Nuovo record sul buio, 23 mini-medie recensioni tutte insieme :)
Quest'anno "avevo" 3 ragazzi a vedere film a Venezia.
Per problemi organizzativi miei o di recensioni tardive loro (non sono professionisti e hanno fatto tutto in ritagli di tempo) abbiamo deciso di fare un "mega unico grande postone" adesso, con tutte i loro pezzi.
In realtà a me piace molto questa impostazione, anche perchè trovare tutto in un luogo unico è davvero comodo.
Vero è che a 2/3 giorni dalla chiusura della Mostra questi post sembrano già anacronistici ma ricordiamo sempre che questo blog esiste per parlare di film, non di attualità o premi, di cui ce ne siamo sempre fregati.
Quindi vi lascio alle recensioni (tantissime!) di Enrico, a quelle di Tommaso e all'unica (però vedi che occhio? quella del vincitore) di Francesca.
Non posso leggerle perchè non ho visto nulla ma son sicuro saranno davvero interessanti e ben scritte.
Ah, visto il numero diversissimo di contributi di ognuno ho pensato di alternare i 3 nell'impaginazione (grazie Gianluca, sempre)
Ah, potreste trovare anche lo stesso film raccontato da più persone eh, credo sia interessante come cosa.
Buona lettura!
Quest'anno "avevo" 3 ragazzi a vedere film a Venezia.
Per problemi organizzativi miei o di recensioni tardive loro (non sono professionisti e hanno fatto tutto in ritagli di tempo) abbiamo deciso di fare un "mega unico grande postone" adesso, con tutte i loro pezzi.
In realtà a me piace molto questa impostazione, anche perchè trovare tutto in un luogo unico è davvero comodo.
Vero è che a 2/3 giorni dalla chiusura della Mostra questi post sembrano già anacronistici ma ricordiamo sempre che questo blog esiste per parlare di film, non di attualità o premi, di cui ce ne siamo sempre fregati.
Quindi vi lascio alle recensioni (tantissime!) di Enrico, a quelle di Tommaso e all'unica (però vedi che occhio? quella del vincitore) di Francesca.
Non posso leggerle perchè non ho visto nulla ma son sicuro saranno davvero interessanti e ben scritte.
Ah, visto il numero diversissimo di contributi di ognuno ho pensato di alternare i 3 nell'impaginazione (grazie Gianluca, sempre)
Ah, potreste trovare anche lo stesso film raccontato da più persone eh, credo sia interessante come cosa.
Buona lettura!
ENRICO GASPARI
LUMBRENSUEÑO di José Pablo Escamilla (Messico)
Ah, Venezia, la Mostra del Cinema. L’aria di mare e di novità. La stanchezza che si mischia all’eccitazione febbrile. Le stroncature, che, come dice Ego in Ratatouille, “sono uno spasso da scrivere e da leggere”. Cominciamo proprio così, oggetto, questo film messicano. Mentre entravo in sala leggermente affannato, ho catturato qualche stralcio di introduzione della presentatrice, che diceva come questo film fosse prodotto a basso budget proprio dalla Biennale, e creato da un collettivo di registi. Già mi sono scesi i sudori freddi, ma forse era solo la corsa per raggiungere il posto, non essere prevenuto, mi sono detto. Poi, il film comincia, introdotto dal solito montaggio animato. (E questo non c’entra niente, ma da quanti anni è che non lo cambiano? Il logo viene giustamente rinnovato ogni anno, e poi al film vero e proprio trovi sempre lo stesso motivo, che sarà lì ormai da quando la Coppa Mussolini era ancora un premio.) Insomma, comincia l’avventura. Ed ecco flash, luci sfocate, scritte ad effetto, per accompagnarci. Non giriamoci tanto intorno, il film è brutto. Anzi, più che altro noioso e pretenzioso (nonostante attori anche bravi, come il protagonista e la sua sorella filmica), magari non ai livelli di The Maiden, l’anno scorso. Persino la trama ha qualche similitudine, se così vogliamo chiamare la vita di questo ragazzo in un fast food messicano, e come la cambia dover affrontare un lutto. Questo porta ad un primo stralcio del film profondamente inconcludente, dove si vaga qua e là senza un punto. Un secondo, dove immagino dovremmo sentire il dramma per il suo amico complottista, quello che per tutto il film fa cose e spara discorsi senza capo né coda. Quasi mi aspettavo che ad un certo punto saltasse su, gridasse “LIBERATI!”, e armato di un cappello di stagnola andasse ad unire le forze su Facebook al complottista di Piove. Terza e ultima una mezz’oretta di elaborazione, dove devo essermi addormentato più volte, data l’alzataccia per venire a Venezia. Nel mezzo, continui stralci, come ho già detto, di frasone che compaiono sullo schermo, e sembrano le robe fintamente profonde e nichiliste che scrivevo io in terza media per sentirmi importante. Insomma, cominciamo bene.
DOGMAN di Luc Besson (Francia)
Con una certa sorpresa, ho ritrovato al Festival (in concorso pure!) Luc Besson, uno dei miei registi preferiti ancora in attività. E con un titolo che agli italiani non può non rimandare a Garrone, presente anche lui in concorso e, credo non a caso, nei ringraziamenti di questo film. La storia comincia in una notte americana, quando la polizia ferma per strada un furgone. Quasi un inizio alla Prisoners, con la pioggia, questo travestito sanguinante e di cui non vediamo il volto alla guida, nessun documento ma un furgone pieno di cani. Il resto è un lungo flashback alla stazione, dove il nostro “uomo cane” racconta la sua tragica e strana storia alla dottoressa chiamata lì per capire chi è. Insomma, intrigante, nelle premesse come nello sviluppo, anche se a titolo assolutamente personale, mi è sembrata una pellicola, come dire, poco “bessoniana”. Non che il francese volesse fare Joker piuttosto che un film suo, come hanno sostenuto tanti. Uno dei pregi maggiori qui, è la mancanza di quella complicità morale con un protagonista che amorale lo è totalmente, che affossava un film come quello di Phillips. Besson è interessato solo a raccontarti una storia, quella di un uomo particolare, che ha fatto grandi cose e terribili cose. Non da solo ovviamente, ma circondato dai più fedeli amici dell’uomo. E non me ne voglia un Caleb Landry Jones coraggiosissimo, spesso sopra le righe ma a suo modo sontuoso, sono loro le vere star del film. I canidi di tutte le razze e dimensioni, le loro espressioni (far recitare un cane è difficile, anche se poi non come con un cane di attore), la loro presenza intimidatoria o consolatoria, la loro intelligenza, chiaramente assistita dietro le quinte dai non meno importanti addestratori. Ecco, questo è il Besson che ci piace, che lavora alla vecchia maniera con la terra e con il fango, senza la faciloneria degli effetti speciali; che è sfrontato e senza paura, come nella scena del drag show sulle note di Sweet Dreams, dove affronta il camp e lo trasforma in lirica, similmente a come aveva fatto in Valerian nell’analoga scena del club mutaforma. D’altronde, credo che Besson sia l’unico regista al mondo in cui la quota “citazioni ai classici” (stavolta con Shakespeare) sia altrettanto consistente di quella “sparatorie ignoranti”… Messo da parte tutto questo, sembra comunque una Carica dei 101 - quello sì, rivisto recentemente, un signor film coi nostri amici animali – in salsa signori della droga più che una vera opera bessoniana. E non aiutano certi difetti oggettivi, come i suddetti criminali, tremendamente sopra le righe e stereotipati, pura carne da macello. Lo sono pure il padre e il fratello nei flashback d’infanzia, protagonisti della scena del fucile, un incredibile pasticcio di continuità: viene sparato un colpo che sarà all’altezza dei piedi (tanto che lì si crea un buco nella rete della gabbia), lui che vola all’indietro come se lo avessero colpito in pancia, e il colpo vero e proprio che si scopre essere… al dito. Mentre la scheggia che lo paralizza, nella schiena. Insomma, un disastro, come lo è il personaggio della dottoressa, totalmente inutile, noiosa, senza un’espressione che sia una diversa da quella che si tiene in faccia tutto il film. Però c’è anche tanto di bello, i cani, le scene e i personaggi del club, tutte divertenti e ispirate, il ritmo che non cala mai, l’originalità di una sceneggiatura autentica, scritta di suo pugno da Besson. Nonostante sentimenti contrastanti, alla fine, davvero non si riesce a voler male a questo film.
SER SER SALHI di Lkhagvadulam Purev-Ochir (Mongolia)
La City of Wind del titolo inglese di questo film è Ulan Bator, la capitale della Mongolia, paese immensamente affascinante, e che, credo per la prima volta, al Festival, posso scoprire in un esemplare della sua filmografia. E mi è andata bene, perché Ser Ser Salhi è un bel, forse ottimo film. La storia segue Ze, un ragazzo dei quartieri yurta della metropoli, già questo un dettaglio particolare. Il mio occhio occidentale, che tra l’altro in Asia non è mai stato, si intriga davanti ad un posto così legato alla propria Storia, a quella tradizione nomadica che ha distinto il ceppo mongolo nei secoli, e che ancora non può rinunciare alle tende, nemmeno all’epoca degli appartamenti automatizzati. Uno di quelli che sogna anche il nostro protagonista, giovane, studente di una città viva e per molti versi orientata al futuro, sebbene abiti in un simile quartiere con la sua famiglia e faccia, a richiesta, il lavoro più arcano che esista, lo sciamano. È durante una di queste consulenze che incontra una ragazza, Maralaa. Sebbene malata, e prossima ad una delicata operazione, lei non crede minimamente agli appoggi del “corpo spirituale”. Diversamente da lui, che fa lo sciamano non per soldi o spinto dalla famiglia (almeno, non principalmente), ma sente fin da piccolo questa connessione ultraterrena. Eppure, dopo che l’intervento riesce, i due si ritrovano e cominciano effettivamente a legare. Molto interessante l’atteggiamento dei genitori in questo, defilato, sebbene non assente, e certamente amorevole. Ma d’altronde questo è un efficace spaccato di famiglia, dove spicca la sorella, che per prima aveva sentito la ribellione adolescenziale, la voglia di scappare di casa, l’ansia della sua età che il fratello doveva calmare con lo scacciapensieri. Ad un certo punto tocca a Ze, innamorato, provare la felicità mondana, sentire allentato il legame coll’antenato, ed è lei, tornata a casa dopo essere rimasta incinta, che si dimostra adulta e prende in mano la situazione (e lo scacciapensieri). Nemmeno Maralaa rimane schiacciata, anzi è un gran ritratto di gioventù inquieta, senza amici perché scostante, infelicemente tesa tra la madre, più credente, che cerca di rifarsi una vita a Ulan Bator, e il padre trasferitosi in Corea, che le manca profondamente. Insomma, è chiaro come questo film voglia raccontare il conflitto tra la modernità e le tradizioni, e come esse vengano accolte o respinte dai giovani mongoli. Il maggiore successo della pellicola, comunque, è accontentarsi largamente di essere una semplice, ma per nulla semplicistica, storia d’amore tra ragazzi, raccontata con grazia, poche pretese, e due interpreti dolcissimi. Per quanto mi riguarda, specie visto l’andazzo della Mostra, un successo.
La City of Wind del titolo inglese di questo film è Ulan Bator, la capitale della Mongolia, paese immensamente affascinante, e che, credo per la prima volta, al Festival, posso scoprire in un esemplare della sua filmografia. E mi è andata bene, perché Ser Ser Salhi è un bel, forse ottimo film. La storia segue Ze, un ragazzo dei quartieri yurta della metropoli, già questo un dettaglio particolare. Il mio occhio occidentale, che tra l’altro in Asia non è mai stato, si intriga davanti ad un posto così legato alla propria Storia, a quella tradizione nomadica che ha distinto il ceppo mongolo nei secoli, e che ancora non può rinunciare alle tende, nemmeno all’epoca degli appartamenti automatizzati. Uno di quelli che sogna anche il nostro protagonista, giovane, studente di una città viva e per molti versi orientata al futuro, sebbene abiti in un simile quartiere con la sua famiglia e faccia, a richiesta, il lavoro più arcano che esista, lo sciamano. È durante una di queste consulenze che incontra una ragazza, Maralaa. Sebbene malata, e prossima ad una delicata operazione, lei non crede minimamente agli appoggi del “corpo spirituale”. Diversamente da lui, che fa lo sciamano non per soldi o spinto dalla famiglia (almeno, non principalmente), ma sente fin da piccolo questa connessione ultraterrena. Eppure, dopo che l’intervento riesce, i due si ritrovano e cominciano effettivamente a legare. Molto interessante l’atteggiamento dei genitori in questo, defilato, sebbene non assente, e certamente amorevole. Ma d’altronde questo è un efficace spaccato di famiglia, dove spicca la sorella, che per prima aveva sentito la ribellione adolescenziale, la voglia di scappare di casa, l’ansia della sua età che il fratello doveva calmare con lo scacciapensieri. Ad un certo punto tocca a Ze, innamorato, provare la felicità mondana, sentire allentato il legame coll’antenato, ed è lei, tornata a casa dopo essere rimasta incinta, che si dimostra adulta e prende in mano la situazione (e lo scacciapensieri). Nemmeno Maralaa rimane schiacciata, anzi è un gran ritratto di gioventù inquieta, senza amici perché scostante, infelicemente tesa tra la madre, più credente, che cerca di rifarsi una vita a Ulan Bator, e il padre trasferitosi in Corea, che le manca profondamente. Insomma, è chiaro come questo film voglia raccontare il conflitto tra la modernità e le tradizioni, e come esse vengano accolte o respinte dai giovani mongoli. Il maggiore successo della pellicola, comunque, è accontentarsi largamente di essere una semplice, ma per nulla semplicistica, storia d’amore tra ragazzi, raccontata con grazia, poche pretese, e due interpreti dolcissimi. Per quanto mi riguarda, specie visto l’andazzo della Mostra, un successo.
