20.9.23

Recensione" Io Capitano" - Al Cinema 2023

 

L'ultimo film di Garrone (regista e autore che adoro) è forse una spanna sotto alle sue opere più grandi (L'imbalsamatore, Gomorra, Reality, Dogman) ma è comunque l'ennesimo gran film di una carriera invidiabile.
La storia di Seydou e Moussa, due giovani senegalesi col sogno di arrivare in Italia, in Europa.
Ne nasce un road movie che attraverso bus, jeep, lunghissime camminate nel deserto e un'ultima traversata in barcone deve portare questi due ragazzi, e tutti i migranti insieme a loro, a questo sogno europeo che molte volte si rivela soltanto una chimera.
Una prima parte non del tutto convincente per fotografia, per montaggio e per racconto, fa da base ad una seconda molto più drammatica.
Eppure "Io Capitano" sembra un film che rifugge il completo realismo per diventare qualcosa di più simbolico.
E Seydou, questo giovane straordinario ragazzo, diventa una specie di Cristo che, attraverso l'empatia e l'amore per gli altri, può far aggrappare l'intera umanità alla speranza


Quando ho visto Seydou urlare continuamente a pieni polmoni "Io capitano! Io capitano! Io capitano! Io capitano!" ho pensato che il film dovesse fermarsi in quel momento, perchè una stessa identica scena ha una potenza diversissima in base a dove viene inserita.
E una sequenza finale, da sempre - parlando di potenza - ne ha una tutta sua che tutte le povere sequenze inserite prima di lei possono solo sognarsi.
Come la fine di una canzone, come la fine di una storia, come la fine di una vita, l'ultima cosa che ci rimane resterà sempre, nel bene o nel male, indimenticabile.
L'urlo di Seydou è, "tardellianamente", senza freni, senza misura, l'urlo più grande che quel meraviglioso ragazzo potrà emettere in vita.
Eppure è un urlo afono per noi spettatori, completamente sovrastato dalle eliche degli elicotteri della guardia costiera (e, curiosità, quell'elicottero è nell'intero film l'unica "presenza" non africana).
Un primissimo piano straordinario in cui l'audio che non senti (l'urlo) è mille volte più potente di quello che ti assorda (le eliche).


