retorica, senza eufemismi, senza paura.
EliminaGrazie a te Ismaele :)