AGGRO DR1FT di Harmony Korine (USA)
Una provocazione di Harmony Korine. Qualcuno si sarebbe aspettato qualcosa di diverso, da un regista col curriculum simile? Credo piuttosto che chi è entrato nelle sale che davano Aggro, si aspettasse un film provocazione, e se certamente il secondo attributo è giustificato, il primo mi lascia perplesso. Di solito i film si vedono, non si subiscono, almeno non del tutto, parzialmente casomai. Qui lo spettatore può anche rimanersene fuori dalla sala, perché il suo coinvolgimento è totalmente sacrificato. E intendiamoci, all’inizio è anche affascinante questo radicalismo, la rappresentazione perversa di un mondo dove tutto è bruttezza e orrore, dove il killer protagonista ha letteralmente un demone in sé, che gli sussurra, anzi urla, perché niente è sottile o delicato qui, vomita cattiveria e orrore. Ma dopo dieci minuti, diventa unicamente punizione. È come quando ti mettevano, appunto, in punizione alle elementari (almeno a me è successo le ultime volte lì, non so se lo facciano ancora): volta le spalle alla classe e guarda il muro. Non imparerai nulla, anzi sarai faccia a faccia col nulla stesso. Qui però non puoi nemmeno goderti il silenzio e la tranquillità che esistevano persino in esperienze simili: sei assordato da un sonoro opprimente, pungolato agli occhi da un regista che ha creduto bene girare un’ora e venti di infrarossi, mortificato da una storia che potrebbe aver scritto uno di quei ragazzini americani che va a sparare nelle scuole – il protagonista che si definisce “il più grande assassino del mondo”, roba di un infantile unico – dove tutte le donne sono puttane e tutti gli uomini demoni violenti e scamiciati. Aggro Dr1ft qualcuno ha anche avuto il coraggio di definirlo geniale; per quanto mi riguarda geniale forse Korine lo è, che da quando ha scoperto le spiagge, i passamontagna e probabilmente la droga della California costiera in Spring Breakers, “racconta” solo quello facendosi anche ricamare sopra dai critici. Beh, contento lui, contenti voi, contenti tutti.
TOMMASO FERRERO
Una provocazione di Harmony Korine. Qualcuno si sarebbe aspettato qualcosa di diverso, da un regista col curriculum simile? Credo piuttosto che chi è entrato nelle sale che davano Aggro, si aspettasse un film provocazione, e se certamente il secondo attributo è giustificato, il primo mi lascia perplesso. Di solito i film si vedono, non si subiscono, almeno non del tutto, parzialmente casomai. Qui lo spettatore può anche rimanersene fuori dalla sala, perché il suo coinvolgimento è totalmente sacrificato. E intendiamoci, all’inizio è anche affascinante questo radicalismo, la rappresentazione perversa di un mondo dove tutto è bruttezza e orrore, dove il killer protagonista ha letteralmente un demone in sé, che gli sussurra, anzi urla, perché niente è sottile o delicato qui, vomita cattiveria e orrore. Ma dopo dieci minuti, diventa unicamente punizione. È come quando ti mettevano, appunto, in punizione alle elementari (almeno a me è successo le ultime volte lì, non so se lo facciano ancora): volta le spalle alla classe e guarda il muro. Non imparerai nulla, anzi sarai faccia a faccia col nulla stesso. Qui però non puoi nemmeno goderti il silenzio e la tranquillità che esistevano persino in esperienze simili: sei assordato da un sonoro opprimente, pungolato agli occhi da un regista che ha creduto bene girare un’ora e venti di infrarossi, mortificato da una storia che potrebbe aver scritto uno di quei ragazzini americani che va a sparare nelle scuole – il protagonista che si definisce “il più grande assassino del mondo”, roba di un infantile unico – dove tutte le donne sono puttane e tutti gli uomini demoni violenti e scamiciati. Aggro Dr1ft qualcuno ha anche avuto il coraggio di definirlo geniale; per quanto mi riguarda geniale forse Korine lo è, che da quando ha scoperto le spiagge, i passamontagna e probabilmente la droga della California costiera in Spring Breakers, “racconta” solo quello facendosi anche ricamare sopra dai critici. Beh, contento lui, contenti voi, contenti tutti.
TOMMASO FERRERO
LA BÊTE di Bertrand Bonello (Francia, Canada)
Una bestia ti sta inseguendo, quando ti troverà qualcosa di terribile accadrà. “Ficata”, penso subito, “che premessa bomba”. Eppure, la bestia non arriva mai a mordere, come La Bête non arriva mai ad un punto fermo che ci faccia dire “Oh, ste due ore e trenta davanti a uno schermo sono proprio state un buon uso del mio tempo”. Resta un grande amaro in bocca di aver visto un film che poteva essere, ma non è stato, un “potrebbe emozionarmi”, ma non ha emozionato. Insomma, La Bête è un film elegantissimo, capace di ottimi picchi visivi, di un montaggio sperimentale, ma non fastidioso, e di giocare con il significato del tempo sullo schermo in maniera egregia. Tutto questo è ottimo, se non fosse che poi ci propone una lettura di una storia d’amore sciapa, non del tutto riuscita, che arriva e non arriva allo stesso tempo. Perché di amore, infine, parla, una coppia di innamorati costretta o benedetta, dal dovere di rincontrarsi a ogni reincarnazione, ma che non possono mai consumare e portare a termine il loro amore. Amore e morte, rassegnazione e lotta e un futuro in cui i grandi sentimenti umani, perché scomodi, vanno eliminati tramite una lunga e complessa terapia. Peccato che siano gli stessi sentimenti che il film non riesce ad innescare nello spettatore, quindi, forse, “missione riuscita”? Comunque, Lea Seydoux e George McKay sono due interpreti davvero eccezionali.
THE KILLER di David Fincher (USA)
Un film Netflix, di quelli che il giovedì sera, dopo lavoro, te li guardi anche, non di certo un film Netflix alla “Roma”, non di certo un gran film, non di certo un bel film. Un film, d’azione per la precisione, che di Fincher ha forse la tematica, killer a pagamento, ma non la potenza espressiva e l’intrigo a cui ha abituato il suo pubblico. Un film minore di un ottimo regista americano, un “prende sei ma non si impegna”. Fassbender è un killer metodico e capace che, mentre ascolta gli Smiths, sbaglia un colpo. Da lì il suo percorso a ritroso per ritrovare e punire i colpevoli di aver attuato “la procedura” ovvero un tentativo di eliminarlo, che ha portato a coinvolgere la fidanzata del nostro. Un po’ di violenza completa, per un percorso di vendetta dopo vendetta. Qualche insight tecnico su come uccidere e far sparire i cadaveri per poi una eccezionale barzelletta di Tilda Swinton e un finale facile. Insomma un Fincher di basso livello, produzione di intrattenimento senza alto “valore cinematografico”, se questo valore davvero può considerarsi esistente.
AKU WA SONZAI SHINAI di Ryusuke Hamaguchi (Giappone)
Ci sono due cose che fanno incazzare i contadini, il progresso e quando gli si tocca la loro terra. E quando si tocca la loro terra in nome del progresso? Eh, lì sono cazzi. Un villaggio nelle montagne giapponesi viene scelto come luogo per la creazione di un glamping da un’agenzia di modelli di Tokyo. I due inviati dovranno convincere i cittadini a cooperare, ma scopriranno un nuovo modo di vivere. Un film contemplativo, ma molto contemplativo. Si parla di cinema, di quello da quattro minuti di ottima composizione e in cui le immagini trovano senso nella loro reiterazione. Rispetto a Drive My Car un film, a mio avviso, inferiore. Dialoghi rarefatti e meno pregnanti, il film arriva meno emotivamente, anzi è quasi del tutto distaccato. Parliamo comunque di un film riflessivo, oscuro, capace di stupire, ma con una certa difficoltà di lettura e una forma espressiva che per i più può risultare respingente. C’è molta differenza tra gli uomini e gli animali selvatici quando la loro vita è così a contatto?
PRISCILLA di Sofia Coppola (USA, Italia)
Cosa succede quando la star lascia lo spazio all’uomo? E se i riflettori di quella star sono i più luminosi del mondo quanto saranno lunghe le sue ombre? La storia di Priscilla Presley, la moglie di Elvis, che da ragazzina si trasforma in donna al fianco del re del rock, scoprendone l’amore e le follie. Un ritratto sincerissimo, senza patetismi, di una ragazza presa come trofeo e cresciuta come unico supporto di un uomo fragile e lentamente consumato. Un dipinto di una vita in una Graceland simile a Versailles, la storia di una giovanissima ragazza che scopre che il sogno di una vita si sta lentamente trasformata in una noiosa agonia. La bellezza di questo film risiede nella capacità di raccontare una vita senza cadere in ciò che potrebbe essere una serie di luoghi comuni e ritratti stereotipati. Non c’è solo “uomo malvagio e donna oggetto”, per intenderci. Per quanto questo elemento traspaia a tratti, resta anche una bellissima storia d’amore, delicata, raccontando una relazione tossica ma sostenuta da un amore profondo e reale. Dolcezze, debolezze e crolli psicologici portano sullo schermo una formazione umana stupenda, capace di mostrare lati nascosti di una donna che si va a creare da una bambina. Il film segue un tratto ristretto della vita di Priscilla, essendo tratto dal libro “Elvis e Io” della stessa. Questo permette un forte focus sulle debolezze e le difficoltà del re del rock, ma senza far eclissare il personaggio stesso di Priscilla, che resta protagonista al fianco di uno dei più grandi protagonisti di sempre. La bellezza del film consiste nel raccontare la vita della più grande fan di Elvis, ovvero sua moglie, eliminata completamente dalla sua vita pubblica per anni e anni senza poter partecipare attivamente, se non dietro alle quinte, al sogno del marito. Se si può portare una piccola critica al film, è nell’aumento di ritmo finale, che porta a una conclusione esageratamente veloce della vicenda, portando meno attenzione all’evoluzione finale che porta Priscilla ad abbandonare la sua prigione dorata.
FRANCESCA MUNARIN
POOR THINGS di Yorgos Lanthimos (Regno Unito)
Senza che questa voglia nemmeno lontanamente essere una recensione, ma solo il goffo tentativo di elogiare un film incredibile, cercherò di dire qualcosa di Poor Things, presentato da Yorgos Lanthimos in concorso all’ottantesima mostra del cinema di Venezia.
È un capolavoro.
Le premesse perché si stia esagerando ci sono tutte: l’ho visto in sala grande, a cinque seggiole dal regista, alla prima proiezione con 2300 persone, e gli ho pure detto un timido “thank you” a cui ha risposto umilmente: “thank YOU”, le persone hanno applaudito una volta durante il film e per dieci minuti consecutivi al termine. L’emozione è stata tanta.
Però adesso che si è intascato il leone d’oro (per quanto possano valere i premi) e che le lodi piovono da tutte le parti, forse non sembrerà più che io esageri.
È superfluo riportare la trama perché la storia risponde a questa domanda: com’è essere un essere umano? E in questo caso particolare: com’è essere “due” donne? Per forma e contenuto si tratta innegabilmente anche di un manifesto per la rinascita del concetto di “femminile”. Che è necessaria per tutti. Ma il pregio del film è andare oltre, molto oltre. Ho letto “Barbie Punk” e mi sono venuti un po’ i brividi. L’ambientazione gotico-futura, le peripezie, i botta e risposta, gli atteggiamenti della protagonista sono quasi un ribaltamento dello sguardo, non dal vecchio al nuovo, ma da un già-oltre a un di-qua. È un’umana d’ingenuità fanciullesca (nel senso di Nietzsche, di Leopardi), curiosa, vivace, che anche quando “cresce” rimane meravigliata, stupita, delusa dal mondo che si sfata dinanzi a lei. Pungente, ironica, con la meraviglia che davvero avrebbe un’umana se potesse vedere se stessa per la prima volta, vivere da attrice e spettatrice la propria condizione. È proprio questa prospettiva dal semplice al complesso a dare la sensazione di star vedendo qualcosa di tangibile e surreale. Con “semplice” si intende ciò che rappresenta Bella, un umano nel senso universale e completo del termine, che vive, scopre il corpo di una donna, nel doppio mente-corpo, nel “complesso”, ovvero nella costitutiva dicotomia di un mondo determinato, scisso, molteplice, con uomini e donne, adulti e bambini, giusto e sbagliato, fuori e dentro, vita e morte. Le atmosfere in questo sono straordinarie: i cieli, le architetture, i costumi.
Il titolo “Poor things” (povere cose questi umani, e lo si dice ridendo e piangendo) evoca per me l’intento di universalità, se posso, riuscito.
Tralascio i riferimenti a qualsiasi tipo di rappresentanza ideale nei personaggi perché il film parla da sé, e veramente sarebbe stato meglio non scriverne proprio nulla (si veda che il medico-creatore viene chiamato God).
C’è un dialogo ad un certo punto, tra Bella e Duncan Wedderburn (per intenderci Mark Ruffalo), in cui lei (mi spiace non poterlo rivedere per riportare le parole esatte ma a gennaio potrò) gli dice qualcosa di questo genere: “non posso definire una cosa come l’amore, non ha rilevanze empiriche, God dice che la conoscenza deriva da rigidi esperimenti e prove concrete”. Non è questo ma è qualcosa di simile, ed è vero, tremendo e infantile. Si ha la costante sensazione di stare sperimentando che “qualcosa di simile” sono gli umani: veri, tremendi e infantili; questo e più di questo, uguali a se stessi e sempre diversi.