Seydou è vestito con la maglia del Barcellona come sono vestiti con maglie di squadre di calcio tantissimi suoi compatrioti e amici.
Queste shirt con tanto di sponsor miliardari indossate da poveri cristi possessori di nulla è uno di quei contrasti tristi e meravigliosi che, in qualche modo, possono rendere belli i film e le nostre vite.
Eppure, se ci pensate, in questo film in cui sia i nostri protagonisti sia gran parte degli immigrati sul barcone sono sempre vestiti con maglie da calcio, ecco, quel "Io Capitano" urlato nel finale si contorna anche di un significato metaforico sportivo, come se Seydouy fosse veramente il capitano di un'unica squadra, dando a quella parola un duplice ambito ma uno stesso significato, io sono colui che li guida, io sono quello che si mette davanti a tutti e parla a nome di tutti (come nel calcio fanno i capitani con gli arbitri).
Quando, in teoria, il suo ruolo di conduzione della barca doveva impaurirlo e tenerlo nascosto, ecco che nel finale Seydou diventa veramente capitano, ma non tanto perchè ha portato tutta quella gente fin là ma perchè li ha sostenuti moralmente, perchè li ha protetti, perchè ha lottato per loro, perchè ha dato loro speranza.
Seydoux è entrato in quella barca come impreparato e impaurito conducente e ne è uscito come capitano, come leader e, soprattutto, come simbolo.
Ecco, simbolo perchè io credo che questo gran bel film di Garrone (in ogni caso una spanna sotto ai suoi 3/4 capolavori migliori) vada letto soprattutto in maniera simbolica.
Vero, è raccontato in maniera ultrarealistica (anche se montaggio e fotografia remano contro al realismo, ne parleremo) ma alla fine Io Capitano - un pò come fu per quell'immenso film che è Reality o come è successo anche in Dogman (vedi finale) - è l'ennesimo Garrone in cui il racconto di una "storia vera" riesce in qualche modo ad ergersi (o abbassarsi?) a simbolica.
Il canaro che in un finale quasi onirico offre al popolo l'enorme corpo del pugile è in qualche modo simbolo dell'oppresso che uccide l'oppressore, del suddito che uccide il Re e vuole mostrarlo agli altri sudditi, per essere amato.
E pure in Reality il nostro protagonista, in modo più o meno esplicito, finiva in un mondo "tutto suo" apparentemente molto legato alla realtà ma alla fine sradicato da essa.
E come in Dogman anche lì il finale sembrava quasi una reificazione della sua pazzia con quella risata e l'inquadratura che se ne andava fuori dalla casa, fuori dalla città.
Lassù.
Non credo sia un caso che dopo Gomorra Garrone abbia iniziato una serie di film che alternano questo realismo "contaminato" (Reality, Dogman, Io Capitano) a dei veri e propri fantasy (Il racconto dei Racconti, Pinocchio), come se il regista romano abbia avuto un minuscolo "scarto" artistico dai suoi primi lavori.
Ed ecco che - tornando ad una ventina di righe fa - anche Io Capitano, alla fine dei conti, ci sembra di quest'ultimo filone.
E non tanto per le due straordinarie sequenze smaccatamente oniriche (anche di questo riparleremo, se me ricordo...) ma perchè, arrivati alla fine del film e alla fine del viaggio (con quella maestosa Sicilia che fa finalmente capolino), si ha la sensazione di aver assistito a un viaggio più metaforico che reale, un viaggio chiamato Speranza, un viaggio chiamato Empatia.
Ecco, secondo me questo film, più che opera di denuncia (tra l'altro scrivo a 12 giorni dalla visione e quello che sta accadendo questi ultimi 2/3 è emblematico...), è un film su queste due belle e quasi perdute cose, la speranza e l'empatia.
Incarnate in modo sublime da Seydou.
Il suo personaggio è un puro, un essere umano incapace sia di vivere sentimenti "negativi" che di pensare solo a sè stesso, costantemente proteso ad aiutare e salvare gli altri.
L'indimenticabile sequenza del sogno in cui la donna morta nel deserto volteggia in aria senza alcuna fatica seguendo Seydou, è un'immagine non "esterna" al film ma partorita dalla testa dello stesso ragazzo, in sogno.