La memoria e il ricordo di sé, il ritorno a casa di Holderlin, un vecchio che è nuovo. C’è un punto in cui God evoca un ricordo d’infanzia, di una caduta in bicicletta, e io non so perché ho avuto la sensazione che fosse un reale vissuto appartenente al regista.
Kant diceva che una cosa è bella quando non si sente di dovervi togliere o aggiungere nulla, e che il tutto non è mai la somma delle parti, è qualcosa di più. Se lo portassimo a vedere un film, magari questo, forse direbbe: “ragazzi, non avete capito un cazzo”, ma per me Poor Things è esattamente questo. Un capolavoro perché rimanda a tutto senza essere uguale a nulla, e lo si guarda con lo stupore continuo che stia migliorando, che faccia incredibilmente meglio di se stesso.
C’è Lynch, c’è Kubrick, c’è Dostoevskij, c’è Hitchcock, c’è Anna Karenina, c’è Eggers, c’è Cronenberg, c’è Mary Shelly, c’è Shakespeare, ci sono i greci. E c’è il nulla, il togliere del ridicolo, della risata: quanto fa ridere questo film. Non ridevo così dall’ultima cosa che ha dentro e che lo rende per me un film del cuore: Frankenstein Junior. Film della mia famiglia e della mia infanzia. Mi rendo conto delle divagazioni di questo scritto ma era meglio schiudersi o non scrivere per niente, che scriverne in altro modo.
I personaggi sono perfetti, i capitoli misurati, la regia bellissima, gli attori straordinari, la colonna sonora strepitosa, non voglio dire niente di questo perché è bello vederlo.
Ho letto qualcosa per l’università che mi ha ricordato questo film.
Gadamer risponde così alla domanda su quale sia la significatività del bello e dell’arte: “Essa ci dice che nella particolarità dell’incontro non è il particolare, ma la totalità del mondo esperibile, e la posizione dell’uomo nel mondo, persino la sua finitezza rispetto alla trascendenza, a divenire esperienza” (L’attualità del Bello, p.35).
E ancora, per la sensazione di ricordare e di scoprire: “riconoscere significa conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto. E costituisce l’autentico processo dell’-accasamento- Einhausung umano” “Nel riconoscimento è implicito il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro. Il riconoscimento vede il permanente nel fuggevole.” (51)
Rilke, del di più che si trova in tali opere, direbbe: “qualcosa del genere si trovava tra i mortali”. E per non dire più niente, che tutto era già superfluo, Mnemosyne di Holderlin: “Ein Zeichen sindwir, deutungslos” (“noi siamo un segno, senza interpretazione”). Poor Things.
ENRICO GASPARI
EXPLANATION FOR EVERYTHING di Gábor Reisz (Ungheria, Slovacchia)
Curioso film ungherese questo, dal titolo originale che non mi sento di menomare, forse uno di quelli su cui, nel bene o nel male, mi sono interrogato di più in questi giorni precedenti alla scrittura. Il protagonista, Abel, è un ragazzo in procinto di dare gli esami di maturità, e nello stesso momento, realizza di essere innamorato di una sua compagna di classe. Non ci è dato sapere se ci sia un collegamento, o quale sia il vero motivo tra i vari ipotizzati nel film, o se nemmeno lui lo conosca veramente, sta di fatto che Abel, all’interrogazione di Storia fa scena completamente muta. La bocciatura sconvolge tutti, ma il vero dramma arriva quando il ragazzo sostiene di essere stato bocciato per via della coccarda nazionale appuntata sulla giacca, quella che gli ungheresi indossano nella festa nazionale del 15 marzo. Credo che l’intento di questo film sia rifarsi a quelle classiche denunce della macchina del fango, forse portate all’apice da Thomas Vinterberg nel suo capolavoro Il Sospetto. Addirittura, la prima parte del film è raccontata con l’espediente (veramente riuscito) dei punti di vista, che cambiano ogni tot minuti - una piccola chicca è notare i minuti sfasamenti della memoria, coi dettagli diversi a seconda delle persone - e mostrano le giornate precedenti all’esame di Abel, di suo padre e del suo professore. Ancora, come nel film danese abbiamo una figura scolastica infangata da uno degli stessi giovani che sta crescendo. Solo che Mikkelsen nella sua storia subiva una vera e propria persecuzione, ancora più terribile per via dell’ambiente sociale ristretto, e comunque non veniva mai data la certezza al 100% che fosse innocente dalle accuse. Invece qui siamo a Budapest, simbolo di un paese politicamente spaccato quando la storia esce sui giornali, ma in cui il professore di Storia Jakab non sembra mai annaspare, anzi le uniche manifestazioni di ostilità praticamente le riceve solo dalla sua compagna. Non c’è mai un vero dubbio sulla sua onestà intellettuale (almeno, non che io abbia percepito) a parte qualche generica accusa di essere troppo arrogante; il fatto che Janka, la ragazza di cui è innamorato Abel, avesse confessato un’attrazione per lui rimane una miccia inesplosa che mai influirà sulla trama. Forse questo voleva essere un film politico, creato da ungheresi, per ungheresi, come dimostra il lunghissimo dialogo tra Jakab e il padre di Abel, infarcito di riferimenti alla situazione del paese, visioni contrapposte del liberalismo, nazionalismo, Orban e il suo partito Fidesz… Tutto, insomma, tranne che ad Abel e il suo esame di maturità, che, con una mossa molto intelligente, viene praticamente estromesso dalla faccenda, tanto che persino il film sembra disinteressarsi a lui, ormai una pedina, persa in una polemica che parla di tutt’altro. Intendiamoci, dunque, questo è un film chiaramente sveglio, con dialoghi spesso aguzzi e furbi, un buon umorismo sparso qui e là - il tipo che sente la dichiarazione di Abel e gli fa il pollice in su, l’odioso veterano di guerra che racconta una versione, anche qui, dubbia degli eventi - e talvolta, efficacemente ambiguo. I problemi stanno nel bilanciamento: troppi personaggi, alcuni ottimi ma senza un vero ruolo, come il collega giovane del padre, che vuole solo andarsene dall’Ungheria, altri che dovrebbero essere importanti, come la giornalista Erika che scova lo “scoop” dell’esame, ma sono di fatto inutili. Troppo minutaggio, due ore e mezza per una storia così già sono sproporzionate, poi in Palabiennale, la sala più scomoda di tutto il Lido, sono cattiveria. Troppe direzioni che vengono tentate senza scegliere una strada unitaria, da una regia, in formato ridotto e “sporca”, claustrofobica ma senza creare suspense. Lascio a chi legge tirare le proprie conclusioni.
THE CAINE MUTINY COURT-MARTIAL di William Friedkin (USA)
Alleluia, egli sia lodato. In questo caso, il Signore in questione non è divino, anche se ormai appartiene alla vita oltreterrena. È solo un Dio del Cinema, e il suo nome è William Friedkin. Lo ammetto, avevo una certa paura di questo film. Il grande cineasta americano non è fra i miei registi preferiti, anzi considerato il segno indelebile da lui lasciato sul cinema ho visto colpevolmente poco di suo, giusto i film più famosi (includendo ovviamente l’Esorcista, che è stato restaurato e ripresentato proprio a Venezia 80). Eppure, c’era stato, sempre a Venezia, il bel documentario Friedkin Uncut ad accrescere la familiarità con questo grande, e la notizia della sua morte, avvenuta pochi giorni dopo l’annuncio di questo film, mi ha profondamente toccato. Quindi sì, la paura di rovinarsi un mito, magari con un passo falso sul traguardo, c’era. Completamente a torto, posso dire ora: The Caine Mutiny Court Martial è un film fantastico, per cui sarei tentato di sprecare la parola con la C, ormai totalmente inflazionata. Ovviamente, nella sua semplicità, poiché non infrangerà o rivoluzionerà alcune delle regole del Cinema: è un film teatrale, dichiaratamente, e con le radici ben piantate nella storia letteraria, più precisamente nel classico “L’ammutinamento del Caine”, qui riproposto in chiave moderna. Evidentemente Friedkin, che è anche l’adattatore per lo schermo, vedeva in questa pièce quel sottile confine tra il bene e il male, ricercato in tutta la sua filmografia, come riportato da una commovente citazione, apparsa a mo’ di preambolo. Come da titolo, tutto nasce con l’ammutinamento del dragamine Caine, nave militare americana stazionata tra il Mediterraneo orientale e il Mar Rosso. E noi lo sperimentiamo attraverso le parole dei protagonisti, quelli che c’erano, quelli che giudicano e cercano di capire, imputati, testimoni e tutto il resto. In particolare, c’è il fautore della destituzione Keith, il suo riluttante avvocato Greenwald, il capitano estromesso Queeg, e l’avvocatessa dell’Accusa e il giudice militare, interpretato da un’altra grande perdita, Lance Reddick (indimenticabile concierge del Continental nella saga di John Wick), a cui il film è dedicato. Tutti volti più o meno noti, che appaiono per pochi momenti o per tutto il film, ma tutti a loro agio con un testo tagliente e impegnato, veloce, che ti porta in un turbine di menzogne, nomi, regolamenti, ma anche riflessioni sulla moralità, sulla sanità e capacità di giudizio, sullo spirito militare. Tutti temi cari al suo creatore, ma ciò che sorprende non è la loro riproposizione, bensì come vengono messi in scena. Sappiamo che Friedkin pativa la malattia già durante la produzione, girava per il set in carrozzella; e, va detto, ha avuto un assistente di lusso, il grande Guillermo del Toro, ringraziato nei titoli di coda, a fargli da regista stand-in, cioè coprire i buchi quando stava troppo male. Ma questo Court Martial tutto sembra tranne un film del tramonto, di un ammalato né tantomeno di qualcuno che sta per morire. La regia di Friedkin è pulitissima, asciutta, senza un’oncia di smalto in meno rispetto ai suoi anni migliori. Una volta entrata in questa corte marziale non vi esce più, vola tra i volti, i movimenti degli avvocati con movimenti meticolosi, aiutata da un montaggio serrato ed entusiasmante, indugia nelle espressioni, sottolinea i dettagli giusti al momento giusto. Trovano spazio persino momenti di grande umorismo, come l’interrogatorio del marinaio semplice, furbescamente in contrasto con tutta la marzialità verbale degli altri, o la deposizione finale di Queeg, un torrente di parole che lascia tutti basiti. Sarebbe già bello così, ma poi arriva il finale. E quella che sembrava una banale battaglia tra un eroe solitario e un capitano paranoico diventa qualcosa di molto più contorto, sfumato. Il vero, grande protagonista di questa vicenda si rivela l’avvocato Greenwald, che scardina tutta la mia poca passione per i procedurali. Un doppio miracolo, facendo recitare bene Jason Clarke, che forse con questo testo, e il carisma dei capelli grigiobianchi e il volto scavato dagli anni, trova il ruolo della vita. Così silenzioso e dimesso all’inizio. Sempre più presente, potente al processo, ma sempre con riluttanza. E alla fine, a quel festino dove non c’è nulla da festeggiare, l’avvocato finalmente parla. E in quel discorso c’è l’esercito, c’è la doppiezza dell’essere umano, c’è l’America, “questo nostro grasso, stupido e felice paese”. Grazie William. Forse ancora dimenticavamo che genio eri, finché non ti abbiamo perso.
VAMPIRE HUMANISTE CHERCHE SUICIDAIRE CONSENTANT di Ariane Louis-Seize (Canada)
Che belle le sorprese, alla Mostra del Cinema. A dire la verità me l’aspettavo, avevo ottime sensazioni per questo film, e non sono state deluse. Però è sempre bello quando finisce l’intimità del buio in sala, tornano le luci, e tu hai riso, hai pensato, provato tante sensazioni diverse, sei stato attento e improvvisamente è l’ora di uscire, ma sei soddisfatto come dopo un buon pranzo. Tanto bello quanto semplice, come questo film. Canadese, anzi più precisamente quebecchese, uscito da quell’affascinante microcosmo francofono nel nuovo mondo. Una storia di vampiri, curiosamente molto di moda a Venezia 80 (il più chiacchierato è sicuramente El Conde, ma dovrebbe esserci un film coi succhiasangue in ogni sezione), il che non potrebbe rendermi più felice. Siamo appunto in Québec, e la protagonista è una “giovane” vampira (più di 60 anni e l’aspetto di una adolescente), Sasha. Croce e delizia della sua famiglia, visto che a causa di un trauma infantile (un clown “sacrificato” ad un suo compleanno), la sua compassione è talmente forte da non permetterle di uccidere gli umani per cibarsene. E per quanto amata dalla famiglia, si decide di spedirla da una cugina, che le insegnerà a cacciare. Con difficoltà aggiungerei, vista la cocciutaggine di lei e, idea meravigliosa, la borsa del sangue lasciata dal padre per tirare a campare la prima settimana. Ma Sasha un umano comincia a puntarlo veramente, un giovane studente con desideri suicidi… Allora, mettiamo subito in chiaro quello che non va, e poi torniamo a parlare bene di questo piccolo, speciale filmettino. Come accennato, io adoro i vampiri, e adoro la loro mitologia, il “canone” se vogliamo usare una parola di moda. Il contesto risulta più importante che mai, o si va a benedire tutta la loro credibilità. E qui il fatto che i vampiri “nascano” mi lascia perplesso. Cioè, come si nutriva Sasha prima della sera fatale? Ed è nata come gli umani, o è nata nel senso che è stata vampirizzata da piccola? Furbescamente si soffermano poco sui dettagli, ma c’è un vampiro psicologo, un vampiro dottore (originale, lo concedo), non sono una società decadente, allo sbando come nel bellissimo (film e libro) Intervista col vampiro. Poi, e qui siamo sul personale, se devo vedere una reinterpretazione moderna preferisco roba come Blade, che almeno sacrifica la logica alla rule of cool. Invece sta voglia un po’ hipster di fare il classico ma prenderlo anche in giro mi urta abbastanza, ed è una tendenza incarnata dall’attore che fa Paul, tutto faccette buffe, vestiti sformati e personalità zero. Ci si salva, e torniamo finalmente al bello, perché la regista chiaramente ama queste creature quanto il sottoscritto. La protagonista, Sasha, è un personaggio fantastico, caruccia, con questo visino delicato, la voce flebile e l’aria dimessa, ma è anche un animale con due zanne così, ha continuamente fame e quando finalmente si ciba c’è la forza sproporzionata e l’assalto quasi sessuale, come lo descriveva Bram Stoker, alla ricerca del sangue. La prima volta che fa l’appostamento a lui fra i container fa quasi paura, e senza nulla di speciale: un’attrice dai lunghi capelli d’ebano, il volto pallido, quel cappotto nero che la rende longilinea, la fa quasi fluttuare nell’eterna notte quebecchese; quindi recitazione, location, trucco e parrucco, e una regista fenomenale, benché esordiente, che sappia costruire la tensione, in pieno stile Hitchcock. Girare bene una commedia è una virtù immensamente sottovalutata, qui lo si fa senza svilire il testo, dove trovano spazio belle battute (“non farei male a nessuno, eccetto me stesso!”), comicità fisica, idee divertenti come l’idiota vampirizzato per caso, tanta fantasia, tutto senza insultare l’intelligenza del pubblico. Il finale va preservato dalle anticipazioni, ma diciamo che trova un modo astuto di evitare troppe implicazioni morali, con la giusta dose di allegria. Perfetto per una protagonista così, che la prima volta da “sessantenne” vediamo innamorata dell’umanità, che suona l’Inverno di Vivaldi, e più tardi, canta con trasporto una canzone intera, con la camera fissa per minuti, l’anti-montaggio di oggi. Un vero gioiellino per un esordio, da tenere d’occhio.
LA BÊTE di Bertrand Bonello (Francia, Canada)
Su questo ho aspettato qualche giorno a scrivere. Incertezza ben rappresentata dalla frase dell’anno (catturo sempre qualche perla tra la fauna della Biennale), questa volta cortesia di una ragazza che dopo la proiezione ha detto “è come quando mi dicono «i sogni hanno senso» e poi i miei sogni sono questo”. Forse aumentata nella nuova fase di sbigottimento, davanti a questo pastone di due ore e mezza che vorrebbe parlare di vita, morte, importanza del sentimento irrazionale anche davanti all’efficienza dell’IA, reincarnazione, un po’ tutto alla fine, come nel fritto misto. Tre sono le vite di lui e di lei: una nella Parigi del 1910, durante la, veramente avvenuta, esondazione della Senna, una in America nel 2014, una nel distopico futuro del 2044, dove l’intelligenza artificiale ottimizza l’efficienza lavorativa con un repulisti genetico, che ti libera dei traumi delle vite passate rendendoti una bambola apatica. Quindi sarà una storia d’amore travolgente, no? No, a giudicare dalla chimica tra i due, e mi spiace soprattutto per la Seydoux, che penso di non aver mai visto utilizzata così male in un film. Per essere chiaramente schierato col potere anche distruttivo dell’emozione, qui tutti recitano in una specie di trance, come se avessero davvero fatto il trattamento genetico del futuro. Almeno quando sono in scena, perché questo La Bestia ha una mancanza quasi disturbante di personaggi “di fondo”. Il marito nella prima vita, la modella nella seconda, l’androide nella terza, compariranno a dir tanto cinque minuti in tutto il film, quella di mezzo solo per far conoscere una discoteca alla protagonista per poi levarsi di torno e non tornare mai più. Già, poi il fatto che queste facciano amicizia al provino, con la Seydoux in mezzo a indossatrici ventenni, è ridicolo, non per lei che, sia benedetta, ha ancora un fisico di pietra, ma il fatto oggettivo che la francese ha il doppio degli anni di tutte le altre. E glielo fanno pure dire (!), testualmente, “non ho più vent’anni” (!!) come a giustificarsi!!! So che sto parlando di minuzie, ma ho scelto un dettaglio a caso del film per far capire che è tutto così, ti metti a riflettere su una cosa qualsiasi e finisci in un vortice di sbagli senza fine, un disastro tale da essere perversamente affascinante. Vogliamo altri esempi? La ricostruzione. Come detto, parte del film è ambientata nel 1910, e mi sono pure perso Bastarden, quest’anno mi mancava un bel film in costume. Beh, nella prima scena, non ero nemmeno sicuro fossimo nel passato o meno. Giuro, i costumi non sembrano neanche imitazioni della Belle Epoque, sembrano i vestiti che metterebbe la gente oggi per andare eleganti all’Opera. E poi praticamente zero comparse in giro, ho capito che c’è l’inondazione, ma dov’è la gente coi calzoni bagnati, le barche, quelli che spazzano l’acqua dai negozi? Cos’è, bruciare la fabbrica di bambole ha esaurito tutto il budget? Ripeto, l’effetto è quasi disturbante, e forse voleva esserlo in scene come quelle col piccione che entra in casa, ma sto sorvolando per pura pietà sulla scrittura, i paralleli tra le vite, le visite dalla cartomante, lei che si porta il vicino a casa ma pensava fosse l’altro, anzi va mi fermo, che potrei andare avanti per ore. Ah, giusto, per far risparmiare due ore e mezza al lettore, lo spoilero: la Bestia nemmeno c’è, un’ombra sul muro, un finto spavento e nessuna spiegazione, praticamente una summa di tutto il film. Prego.
TOMMASO FERRERO
HIT MAN di Richard Linklater (USA)
Applausi a scena aperta per un film che ha brillato nella selezione di questo anno, ma si può riassumere con “una commediola”. Ispirato alla vita di un a persona realmente esistita, Hit Man parla di un professore di psicologia che, collaborando con la polizia, inizia ad fingersi un sicario a contratto per incastrare i potenziali clienti. Un film divertente, ma sicuramente non approfondito o memorabile come ci si poteva aspettare da Linklater. Questa riflessione nasce anche alla luce delle ultime dichiarazioni del regista che afferma di appartenere all’ultima generazione a cui possa interessare il cinema. Da fruitore di nuova generazione del cinema mi trovo non solo in disaccordo, ma mi trovo a pensare che se i prodotti proposti sono una ricalcatura di una commedia (per quanto piacevole) di stampo primi anni 2000 allora forse ha senso che le nuove generazioni non si interessino al mezzo. Il divertimento nel film è presente, ma va a discapito di un approfondimento che ci si potrebbe trovare, o si vorrebbe trovare, in un film di un “autore”. Un film da venerdì sera, nulla di più nulla di meno.
HOKAGE (OMBRA DI FUOCO) di Shinya Tsukamoto (Giappone)
Nel mercato di una città giapponese devastata dalla guerra, la vita dei relitti umani rimasti vivi ricomincia a scorrere lentamente. L’arrivo di un soldato e di un bambino in casa di una prostituta ricreano una situazione sospesa e surreale di una famiglia ritrovata. Hokage è un bel film, dai ritmi lenti, asiatici e distesi, che si rifanno al nulla lasciato dalla distruzione della guerra. Le psicologie dei personaggi sono rarefatte e frammentate, imprevedibili come bombe inesplose. La bellezza del film sta nella sua cifra umana, che va a bucare la pulizia tipica del comportamento sociale giapponese, composto e rigido, portandolo alla sua estremizzazione. Il Giappone dopo la guerra rappresenta uno dei punti più bassi per la nazione, dove l’intera società ha perso onore, guida e obiettivi. Il film è uno sguardo eccezionale verso una condizione specifica dell’animo umano dove la resilienza e l’abbandono sono due facce quasi obbligate della stessa medaglia e, dove, le vie di mezzo sono solo fugaci illusioni.
VAMPIRE HUMANISTE CHERCHE SUICIDAIRE CONSENTANT di Ariane Louis-Seize (Canada)
Un film adorabile che ricorda le tinte di A girl walks home at night, ma in una lettura di commedia. Una giovane vampira è malata di empatia, non riuscendo a mordere esseri umani indifesi. La conoscenza con un suo coetaneo con manie suicide la porterà a scoprire un rapporto che va oltre a quello tra predatore e preda. La storia del film è davvero molto simpatica, e anche la scelta attoriale dei singoli ragazzi è davvero azzeccata. La commedia si lascia guardare con piacere, con l’arrivo di un paio di scene di grande qualità. Insomma, un ottimo esempio di “cinema di formazione” in una chiave nuova, fresca e, soprattutto, nera.
WU YUE XUE (SNOW IN MIDSUMMER) di Chong Keat Aun (Malesia, Taiwan, Singapore)
Un film che narra della ricerca delle tombe nascoste di una strage dimenticata dalla storia da parte di una delle figlie di una delle vittime. Il film dà visibilità a un momento durissimo della storia Malese, dove, in una notte, centinaia di persone persero la vita solo perché di etnia cinese. Il film ha un dovere sociale e storico, ma la sua visione rappresenta, a mio avviso, un’impresa ardua. Il regista ha un senso della composizione dell’immagine incredibile, dove ogni immagine (soprattutto all’inizio) rappresenta un quadro. Alla lunga, però, la storia diventa pesante, ripetitiva, difficile da seguire e quasi angosciante. Ammetto che, a una certa, ho leggermente chiuso gli occhi durante l’ennesima rappresentazione di un rito funebre cinese. Il film ha valore artistico e sociale, ma sicuramente pecca dal punto di vista di intrattenimento e narrativo.
CONCLUSIONI
Questa mostra è stata deludente. Forse anche quest’anno è colpa del fatto che mi sono perso i primi giorni, ma ho trovato la selezione faziosa, poco varia e incapace di mostrare quella che io definisco “la magia del mezzo”. Lascia a pensare che, per la prima volta da anni, ho deciso consciamente di non entrare in sala, complice una grande stanchezza e il peso delle pellicole viste. Ho notato una grandissima autoreferenzialità dei film in concorso, una presa di posizione aggressiva e di chiusura di fronte al mondo esterno alla sala e alla cricca che conta La posizione presa da molti registi sembra essere quella di eremiti sulla montagna dell’arte che hanno deciso che il mondo non li voglia più e che, dunque, dovranno fare il loro mestiere per loro stessi. Questo porta, di conseguenza, un generale inasprimento del mezzo e un sintomatico non-amore per la propria opera. E questo, il pubblico, lo sente. Io, perlomeno, l’ho percepito. Credo che, in un mondo che avanza, il cinema non perderà la sua funzione, come non l’hanno persa sia l’opera lirica che il teatro. Semplicemente è giusto capire come interfacciarsi al presente, ma senza perdere la propria qualità principale, ovvero saper scandagliare l’umano con la sincerità spiazzante della camera. Siamo in un periodo di cambiamento e spero che il cinema dei prossimi anni sia qualcosa di capace di parlare ancora alle nostre anime inaridite dalla velocità dell’esistenza e dei contenuti. Io sono convinto che ci arriveremo. Vedremo che succederà l’anno prossimo.
Una bestia ti sta inseguendo, quando ti troverà qualcosa di terribile accadrà. “Ficata”, penso subito, “che premessa bomba”. Eppure, la bestia non arriva mai a mordere, come La Bête non arriva mai ad un punto fermo che ci faccia dire “Oh, ste due ore e trenta davanti a uno schermo sono proprio state un buon uso del mio tempo”. Resta un grande amaro in bocca di aver visto un film che poteva essere, ma non è stato, un “potrebbe emozionarmi”, ma non ha emozionato. Insomma, La Bête è un film elegantissimo, capace di ottimi picchi visivi, di un montaggio sperimentale, ma non fastidioso, e di giocare con il significato del tempo sullo schermo in maniera egregia. Tutto questo è ottimo, se non fosse che poi ci propone una lettura di una storia d’amore sciapa, non del tutto riuscita, che arriva e non arriva allo stesso tempo. Perché di amore, infine, parla, una coppia di innamorati costretta o benedetta, dal dovere di rincontrarsi a ogni reincarnazione, ma che non possono mai consumare e portare a termine il loro amore. Amore e morte, rassegnazione e lotta e un futuro in cui i grandi sentimenti umani, perché scomodi, vanno eliminati tramite una lunga e complessa terapia. Peccato che siano gli stessi sentimenti che il film non riesce ad innescare nello spettatore, quindi, forse, “missione riuscita”? Comunque, Lea Seydoux e George McKay sono due interpreti davvero eccezionali.
Un film Netflix, di quelli che il giovedì sera, dopo lavoro, te li guardi anche, non di certo un film Netflix alla “Roma”, non di certo un gran film, non di certo un bel film. Un film, d’azione per la precisione, che di Fincher ha forse la tematica, killer a pagamento, ma non la potenza espressiva e l’intrigo a cui ha abituato il suo pubblico. Un film minore di un ottimo regista americano, un “prende sei ma non si impegna”. Fassbender è un killer metodico e capace che, mentre ascolta gli Smiths, sbaglia un colpo. Da lì il suo percorso a ritroso per ritrovare e punire i colpevoli di aver attuato “la procedura” ovvero un tentativo di eliminarlo, che ha portato a coinvolgere la fidanzata del nostro. Un po’ di violenza completa, per un percorso di vendetta dopo vendetta. Qualche insight tecnico su come uccidere e far sparire i cadaveri per poi una eccezionale barzelletta di Tilda Swinton e un finale facile. Insomma un Fincher di basso livello, produzione di intrattenimento senza alto “valore cinematografico”, se questo valore davvero può considerarsi esistente.