E, per tornare a sopra, quest'immagine è una impressionante istantanea manifesto dell'empatia, ossia di quella rara capacità di "pensare all'altro", comprendendone la tragedia e il dolore.
La mente di Seydou, costantemente rivolta agli altri, torna su quella tragedia per salvare quella donna, anzi, non semplicemente per salvarla ma trasformare quel dolore e quella morte in qualcosa di bellissimo e leggerissimo, ribaltando completamente la situazione.
E non è un'immagine generata da un senso di colpa o dalla necessità di sublimare e cancellare un ricordo troppo doloroso, no, è un'immagine generata da un cervello che vuole salvare gli altri e che che sa che salvare gli altri, in qualche modo, significa salvare il mondo.
E' per questo che la traversata finale, contro ogni previsione di ogni singolo spettatore (credo) si trasformerà un viaggio sì difficile, pericoloso e a tratti terribile, ma anche un viaggio in cui non un solo essere umano perderà la vita (tutti ci aspettavamo il contrario, che questo film raccontasse una tragica traversata di morte).
Questo perchè l'empatia, per filiazione diretta, porta quasi sempre alla speranza.
E se è stato nominato come capitano un ragazzo capace soltanto di pensare al prossimo allora questo viaggio sarà un viaggio simbolico in cui nessuno può morire.
"Nessuno morirà qui" urla infatti più volte Seydou.
Sembra una frase quasi scontata, "da sceneggiatura", figlia degli eventi, mentre invece incarna completamente l'anima del film.
Un film che racconta appunto di come la vicinanza tra gli esseri umani, l'altruismo, l'empatia, non può che salvare l'umanità.
Non morirà nessuno nella barca di Seydou perchè lui deve regalare all'umanità (e rappresentare) un messaggio altissimo, quello per cui non ci può essere morte quando gli esseri umani si amano e si aiutano.
Gli "scafisti" libici questo non lo sapevano, loro volevano solo aggirare delle leggi, ma hanno affidato il ruolo di comandante ad un predestinato, ad una specie di piccolo Gesù (anche il martirio che subisce nel carcere possiamo vederlo come un piccolo calvario).
E questa lettura simbolica, metaforica o favolistica (scegliete voi) smussa o rende più sopportabili degli snodi narrativi che convincono veramente poco.
Succedono veramente troppe cose forzate o non molto credibili, come Seydou e la sua salvezza ottenuta grazie a quel muratore, come Moussa sopravvissuto e incontrato nuovamente a Tripoli, come il sopracitato viaggio in mare duro ma senza la minima tragedia.
Sono tutti tasselli di un film che svia leggermente dal realistico per costruire un qualcosa di bello, di speranzoso, di simbolico.
Sono tutti pezzi di un puzzle che non vuole rappresentare morte e tragedia ma vita e speranza.
Eppure il film di difetti non emendabili dalla lettura metaforica ne ha.
Innanzitutto erano anni e anni che non vedevo un uso così scolastico (da un fenomeno come Garrone non me l'aspettavo, anche se sicuramente avrà un significato) della "semplice" dissolvenza incrociata, praticamente infestante nella prima mezz'ora del film.
Ci ritroviamo così una specie di format televisivo con questo racconto lineare inframmezzato da scenette montate in dissolvenza incrociata, tra l'altro con una fotografia bella sì ma che secondo me non restituisce la "sporcizia" e il grezzo dei villaggi africani.
Una prima parte leggera, costruita quasi come una commedia, che non convince a pieno (ad esempio anche la scena del rito era evitabile).
Più che altro mostrarci quella gioia del villaggio fa a cazzotti con la ferrea volontà dei due ragazzi di intraprendere questo viaggio pericolosissimo e molto spesso mortale.
Ok, c'è il sogno di diventare cantante di Seydou ma secondo me è mal raccontato questo bisogno incrollabile di andar via, lasciando famiglie, balli e una povera serenità.
E' vero che questo racconto di bel clima iniziale poi servirà a capire alcuni pentimenti dei ragazzi (che vorrebbero tornare a casa) ma, ecco, mi è sembrato, come si suol dire, che il gioco (il viaggio mortale) non valesse la candela (la motivazione dei ragazzi).


Certo che quando comincia il viaggio il film prende una piega drammatica che, in qualche modo, non abbandonerà più (a parte la brutta brutta scena della fontana costruita e di Seydou e del muratore che guardano l'approvazione del riccone da dietro la siepe, da commediaccia).
E avremo sequenze davvero belle, come l'incredibile corsa della jeep nel deserto (adrenalinica e di cui percepisci la paura e il pericolo), come la lentissima camminata nel deserto (con tutti quei morti trovati per "strada", morti di cui nessuno parla, insabbiate in tutti i sensi).
O i "bei" minuti dentro al carcere libico, forse i più tesi di tutti.
Qui assisteremo al secondo sogno, bellissimo anche questo, un sogno che può apparire come nostalgia di casa ma che, anche in questo caso, è semplicemente frutto della necessità da parte di Seydou di pensare agli altri, a come stanno, alla loro sofferenza (in questo caso la madre).
A ben pensarci, però, la sequenza più onirica del film è, in qualche modo, completamente realistica.
E' l'avvistamento della piattaforma petrolifera (tra l'altro scena visivamente maestosa), scambiata inizialmente dai profughi (anzi, solo una volta raggiunta scopriranno la verità) come la "terra", l'Italia.
Ecco, questo abbaglio collettivo l'ho trovato magnifico, dolcissimo e struggente allo stesso tempo.
Forse in questo film di denuncia non di denuncia è la scena della chiamata dei soccorsi quella più pungente e diretta (e anche la prima presenza europea del film).
Ma, anche stavolta, si inserisce nel quadro metaforico del film, quello in cui c'è un Messia colmo d'amore che, senza alcun aiuto, deve portare l'umanità alla salvezza.
Chissà se davvero la Sicilia, l'Italia, l'Europa, rappresenteranno la salvezza di quei poveri esseri umani.
Chissà se Seydou ritroverà a Caserta il suo amico muratore.
Chissà quei profughi che persone troveranno qui da noi, persone empatiche e pronte ad accoglierli o persone diverse.
Però Seydou ce l'ha fatta.
"Personne ne mourrà ici"
Aveva promesso Seydou.
E nessuno veramente morirà.
Perchè nessuno doveva morire.