AKU WA SONZAI SHINAI di Ryusuke Hamaguchi (Giappone)
PRISCILLA di Sofia Coppola (USA, Italia)
Cosa succede quando la star lascia lo spazio all’uomo? E se i riflettori di quella star sono i più luminosi del mondo quanto saranno lunghe le sue ombre? La storia di Priscilla Presley, la moglie di Elvis, che da ragazzina si trasforma in donna al fianco del re del rock, scoprendone l’amore e le follie. Un ritratto sincerissimo, senza patetismi, di una ragazza presa come trofeo e cresciuta come unico supporto di un uomo fragile e lentamente consumato. Un dipinto di una vita in una Graceland simile a Versailles, la storia di una giovanissima ragazza che scopre che il sogno di una vita si sta lentamente trasformata in una noiosa agonia. La bellezza di questo film risiede nella capacità di raccontare una vita senza cadere in ciò che potrebbe essere una serie di luoghi comuni e ritratti stereotipati. Non c’è solo “uomo malvagio e donna oggetto”, per intenderci. Per quanto questo elemento traspaia a tratti, resta anche una bellissima storia d’amore, delicata, raccontando una relazione tossica ma sostenuta da un amore profondo e reale. Dolcezze, debolezze e crolli psicologici portano sullo schermo una formazione umana stupenda, capace di mostrare lati nascosti di una donna che si va a creare da una bambina. Il film segue un tratto ristretto della vita di Priscilla, essendo tratto dal libro “Elvis e Io” della stessa. Questo permette un forte focus sulle debolezze e le difficoltà del re del rock, ma senza far eclissare il personaggio stesso di Priscilla, che resta protagonista al fianco di uno dei più grandi protagonisti di sempre. La bellezza del film consiste nel raccontare la vita della più grande fan di Elvis, ovvero sua moglie, eliminata completamente dalla sua vita pubblica per anni e anni senza poter partecipare attivamente, se non dietro alle quinte, al sogno del marito. Se si può portare una piccola critica al film, è nell’aumento di ritmo finale, che porta a una conclusione esageratamente veloce della vicenda, portando meno attenzione all’evoluzione finale che porta Priscilla ad abbandonare la sua prigione dorata.
FRANCESCA MUNARIN
POOR THINGS di Yorgos Lanthimos (Regno Unito)
Senza che questa voglia nemmeno lontanamente essere una recensione, ma solo il goffo tentativo di elogiare un film incredibile, cercherò di dire qualcosa di Poor Things, presentato da Yorgos Lanthimos in concorso all’ottantesima mostra del cinema di Venezia.
È un capolavoro.
Le premesse perché si stia esagerando ci sono tutte: l’ho visto in sala grande, a cinque seggiole dal regista, alla prima proiezione con 2300 persone, e gli ho pure detto un timido “thank you” a cui ha risposto umilmente: “thank YOU”, le persone hanno applaudito una volta durante il film e per dieci minuti consecutivi al termine. L’emozione è stata tanta.
Però adesso che si è intascato il leone d’oro (per quanto possano valere i premi) e che le lodi piovono da tutte le parti, forse non sembrerà più che io esageri.
È superfluo riportare la trama perché la storia risponde a questa domanda: com’è essere un essere umano? E in questo caso particolare: com’è essere “due” donne? Per forma e contenuto si tratta innegabilmente anche di un manifesto per la rinascita del concetto di “femminile”. Che è necessaria per tutti. Ma il pregio del film è andare oltre, molto oltre. Ho letto “Barbie Punk” e mi sono venuti un po’ i brividi. L’ambientazione gotico-futura, le peripezie, i botta e risposta, gli atteggiamenti della protagonista sono quasi un ribaltamento dello sguardo, non dal vecchio al nuovo, ma da un già-oltre a un di-qua. È un’umana d’ingenuità fanciullesca (nel senso di Nietzsche, di Leopardi), curiosa, vivace, che anche quando “cresce” rimane meravigliata, stupita, delusa dal mondo che si sfata dinanzi a lei. Pungente, ironica, con la meraviglia che davvero avrebbe un’umana se potesse vedere se stessa per la prima volta, vivere da attrice e spettatrice la propria condizione. È proprio questa prospettiva dal semplice al complesso a dare la sensazione di star vedendo qualcosa di tangibile e surreale. Con “semplice” si intende ciò che rappresenta Bella, un umano nel senso universale e completo del termine, che vive, scopre il corpo di una donna, nel doppio mente-corpo, nel “complesso”, ovvero nella costitutiva dicotomia di un mondo determinato, scisso, molteplice, con uomini e donne, adulti e bambini, giusto e sbagliato, fuori e dentro, vita e morte. Le atmosfere in questo sono straordinarie: i cieli, le architetture, i costumi.
Il titolo “Poor things” (povere cose questi umani, e lo si dice ridendo e piangendo) evoca per me l’intento di universalità, se posso, riuscito.
Tralascio i riferimenti a qualsiasi tipo di rappresentanza ideale nei personaggi perché il film parla da sé, e veramente sarebbe stato meglio non scriverne proprio nulla (si veda che il medico-creatore viene chiamato God).
C’è un dialogo ad un certo punto, tra Bella e Duncan Wedderburn (per intenderci Mark Ruffalo), in cui lei (mi spiace non poterlo rivedere per riportare le parole esatte ma a gennaio potrò) gli dice qualcosa di questo genere: “non posso definire una cosa come l’amore, non ha rilevanze empiriche, God dice che la conoscenza deriva da rigidi esperimenti e prove concrete”. Non è questo ma è qualcosa di simile, ed è vero, tremendo e infantile. Si ha la costante sensazione di stare sperimentando che “qualcosa di simile” sono gli umani: veri, tremendi e infantili; questo e più di questo, uguali a se stessi e sempre diversi.
La memoria e il ricordo di sé, il ritorno a casa di Holderlin, un vecchio che è nuovo. C’è un punto in cui God evoca un ricordo d’infanzia, di una caduta in bicicletta, e io non so perché ho avuto la sensazione che fosse un reale vissuto appartenente al regista.
Kant diceva che una cosa è bella quando non si sente di dovervi togliere o aggiungere nulla, e che il tutto non è mai la somma delle parti, è qualcosa di più. Se lo portassimo a vedere un film, magari questo, forse direbbe: “ragazzi, non avete capito un cazzo”, ma per me Poor Things è esattamente questo. Un capolavoro perché rimanda a tutto senza essere uguale a nulla, e lo si guarda con lo stupore continuo che stia migliorando, che faccia incredibilmente meglio di se stesso.
C’è Lynch, c’è Kubrick, c’è Dostoevskij, c’è Hitchcock, c’è Anna Karenina, c’è Eggers, c’è Cronenberg, c’è Mary Shelly, c’è Shakespeare, ci sono i greci. E c’è il nulla, il togliere del ridicolo, della risata: quanto fa ridere questo film. Non ridevo così dall’ultima cosa che ha dentro e che lo rende per me un film del cuore: Frankenstein Junior. Film della mia famiglia e della mia infanzia. Mi rendo conto delle divagazioni di questo scritto ma era meglio schiudersi o non scrivere per niente, che scriverne in altro modo.
I personaggi sono perfetti, i capitoli misurati, la regia bellissima, gli attori straordinari, la colonna sonora strepitosa, non voglio dire niente di questo perché è bello vederlo.
Ho letto qualcosa per l’università che mi ha ricordato questo film.
Gadamer risponde così alla domanda su quale sia la significatività del bello e dell’arte: “Essa ci dice che nella particolarità dell’incontro non è il particolare, ma la totalità del mondo esperibile, e la posizione dell’uomo nel mondo, persino la sua finitezza rispetto alla trascendenza, a divenire esperienza” (L’attualità del Bello, p.35).
E ancora, per la sensazione di ricordare e di scoprire: “riconoscere significa conoscere qualcosa per ciò che ci è già noto. E costituisce l’autentico processo dell’-accasamento- Einhausung umano” “Nel riconoscimento è implicito il fatto che ora si conosce più propriamente di quanto si potesse fare nella confusione momentanea del primo incontro. Il riconoscimento vede il permanente nel fuggevole.” (51)
Rilke, del di più che si trova in tali opere, direbbe: “qualcosa del genere si trovava tra i mortali”. E per non dire più niente, che tutto era già superfluo, Mnemosyne di Holderlin: “Ein Zeichen sindwir, deutungslos” (“noi siamo un segno, senza interpretazione”). Poor Things.
EXPLANATION FOR EVERYTHING di Gábor Reisz (Ungheria, Slovacchia)
Curioso film ungherese questo, dal titolo originale che non mi sento di menomare, forse uno di quelli su cui, nel bene o nel male, mi sono interrogato di più in questi giorni precedenti alla scrittura. Il protagonista, Abel, è un ragazzo in procinto di dare gli esami di maturità, e nello stesso momento, realizza di essere innamorato di una sua compagna di classe. Non ci è dato sapere se ci sia un collegamento, o quale sia il vero motivo tra i vari ipotizzati nel film, o se nemmeno lui lo conosca veramente, sta di fatto che Abel, all’interrogazione di Storia fa scena completamente muta. La bocciatura sconvolge tutti, ma il vero dramma arriva quando il ragazzo sostiene di essere stato bocciato per via della coccarda nazionale appuntata sulla giacca, quella che gli ungheresi indossano nella festa nazionale del 15 marzo. Credo che l’intento di questo film sia rifarsi a quelle classiche denunce della macchina del fango, forse portate all’apice da Thomas Vinterberg nel suo capolavoro Il Sospetto. Addirittura, la prima parte del film è raccontata con l’espediente (veramente riuscito) dei punti di vista, che cambiano ogni tot minuti - una piccola chicca è notare i minuti sfasamenti della memoria, coi dettagli diversi a seconda delle persone - e mostrano le giornate precedenti all’esame di Abel, di suo padre e del suo professore. Ancora, come nel film danese abbiamo una figura scolastica infangata da uno degli stessi giovani che sta crescendo. Solo che Mikkelsen nella sua storia subiva una vera e propria persecuzione, ancora più terribile per via dell’ambiente sociale ristretto, e comunque non veniva mai data la certezza al 100% che fosse innocente dalle accuse. Invece qui siamo a Budapest, simbolo di un paese politicamente spaccato quando la storia esce sui giornali, ma in cui il professore di Storia Jakab non sembra mai annaspare, anzi le uniche manifestazioni di ostilità praticamente le riceve solo dalla sua compagna. Non c’è mai un vero dubbio sulla sua onestà intellettuale (almeno, non che io abbia percepito) a parte qualche generica accusa di essere troppo arrogante; il fatto che Janka, la ragazza di cui è innamorato Abel, avesse confessato un’attrazione per lui rimane una miccia inesplosa che mai influirà sulla trama. Forse questo voleva essere un film politico, creato da ungheresi, per ungheresi, come dimostra il lunghissimo dialogo tra Jakab e il padre di Abel, infarcito di riferimenti alla situazione del paese, visioni contrapposte del liberalismo, nazionalismo, Orban e il suo partito Fidesz… Tutto, insomma, tranne che ad Abel e il suo esame di maturità, che, con una mossa molto intelligente, viene praticamente estromesso dalla faccenda, tanto che persino il film sembra disinteressarsi a lui, ormai una pedina, persa in una polemica che parla di tutt’altro. Intendiamoci, dunque, questo è un film chiaramente sveglio, con dialoghi spesso aguzzi e furbi, un buon umorismo sparso qui e là - il tipo che sente la dichiarazione di Abel e gli fa il pollice in su, l’odioso veterano di guerra che racconta una versione, anche qui, dubbia degli eventi - e talvolta, efficacemente ambiguo. I problemi stanno nel bilanciamento: troppi personaggi, alcuni ottimi ma senza un vero ruolo, come il collega giovane del padre, che vuole solo andarsene dall’Ungheria, altri che dovrebbero essere importanti, come la giornalista Erika che scova lo “scoop” dell’esame, ma sono di fatto inutili. Troppo minutaggio, due ore e mezza per una storia così già sono sproporzionate, poi in Palabiennale, la sala più scomoda di tutto il Lido, sono cattiveria. Troppe direzioni che vengono tentate senza scegliere una strada unitaria, da una regia, in formato ridotto e “sporca”, claustrofobica ma senza creare suspense. Lascio a chi legge tirare le proprie conclusioni.
THE CAINE MUTINY COURT-MARTIAL di William Friedkin (USA)
Alleluia, egli sia lodato. In questo caso, il Signore in questione non è divino, anche se ormai appartiene alla vita oltreterrena. È solo un Dio del Cinema, e il suo nome è William Friedkin. Lo ammetto, avevo una certa paura di questo film. Il grande cineasta americano non è fra i miei registi preferiti, anzi considerato il segno indelebile da lui lasciato sul cinema ho visto colpevolmente poco di suo, giusto i film più famosi (includendo ovviamente l’Esorcista, che è stato restaurato e ripresentato proprio a Venezia 80). Eppure, c’era stato, sempre a Venezia, il bel documentario Friedkin Uncut ad accrescere la familiarità con questo grande, e la notizia della sua morte, avvenuta pochi giorni dopo l’annuncio di questo film, mi ha profondamente toccato. Quindi sì, la paura di rovinarsi un mito, magari con un passo falso sul traguardo, c’era. Completamente a torto, posso dire ora: The Caine Mutiny Court Martial è un film fantastico, per cui sarei tentato di sprecare la parola con la C, ormai totalmente inflazionata. Ovviamente, nella sua semplicità, poiché non infrangerà o rivoluzionerà alcune delle regole del Cinema: è un film teatrale, dichiaratamente, e con le radici ben piantate nella storia letteraria, più precisamente nel classico “L’ammutinamento del Caine”, qui riproposto in chiave moderna. Evidentemente Friedkin, che è anche l’adattatore per lo schermo, vedeva in questa pièce quel sottile confine tra il bene e il male, ricercato in tutta la sua filmografia, come riportato da una commovente citazione, apparsa a mo’ di preambolo. Come da titolo, tutto nasce con l’ammutinamento del dragamine Caine, nave militare americana stazionata tra il Mediterraneo orientale e il Mar Rosso. E noi lo sperimentiamo attraverso le parole dei protagonisti, quelli che c’erano, quelli che giudicano e cercano di capire, imputati, testimoni e tutto il resto. In particolare, c’è il fautore della destituzione Keith, il suo riluttante avvocato Greenwald, il capitano estromesso Queeg, e l’avvocatessa dell’Accusa e il giudice militare, interpretato da un’altra grande perdita, Lance Reddick (indimenticabile concierge del Continental nella saga di John Wick), a cui il film è dedicato. Tutti volti più o meno noti, che appaiono per pochi momenti o per tutto il film, ma tutti a loro agio con un testo tagliente e impegnato, veloce, che ti porta in un turbine di menzogne, nomi, regolamenti, ma anche riflessioni sulla moralità, sulla sanità e capacità di giudizio, sullo spirito militare. Tutti temi cari al suo creatore, ma ciò che sorprende non è la loro riproposizione, bensì come vengono messi in scena. Sappiamo che Friedkin pativa la malattia già durante la produzione, girava per il set in carrozzella; e, va detto, ha avuto un assistente di lusso, il grande Guillermo del Toro, ringraziato nei titoli di coda, a fargli da regista stand-in, cioè coprire i buchi quando stava troppo male. Ma questo Court Martial tutto sembra tranne un film del tramonto, di un ammalato né tantomeno di qualcuno che sta per morire. La regia di Friedkin è pulitissima, asciutta, senza un’oncia di smalto in meno rispetto ai suoi anni migliori. Una volta entrata in questa corte marziale non vi esce più, vola tra i volti, i movimenti degli avvocati con movimenti meticolosi, aiutata da un montaggio serrato ed entusiasmante, indugia nelle espressioni, sottolinea i dettagli giusti al momento giusto. Trovano spazio persino momenti di grande umorismo, come l’interrogatorio del marinaio semplice, furbescamente in contrasto con tutta la marzialità verbale degli altri, o la deposizione finale di Queeg, un torrente di parole che lascia tutti basiti. Sarebbe già bello così, ma poi arriva il finale. E quella che sembrava una banale battaglia tra un eroe solitario e un capitano paranoico diventa qualcosa di molto più contorto, sfumato. Il vero, grande protagonista di questa vicenda si rivela l’avvocato Greenwald, che scardina tutta la mia poca passione per i procedurali. Un doppio miracolo, facendo recitare bene Jason Clarke, che forse con questo testo, e il carisma dei capelli grigiobianchi e il volto scavato dagli anni, trova il ruolo della vita. Così silenzioso e dimesso all’inizio. Sempre più presente, potente al processo, ma sempre con riluttanza. E alla fine, a quel festino dove non c’è nulla da festeggiare, l’avvocato finalmente parla. E in quel discorso c’è l’esercito, c’è la doppiezza dell’essere umano, c’è l’America, “questo nostro grasso, stupido e felice paese”. Grazie William. Forse ancora dimenticavamo che genio eri, finché non ti abbiamo perso.
VAMPIRE HUMANISTE CHERCHE SUICIDAIRE CONSENTANT di Ariane Louis-Seize (Canada)
Che belle le sorprese, alla Mostra del Cinema. A dire la verità me l’aspettavo, avevo ottime sensazioni per questo film, e non sono state deluse. Però è sempre bello quando finisce l’intimità del buio in sala, tornano le luci, e tu hai riso, hai pensato, provato tante sensazioni diverse, sei stato attento e improvvisamente è l’ora di uscire, ma sei soddisfatto come dopo un buon pranzo. Tanto bello quanto semplice, come questo film. Canadese, anzi più precisamente quebecchese, uscito da quell’affascinante microcosmo francofono nel nuovo mondo. Una storia di vampiri, curiosamente molto di moda a Venezia 80 (il più chiacchierato è sicuramente El Conde, ma dovrebbe esserci un film coi succhiasangue in ogni sezione), il che non potrebbe rendermi più felice. Siamo appunto in Québec, e la protagonista è una “giovane” vampira (più di 60 anni e l’aspetto di una adolescente), Sasha. Croce e delizia della sua famiglia, visto che a causa di un trauma infantile (un clown “sacrificato” ad un suo compleanno), la sua compassione è talmente forte da non permetterle di uccidere gli umani per cibarsene. E per quanto amata dalla famiglia, si decide di spedirla da una cugina, che le insegnerà a cacciare. Con difficoltà aggiungerei, vista la cocciutaggine di lei e, idea meravigliosa, la borsa del sangue lasciata dal padre per tirare a campare la prima settimana. Ma Sasha un umano comincia a puntarlo veramente, un giovane studente con desideri suicidi… Allora, mettiamo subito in chiaro quello che non va, e poi torniamo a parlare bene di questo piccolo, speciale filmettino. Come accennato, io adoro i vampiri, e adoro la loro mitologia, il “canone” se vogliamo usare una parola di moda. Il contesto risulta più importante che mai, o si va a benedire tutta la loro credibilità. E qui il fatto che i vampiri “nascano” mi lascia perplesso. Cioè, come si nutriva Sasha prima della sera fatale? Ed è nata come gli umani, o è nata nel senso che è stata vampirizzata da piccola? Furbescamente si soffermano poco sui dettagli, ma c’è un vampiro psicologo, un vampiro dottore (originale, lo concedo), non sono una società decadente, allo sbando come nel bellissimo (film e libro) Intervista col vampiro. Poi, e qui siamo sul personale, se devo vedere una reinterpretazione moderna preferisco roba come Blade, che almeno sacrifica la logica alla rule of cool. Invece sta voglia un po’ hipster di fare il classico ma prenderlo anche in giro mi urta abbastanza, ed è una tendenza incarnata dall’attore che fa Paul, tutto faccette buffe, vestiti sformati e personalità zero. Ci si salva, e torniamo finalmente al bello, perché la regista chiaramente ama queste creature quanto il sottoscritto. La protagonista, Sasha, è un personaggio fantastico, caruccia, con questo visino delicato, la voce flebile e l’aria dimessa, ma è anche un animale con due zanne così, ha continuamente fame e quando finalmente si ciba c’è la forza sproporzionata e l’assalto quasi sessuale, come lo descriveva Bram Stoker, alla ricerca del sangue. La prima volta che fa l’appostamento a lui fra i container fa quasi paura, e senza nulla di speciale: un’attrice dai lunghi capelli d’ebano, il volto pallido, quel cappotto nero che la rende longilinea, la fa quasi fluttuare nell’eterna notte quebecchese; quindi recitazione, location, trucco e parrucco, e una regista fenomenale, benché esordiente, che sappia costruire la tensione, in pieno stile Hitchcock. Girare bene una commedia è una virtù immensamente sottovalutata, qui lo si fa senza svilire il testo, dove trovano spazio belle battute (“non farei male a nessuno, eccetto me stesso!”), comicità fisica, idee divertenti come l’idiota vampirizzato per caso, tanta fantasia, tutto senza insultare l’intelligenza del pubblico. Il finale va preservato dalle anticipazioni, ma diciamo che trova un modo astuto di evitare troppe implicazioni morali, con la giusta dose di allegria. Perfetto per una protagonista così, che la prima volta da “sessantenne” vediamo innamorata dell’umanità, che suona l’Inverno di Vivaldi, e più tardi, canta con trasporto una canzone intera, con la camera fissa per minuti, l’anti-montaggio di oggi. Un vero gioiellino per un esordio, da tenere d’occhio.
LA BÊTE di Bertrand Bonello (Francia, Canada)
Su questo ho aspettato qualche giorno a scrivere. Incertezza ben rappresentata dalla frase dell’anno (catturo sempre qualche perla tra la fauna della Biennale), questa volta cortesia di una ragazza che dopo la proiezione ha detto “è come quando mi dicono «i sogni hanno senso» e poi i miei sogni sono questo”. Forse aumentata nella nuova fase di sbigottimento, davanti a questo pastone di due ore e mezza che vorrebbe parlare di vita, morte, importanza del sentimento irrazionale anche davanti all’efficienza dell’IA, reincarnazione, un po’ tutto alla fine, come nel fritto misto. Tre sono le vite di lui e di lei: una nella Parigi del 1910, durante la, veramente avvenuta, esondazione della Senna, una in America nel 2014, una nel distopico futuro del 2044, dove l’intelligenza artificiale ottimizza l’efficienza lavorativa con un repulisti genetico, che ti libera dei traumi delle vite passate rendendoti una bambola apatica. Quindi sarà una storia d’amore travolgente, no? No, a giudicare dalla chimica tra i due, e mi spiace soprattutto per la Seydoux, che penso di non aver mai visto utilizzata così male in un film. Per essere chiaramente schierato col potere anche distruttivo dell’emozione, qui tutti recitano in una specie di trance, come se avessero davvero fatto il trattamento genetico del futuro. Almeno quando sono in scena, perché questo La Bestia ha una mancanza quasi disturbante di personaggi “di fondo”. Il marito nella prima vita, la modella nella seconda, l’androide nella terza, compariranno a dir tanto cinque minuti in tutto il film, quella di mezzo solo per far conoscere una discoteca alla protagonista per poi levarsi di torno e non tornare mai più. Già, poi il fatto che queste facciano amicizia al provino, con la Seydoux in mezzo a indossatrici ventenni, è ridicolo, non per lei che, sia benedetta, ha ancora un fisico di pietra, ma il fatto oggettivo che la francese ha il doppio degli anni di tutte le altre. E glielo fanno pure dire (!), testualmente, “non ho più vent’anni” (!!) come a giustificarsi!!! So che sto parlando di minuzie, ma ho scelto un dettaglio a caso del film per far capire che è tutto così, ti metti a riflettere su una cosa qualsiasi e finisci in un vortice di sbagli senza fine, un disastro tale da essere perversamente affascinante. Vogliamo altri esempi? La ricostruzione. Come detto, parte del film è ambientata nel 1910, e mi sono pure perso Bastarden, quest’anno mi mancava un bel film in costume. Beh, nella prima scena, non ero nemmeno sicuro fossimo nel passato o meno. Giuro, i costumi non sembrano neanche imitazioni della Belle Epoque, sembrano i vestiti che metterebbe la gente oggi per andare eleganti all’Opera. E poi praticamente zero comparse in giro, ho capito che c’è l’inondazione, ma dov’è la gente coi calzoni bagnati, le barche, quelli che spazzano l’acqua dai negozi? Cos’è, bruciare la fabbrica di bambole ha esaurito tutto il budget? Ripeto, l’effetto è quasi disturbante, e forse voleva esserlo in scene come quelle col piccione che entra in casa, ma sto sorvolando per pura pietà sulla scrittura, i paralleli tra le vite, le visite dalla cartomante, lei che si porta il vicino a casa ma pensava fosse l’altro, anzi va mi fermo, che potrei andare avanti per ore. Ah, giusto, per far risparmiare due ore e mezza al lettore, lo spoilero: la Bestia nemmeno c’è, un’ombra sul muro, un finto spavento e nessuna spiegazione, praticamente una summa di tutto il film. Prego.
HIT MAN di Richard Linklater (USA)
Applausi a scena aperta per un film che ha brillato nella selezione di questo anno, ma si può riassumere con “una commediola”. Ispirato alla vita di un a persona realmente esistita, Hit Man parla di un professore di psicologia che, collaborando con la polizia, inizia ad fingersi un sicario a contratto per incastrare i potenziali clienti. Un film divertente, ma sicuramente non approfondito o memorabile come ci si poteva aspettare da Linklater. Questa riflessione nasce anche alla luce delle ultime dichiarazioni del regista che afferma di appartenere all’ultima generazione a cui possa interessare il cinema. Da fruitore di nuova generazione del cinema mi trovo non solo in disaccordo, ma mi trovo a pensare che se i prodotti proposti sono una ricalcatura di una commedia (per quanto piacevole) di stampo primi anni 2000 allora forse ha senso che le nuove generazioni non si interessino al mezzo. Il divertimento nel film è presente, ma va a discapito di un approfondimento che ci si potrebbe trovare, o si vorrebbe trovare, in un film di un “autore”. Un film da venerdì sera, nulla di più nulla di meno.