6 commenti:

  1. visto alla sua prima uscita, in un cinema insolitamente pieno, visto il tema e la lingua (tutto in senegalese e francese, con i sottotitoli); peccato che oltre al mio 15enne vi erano pochissimi giovani e tantissime teste canute.
    Film che meriterebbe di essere visto a scuola. Capace di veicolare un pensiero; impossibile, post visione, non abbozzare qualche riflessione. Purtroppo chi necessiterebbe di riflettere, ragionare, difficilmente si avvicinerà a quest'opera.
    Garrone abbandona il racconto dei racconti di fantasia e ci racconta il racconto di tante, tantissime anime che hanno SOLO una colpa, che non è il colore della palle o il dialetto che parlano, ma solo il pezzo di terra dove sono nati. Sono colpevoli di essere nati nel posto sbagliato. Tra mio figlio milanese e il protagonista ci sarà 1 anno di differenza, ma l'essere nato al "Buzzi" Ospedale dei bambini di Milano o in una struttura del Senegal, fa tutta la differenza della vita.
    Il film è cinema, un viaggio epico, romantico, doloroso, crudo, disperato. Ci sono incontri che ti cambiano, altri ti salvano, altri ti crescono, altri ancora sarebbe meglio evitarli... ma NULLA puoi. La fortuna, il Karma, il destino, "... chiamalo come vuoi", può dare speranza come toglierti tutto.
    I sogni aiutano, a volte danno risposte, altre permettono alla narrazione di evolvere, di certo a Garrone permettono di dare respiro quando la situazione si fa tanto pesante da non essere sostenibile.
    Il viaggio è lungo, ma piangere, disperarsi, rinunciare non ha alcun senso e allora il coraggio ti porta ad esplodere il grido d'orgoglio "io .. capitano". Che bella la sequenza finale, che brividi, che potenza.
    Spesso quando si commenta un film, ci si piega alla retorica e si usano frasi fatte tipo: "male necessario", "pugno allo stomaco", ecc.. beh questa volta la pertinenza di tali affermazioni non è in discussione.
    Consigliato

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    Risposte
    1. "Garrone abbandona il racconto dei racconti di fantasia e ci racconta il racconto di tante, tantissime anime che hanno SOLO una colpa, che non è il colore della palle o il dialetto che parlano, ma solo il pezzo di terra dove sono nati. Sono colpevoli di essere nati nel posto sbagliato. Tra mio figlio milanese e il protagonista ci sarà 1 anno di differenza, ma l'essere nato al "Buzzi" Ospedale dei bambini di Milano o in una struttura del Senegal, fa tutta la differenza della vita."

      Alla fine, per un buon 70%, il segreto di ogni vita è qua

      Per fortuna che nell'altro 30% ci siamo noi, le nostre scelte, il nostor coraggio, la nostra fortuna o sfortuna, le persone che incontriamo, le opportunità, le gioie e i dolori

      Ma dove nasciamo, come e con chi resta sempre una base che è più di una base ma 3/4 dell'opera

      Sì, i sogni qua rappresentano sia quella cosa di cui parlavo - ovvero immagini dell'incredibile empatia della sua anima - che "alleggerimenti" alla pesantezza di quello che sta vivendo. Alleggerimenti di cui gode anche lo spettatore (tra l'altro sono due scene di volo)

      sequenza finale indimenticabile, se non fosse finito in quel modo me incazzavo ;)

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  2. Propaganda per piano Kalergi...aprire occhi

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