ZIELONA GRANICA (IL CONFINE VERDE) di Agnieszka Holland (Polonia, Francia, Repubblica Ceca, Belgio)
Il dramma di chi deve abbandonare tutto per qualcosa di migliore non ha una sola faccia, come non c’è una sola via per arrivare alla salvezza. Green Border è un film durissimo, che ispira dolore e rabbia utilizzando immagini crude come il suo bianco e nero. In una forma quasi documentaristica seguiamo il viaggio di una famiglia attraverso il confine tra Bielorussa e Polonia. Qui, le guardie di confine, uomini simili a diavoli deumanizzati da una formazione simile ad un lavaggio del cervello, sono capaci di lanciare donne incinta sul filo spinato. Un racconto doloroso e violento che vuole mettere in risalto quanto 200 metri possano trasformare esseri umani di serie A in esseri umani di serie B. La critica è verso un’Europa delle parole e verso una cittadinanza anestetizzata da propagande politiche becere e un clima d’odio verso chi, semplicemente, è solo stato più sfortunato. La bruttezza dell’odio e la violenza della discriminazione prendono la forma di diversi volti, quelli di personaggi agenti in un film concerto, dove la vicenda umana è protagonista di tutto. Un‘opera capace di smuovere e, altrettanto, di innervosire, umanamente parlando. Il paragone in chiusura tra i migranti ucraini (dunque di serie A) e i respinti di altre nazioni è una denuncia mal interpretabile per come posta, a prescindere dalle visioni politiche. La forma potrebbe portare una lettura negativa dell’effettivo aiuto umanitario compiuto dai Polacchi verso i due milioni di rifugiati dell’Ucraina. Ciò non impedisce al film di comunicare con forza tutto ciò che deve comunicare, creando personaggi di fiction che possono parlare con la voce della verità.
CONSIDERAZIONI FINALI
Quest’anno è stato il mio più lungo alla Mostra, ma proprio per questo vorrei riassumerlo in breve. Come sempre le belle esperienze, il grande cinema non manca, anche se non posso valutare la qualità complessiva avendo praticamente dedicato tutto ai film sconosciuti o poco più. The Palace, Poor Things, The Killer sono solo alcuni dei più famosi che non ho potuto vedere, e da questa prospettiva credo che le sezioni collaterali siano da qualche anno un poco esangui, bisognose di una bella botta di vita, e soprattutto di varietà, cinema alternativo e anche di genere (non sarà un caso che fuori dal concorso si è distinto un film di vampiri). Ma questa è Venezia, il tempio del Cinema impegnato, che però quando ne esci ti fa apprezzare più che mai quello mainstream, e dubito che le cose cambieranno presto. Forse questi sono solo pensieri un po’ piccati, nati sulle scomode poltroncine di Palabiennale e Sala Corinto, a rimpiangere ancora per un anno il Multisala Astra, ma addolciti da qualche bella sorpresa, il programma cartaceo finalmente tornato agli accreditati, e una selezione di restauri sempre di prim’ordine. Anche quest’anno è passata, i premi sono stati consegnati (commento solo per Il male non esiste, a cui il secondo posto non potrebbe calzare di più) e torneremo la prossima estate, come sempre. Grazie per aver letto, da Venezia 80 passo e chiudo.
TOMMASO FERRERO
IO CAPITANO di Matteo Garrone (Italia, Belgio)
Il mio film preferito in questa edizione della mostra. Una storia di due migranti senegalesi lungo la tratta libica per arrivare in Italia, una storia-esempio di quella che è una delle più grandi tragedie umane del nostro secolo. L’avventura è racchiusa in un film potente e commovente, capace di parlare di un tema su cui si è detto molto ma senza alcuna ombra retorica. Il film assume una forma onirica in alcuni punti che eleva ed emoziona senza scadere nel patetismo, anzi, aggiungendo ottime sfaccettature alla vicenda umana straziante che il protagonista sta affrontando. Il sogno è ciò che fa muovere le gambe nel deserto, il sogno è ciò che permette di salire su una barca arrugginita, il sogno è ciò che fa abbandonare la propria madre senza un saluto. Il sogno è la grande base del film, non la guerra, non il dramma, ma un grande sogno e un diffuso amore per la vita. Un film fatto di umanità e di grandi sguardi, con un Garrone in grinta capace di creare immagini epiche dove, effettivamente, c’è solo il deserto. A differenza di Green Border (comunque l’altro film che è riuscito ad emozionarmi durante la mostra) ha una lettura più umana e positivista. Cerca di far sentire lo spettatore meno colpevole, non crea grandi accuse ma lascia parlare l’anima del film stesso. Non c’è retorica e c’è un rifiuto del luogo comune, il che rende il film corretto verso chiunque viva la vicenda. Verso il futuro si incarna uno sguardo di speranza che sento, forse, più mio. Il titolo in chiusura assume una forza esorbitante, un senso salvifico in fondo allo stomaco, come quello della terra dopo lunghi viaggi per mare.
Il dramma di chi deve abbandonare tutto per qualcosa di migliore non ha una sola faccia, come non c’è una sola via per arrivare alla salvezza. Green Border è un film durissimo, che ispira dolore e rabbia utilizzando immagini crude come il suo bianco e nero. In una forma quasi documentaristica seguiamo il viaggio di una famiglia attraverso il confine tra Bielorussa e Polonia. Qui, le guardie di confine, uomini simili a diavoli deumanizzati da una formazione simile ad un lavaggio del cervello, sono capaci di lanciare donne incinta sul filo spinato. Un racconto doloroso e violento che vuole mettere in risalto quanto 200 metri possano trasformare esseri umani di serie A in esseri umani di serie B. La critica è verso un’Europa delle parole e verso una cittadinanza anestetizzata da propagande politiche becere e un clima d’odio verso chi, semplicemente, è solo stato più sfortunato. La bruttezza dell’odio e la violenza della discriminazione prendono la forma di diversi volti, quelli di personaggi agenti in un film concerto, dove la vicenda umana è protagonista di tutto. Un‘opera capace di smuovere e, altrettanto, di innervosire, umanamente parlando. Il paragone in chiusura tra i migranti ucraini (dunque di serie A) e i respinti di altre nazioni è una denuncia mal interpretabile per come posta, a prescindere dalle visioni politiche. La forma potrebbe portare una lettura negativa dell’effettivo aiuto umanitario compiuto dai Polacchi verso i due milioni di rifugiati dell’Ucraina. Ciò non impedisce al film di comunicare con forza tutto ciò che deve comunicare, creando personaggi di fiction che possono parlare con la voce della verità.
ENEA di Pietro Castellitto (Italia)
Pietro Castellitto è capace, non si può negare. Però che abbia avuto le chiavi per 8 milioni senza sapere esattamente come incanalarli è nuovamente sintomo diretto delle sue origini. Sembra una frase faziosa ma è, per me, il problema di questo film. Un giovane rampollo della Roma bene cerca un qualcosa di diverso dalla sua vita, una scossa che possa dare senso alle sue giornate piene di eventi, persone e situazioni che per lui, alla fine, non contano nulla. Pietro scrive bene le scene famigliari e le battute più divertenti e apprezzo come traspaia l’amore per la sua famiglia. Ma, appena cerca di approfondire un tema più serio, risulta retorico e finto, perde qualità di scrittura e credibilità. Castellitto, poi, condisce i vuoti narrativi con scene ad alto budget, tra alberi che cadono e scene in volo. La sua ascendenza alle belle immagini non manca, sicuro ha delle intuizioni e crescerà come un autore negli anni. Però non stiamo vedendo un cineasta che ha fatto una carriera partendo dalle cantine come tutti, ma uno che sta sperimentando e scoprendo le basi del suo stile al festival di Venezia. Questo rappresenta, a mio avviso, uno dei grandi problemi del cinema nel nostro paese. Da lavoratore del settore incontro quotidianamente un sottobosco di qualità dove centinaia di bravi autori nemmeno possono avvicinarsi alla macchina da presa, dove ci si mantiene facendo i camerieri e dove, molti, abbandonano dopo anni di no e porte chiuse. Il “sistema cinema italiano” è chiuso, autoreferenziale, giudicante e cattivo con la novità, incapace di parlare con il progresso e con i giovani e, soprattutto, terrorizzato del delocalizzare dal centro di produzione romano. Al suo interno, pochi eletti, tra giovani autori e soliti noti, seppur mostrino miglioramenti e talento, usano come sala prove il festival più importante d’Italia. La colpa non è di Pietro, a cui auguro una grande carriera che possa mostrare al meglio le sue qualità. Sarebbe stupido da parte sua, se nato con questo sogno, di non provare ad approfittare di ciò che suo padre ha coltivato per una vita. Il problema in questo caso è un altro. Pietro si trova alla propria opera seconda un budget di otto milioni e un’altra partecipazione a Venezia, il tutto senza aver mai provato i limiti reali di un budget ristretto e senza aver testato il proprio stile in un ambito pubblicitario o di cortometraggio. Personalmente, da regista, credo che questo sia un grosso danno alla crescita di un autore che vuole fare cinema. Non tutti, purtroppo, siamo Orson Welles. La creazione per la sala è un mestiere complesso e di continua crescita, dove i limiti, spesso, diventano motori per la creazione delle idee migliori. La condizione di Pietro, in chiusura, è dannosa per lui stesso e, con Enea, lo sta dimostrando. Castellitto se la cava in sala confezionando un film inferiore al precedente, a mio avviso. In conclusione, questioni di principio a parte, il film è ok, andate a vederlo. Enea permette di passare due ore in sala a godersi una storia di Roma su Roma. C’è chi ne è appassionato. Io non lo sono, Non più, perlomeno.
Il male non esiste, il nuovo, imperdibile film di Ryusuke Hamaguchi, dopo quella meraviglia che era Drive my car. Un ritorno, seppur di durata più contenuta, a quello stile apparentemente pacato, di profonda riflessione, in cui coesistono in realtà personalità forti, vere, che ribollono e si confrontano con ogni gesto. Per ritrovare, si spera, l’equilibrio. Siamo nei rilievi centrali dell’Honshu, in Giappone. Sulle montagne dunque, fra una comunità piccola ma unita, come sono spesso le comunità, ovunque ci siano le montagne. Ritmi diversi, vita semplice, schietta. Qualcosa che, lo ammetto, apprezzo e mi tocca personalmente, anche paragonato alle comodità della grande città. Ed è proprio da lì, la capitale Tokyo, che arrivano due rappresentanti, salgono i monti per proporre ai residenti la costruzione di un grande campeggio di lusso. Tutta qui la storia, l’impatto sul villaggio di un progetto che cambierebbe drasticamente il territorio, visto in particolare dagli occhi di Takumi, vedovo distratto con una figlia, Hana, e tuttofare della zona. Ci sarà una scena di un quarto d’ora, nient’altro che i cittadini che fanno domande ed esprimono dubbi sul campeggio. I due rappresentanti, in realtà parte di una compagnia di attori chiamata a fare le veci dei costruttori, messi in difficoltà dalla loro ignoranza sulle necessità della zona. Campi, controcampi, la semplicità del cinema in cui “non succede niente”, e che tuttavia è una delle cose più elettrizzanti viste a questa Mostra. Hamaguchi ha un penna magica (anche senza l’aiuto di Murakami stavolta) unita ad una delicatezza rara nella regia, e riesce a tenerti all’amo così, quasi con nulla. Mi viene in mente la scena in macchina, in cui i due rappresentanti, dopo essersi confrontati coi capi a Tokyo, tornano in montagna. Ci saranno tre inquadrature a dire tanto (lui, lei ed entrambi da dietro), eppure è la mia preferita. Il dialogo scorre con una tale naturalezza che ti sembra d’essere loro compagno di viaggio, anche se stai solo ascoltando, con quella semplicità delle conversazioni vere, dove si ragiona, si sta in silenzio, si esprimono dubbi, si scherza, ci si prende in giro, si confessa, si parla tanto per parlare. Il male non esiste perché sarebbe troppo semplice, qui come in tutti i bei film orientali c’è tanto grigio, e non la didascalica opposizione di bianco e nero. Lo sentiamo in quei due, che all’inizio sembravano solo strumenti di uno scopo, in particolare lui, che aveva “yes man” stampato in faccia, mentre lei sembrava già più umile. Invece presto cominciano ad affezionarsi a questa comunità montanara, che finalmente al cinema non viene rappresentata come chiusa, bigotta e di cui aver paura (anche As Bestas quest’anno non è stato così scontato in merito), ma come un mondo, persone con diversi tempi e necessità, che meritano equilibrio col resto del paese, esplorazioni più sentite di chi pontifica per loro nelle grandi città, un tema universale e anche italiano, non solo giapponese. È una comunicazione difficile, che prende tempo, esattamente come imparare a tagliare la legna, come saper camminare nel bosco riconoscendo piante e animali. Come ottenere buon cibo dall’acqua di sorgente; raccoglierla quell’acqua, un pentolino alla volta, e poi portarla nei canestri, piano, con fatica, come lei che arranca sotto il peso, perché tutte le cose belle meritano fatica. Solo un dubbio mi ponevo, ma questa meraviglia come la faranno finire? Purtroppo, il film più che finire si ferma, c’è una specie di improvvisa emergenza, come ne Il mio vicino Totoro, e certi personaggi hanno reazioni per me totalmente incomprensibili. Comunque, anche con questo neo, avercene.
Pietro Castellitto è capace, non si può negare. Però che abbia avuto le chiavi per 8 milioni senza sapere esattamente come incanalarli è nuovamente sintomo diretto delle sue origini. Sembra una frase faziosa ma è, per me, il problema di questo film. Un giovane rampollo della Roma bene cerca un qualcosa di diverso dalla sua vita, una scossa che possa dare senso alle sue giornate piene di eventi, persone e situazioni che per lui, alla fine, non contano nulla. Pietro scrive bene le scene famigliari e le battute più divertenti e apprezzo come traspaia l’amore per la sua famiglia. Ma, appena cerca di approfondire un tema più serio, risulta retorico e finto, perde qualità di scrittura e credibilità. Castellitto, poi, condisce i vuoti narrativi con scene ad alto budget, tra alberi che cadono e scene in volo. La sua ascendenza alle belle immagini non manca, sicuro ha delle intuizioni e crescerà come un autore negli anni. Però non stiamo vedendo un cineasta che ha fatto una carriera partendo dalle cantine come tutti, ma uno che sta sperimentando e scoprendo le basi del suo stile al festival di Venezia. Questo rappresenta, a mio avviso, uno dei grandi problemi del cinema nel nostro paese. Da lavoratore del settore incontro quotidianamente un sottobosco di qualità dove centinaia di bravi autori nemmeno possono avvicinarsi alla macchina da presa, dove ci si mantiene facendo i camerieri e dove, molti, abbandonano dopo anni di no e porte chiuse. Il “sistema cinema italiano” è chiuso, autoreferenziale, giudicante e cattivo con la novità, incapace di parlare con il progresso e con i giovani e, soprattutto, terrorizzato del delocalizzare dal centro di produzione romano. Al suo interno, pochi eletti, tra giovani autori e soliti noti, seppur mostrino miglioramenti e talento, usano come sala prove il festival più importante d’Italia. La colpa non è di Pietro, a cui auguro una grande carriera che possa mostrare al meglio le sue qualità. Sarebbe stupido da parte sua, se nato con questo sogno, di non provare ad approfittare di ciò che suo padre ha coltivato per una vita. Il problema in questo caso è un altro. Pietro si trova alla propria opera seconda un budget di otto milioni e un’altra partecipazione a Venezia, il tutto senza aver mai provato i limiti reali di un budget ristretto e senza aver testato il proprio stile in un ambito pubblicitario o di cortometraggio. Personalmente, da regista, credo che questo sia un grosso danno alla crescita di un autore che vuole fare cinema. Non tutti, purtroppo, siamo Orson Welles. La creazione per la sala è un mestiere complesso e di continua crescita, dove i limiti, spesso, diventano motori per la creazione delle idee migliori. La condizione di Pietro, in chiusura, è dannosa per lui stesso e, con Enea, lo sta dimostrando. Castellitto se la cava in sala confezionando un film inferiore al precedente, a mio avviso. In conclusione, questioni di principio a parte, il film è ok, andate a vederlo. Enea permette di passare due ore in sala a godersi una storia di Roma su Roma. C’è chi ne è appassionato. Io non lo sono, Non più, perlomeno.
XUE BAO (IL LEOPARDO DELLE NEVI) di Pema Tseden (Cina)
Pema Tseden ci ha lasciato l’anno scorso e l’ho scoperto dopo aver visto una sua opera per la terza volta a Venezia. Come sempre il film l’ho trovato squisito, e questa notizia me lo ha fatto apprezzare con un senso malinconico maggiore. L’autore è, come sempre, capace di mostrare l’altopiano tibetano come un luogo alieno, lontano, ma anche fatto di umanità amicizia e socialità. Un leopardo delle nevi viene catturato da un contadino dopo aver ucciso 9 montoni. Una troupe accompagnerà l’uomo nella sua attesa delle autorità e nella sua richiesta di essere rimborsato dei danni. Un film di lunghe attese, capace di far ridere con un meccanismo di ripetizione quasi esasperato e con un ottimo Jinpa nel ruolo del contadino. Il film presenta anche alcune scene oniriche di ottima fattura e una CGI realistica che è capace di mischiarsi bene nella durezza reale dell’ambiente delle distese tibetane.
ENRICO GASPARI
AKU WA SONZAI SHINAI di Ryusuke Hamaguchi (Giappone)
Pema Tseden ci ha lasciato l’anno scorso e l’ho scoperto dopo aver visto una sua opera per la terza volta a Venezia. Come sempre il film l’ho trovato squisito, e questa notizia me lo ha fatto apprezzare con un senso malinconico maggiore. L’autore è, come sempre, capace di mostrare l’altopiano tibetano come un luogo alieno, lontano, ma anche fatto di umanità amicizia e socialità. Un leopardo delle nevi viene catturato da un contadino dopo aver ucciso 9 montoni. Una troupe accompagnerà l’uomo nella sua attesa delle autorità e nella sua richiesta di essere rimborsato dei danni. Un film di lunghe attese, capace di far ridere con un meccanismo di ripetizione quasi esasperato e con un ottimo Jinpa nel ruolo del contadino. Il film presenta anche alcune scene oniriche di ottima fattura e una CGI realistica che è capace di mischiarsi bene nella durezza reale dell’ambiente delle distese tibetane.
ENRICO GASPARI
AKU WA SONZAI SHINAI di Ryusuke Hamaguchi (Giappone)
Il male non esiste, il nuovo, imperdibile film di Ryusuke Hamaguchi, dopo quella meraviglia che era Drive my car. Un ritorno, seppur di durata più contenuta, a quello stile apparentemente pacato, di profonda riflessione, in cui coesistono in realtà personalità forti, vere, che ribollono e si confrontano con ogni gesto. Per ritrovare, si spera, l’equilibrio. Siamo nei rilievi centrali dell’Honshu, in Giappone. Sulle montagne dunque, fra una comunità piccola ma unita, come sono spesso le comunità, ovunque ci siano le montagne. Ritmi diversi, vita semplice, schietta. Qualcosa che, lo ammetto, apprezzo e mi tocca personalmente, anche paragonato alle comodità della grande città. Ed è proprio da lì, la capitale Tokyo, che arrivano due rappresentanti, salgono i monti per proporre ai residenti la costruzione di un grande campeggio di lusso. Tutta qui la storia, l’impatto sul villaggio di un progetto che cambierebbe drasticamente il territorio, visto in particolare dagli occhi di Takumi, vedovo distratto con una figlia, Hana, e tuttofare della zona. Ci sarà una scena di un quarto d’ora, nient’altro che i cittadini che fanno domande ed esprimono dubbi sul campeggio. I due rappresentanti, in realtà parte di una compagnia di attori chiamata a fare le veci dei costruttori, messi in difficoltà dalla loro ignoranza sulle necessità della zona. Campi, controcampi, la semplicità del cinema in cui “non succede niente”, e che tuttavia è una delle cose più elettrizzanti viste a questa Mostra. Hamaguchi ha un penna magica (anche senza l’aiuto di Murakami stavolta) unita ad una delicatezza rara nella regia, e riesce a tenerti all’amo così, quasi con nulla. Mi viene in mente la scena in macchina, in cui i due rappresentanti, dopo essersi confrontati coi capi a Tokyo, tornano in montagna. Ci saranno tre inquadrature a dire tanto (lui, lei ed entrambi da dietro), eppure è la mia preferita. Il dialogo scorre con una tale naturalezza che ti sembra d’essere loro compagno di viaggio, anche se stai solo ascoltando, con quella semplicità delle conversazioni vere, dove si ragiona, si sta in silenzio, si esprimono dubbi, si scherza, ci si prende in giro, si confessa, si parla tanto per parlare. Il male non esiste perché sarebbe troppo semplice, qui come in tutti i bei film orientali c’è tanto grigio, e non la didascalica opposizione di bianco e nero. Lo sentiamo in quei due, che all’inizio sembravano solo strumenti di uno scopo, in particolare lui, che aveva “yes man” stampato in faccia, mentre lei sembrava già più umile. Invece presto cominciano ad affezionarsi a questa comunità montanara, che finalmente al cinema non viene rappresentata come chiusa, bigotta e di cui aver paura (anche As Bestas quest’anno non è stato così scontato in merito), ma come un mondo, persone con diversi tempi e necessità, che meritano equilibrio col resto del paese, esplorazioni più sentite di chi pontifica per loro nelle grandi città, un tema universale e anche italiano, non solo giapponese. È una comunicazione difficile, che prende tempo, esattamente come imparare a tagliare la legna, come saper camminare nel bosco riconoscendo piante e animali. Come ottenere buon cibo dall’acqua di sorgente; raccoglierla quell’acqua, un pentolino alla volta, e poi portarla nei canestri, piano, con fatica, come lei che arranca sotto il peso, perché tutte le cose belle meritano fatica. Solo un dubbio mi ponevo, ma questa meraviglia come la faranno finire? Purtroppo, il film più che finire si ferma, c’è una specie di improvvisa emergenza, come ne Il mio vicino Totoro, e certi personaggi hanno reazioni per me totalmente incomprensibili. Comunque, anche con questo neo, avercene.
LE FILM PRO-NAZI D’HITCHCOCK di Daphne Baiwir (Francia)
Titolo piuttosto provocatorio per un documentario tutto sommato abbastanza classico, ma di buona fattura, su uno dei film oggi meno ricordati di Hitchcock, Prigionieri dell’oceano. In realtà Lifeboat, titolo originale, fu un grande successo all’epoca, nonostante la Seconda guerra mondiale in corso, e attirò su di sé svariate controversie. Non ultima, appunto, quella di essere a suo modo pro-nazista. Produzione francese nata nel 2018, questo bel lavoro è frutto della passione di una giovane regista, che ha dovuto convincere parecchia gente che c’era una storia interessante, prima di poterla raccontare. E se ha un difetto questo racconto, è che incrocia moltissime storie parallele velocemente, tra l’altro spiegate metà in inglese e metà francese, con sottotitoli a cui mancava pure qualche parola (ma questa è colpa di Venezia e del suo controllo qualità). Il tutto quando magari compariva qualche scritta o trafiletto di giornale, che nemmeno hai il tempo di leggere… Insomma, c’è un po’ di confusione, ma credo che sia pure connaturata ad una storia così estesa. Si parla certo di Hitchcock, con un graditissimo preambolo sulla sua carriera nel cinema muto inglese, e in una chiosa finale sul periodo “nazista” della sua filmografia – la tetralogia Il prigioniero di Amsterdam, Sabotatori, Prigionieri dell’oceano, Notorius. Ma si analizza in dettaglio il periodo, la guerra, che portò il grande britannico a fare film di propaganda e documentari, anche in altre lingue, pressoché sconosciuti oggi; il cinema di allora e il posto in esso del ristretto cast, perso sulla scialuppa di salvataggio, ovviamente ricreata con trucchi in studio; John Steinbeck, il celebre scrittore, la sua sceneggiatura per il film, i motivi che spinsero lui e parte del mondo del giornalismo a rinnegare questo film, bollato come filonazista; il processo dopo l’uscita. E ovviamente di nuovo Hitchcock, che, serafico come sempre, smonta tutto con una sola frase: “loro credevano che perché fosse un cattivo nazista dovesse essere anche un cattivo marinaio”. Da rivedere con calma, per appassionati di Hitch e di storia del ‘900.
Titolo piuttosto provocatorio per un documentario tutto sommato abbastanza classico, ma di buona fattura, su uno dei film oggi meno ricordati di Hitchcock, Prigionieri dell’oceano. In realtà Lifeboat, titolo originale, fu un grande successo all’epoca, nonostante la Seconda guerra mondiale in corso, e attirò su di sé svariate controversie. Non ultima, appunto, quella di essere a suo modo pro-nazista. Produzione francese nata nel 2018, questo bel lavoro è frutto della passione di una giovane regista, che ha dovuto convincere parecchia gente che c’era una storia interessante, prima di poterla raccontare. E se ha un difetto questo racconto, è che incrocia moltissime storie parallele velocemente, tra l’altro spiegate metà in inglese e metà francese, con sottotitoli a cui mancava pure qualche parola (ma questa è colpa di Venezia e del suo controllo qualità). Il tutto quando magari compariva qualche scritta o trafiletto di giornale, che nemmeno hai il tempo di leggere… Insomma, c’è un po’ di confusione, ma credo che sia pure connaturata ad una storia così estesa. Si parla certo di Hitchcock, con un graditissimo preambolo sulla sua carriera nel cinema muto inglese, e in una chiosa finale sul periodo “nazista” della sua filmografia – la tetralogia Il prigioniero di Amsterdam, Sabotatori, Prigionieri dell’oceano, Notorius. Ma si analizza in dettaglio il periodo, la guerra, che portò il grande britannico a fare film di propaganda e documentari, anche in altre lingue, pressoché sconosciuti oggi; il cinema di allora e il posto in esso del ristretto cast, perso sulla scialuppa di salvataggio, ovviamente ricreata con trucchi in studio; John Steinbeck, il celebre scrittore, la sua sceneggiatura per il film, i motivi che spinsero lui e parte del mondo del giornalismo a rinnegare questo film, bollato come filonazista; il processo dopo l’uscita. E ovviamente di nuovo Hitchcock, che, serafico come sempre, smonta tutto con una sola frase: “loro credevano che perché fosse un cattivo nazista dovesse essere anche un cattivo marinaio”. Da rivedere con calma, per appassionati di Hitch e di storia del ‘900.
Quest’anno è stato il mio più lungo alla Mostra, ma proprio per questo vorrei riassumerlo in breve. Come sempre le belle esperienze, il grande cinema non manca, anche se non posso valutare la qualità complessiva avendo praticamente dedicato tutto ai film sconosciuti o poco più. The Palace, Poor Things, The Killer sono solo alcuni dei più famosi che non ho potuto vedere, e da questa prospettiva credo che le sezioni collaterali siano da qualche anno un poco esangui, bisognose di una bella botta di vita, e soprattutto di varietà, cinema alternativo e anche di genere (non sarà un caso che fuori dal concorso si è distinto un film di vampiri). Ma questa è Venezia, il tempio del Cinema impegnato, che però quando ne esci ti fa apprezzare più che mai quello mainstream, e dubito che le cose cambieranno presto. Forse questi sono solo pensieri un po’ piccati, nati sulle scomode poltroncine di Palabiennale e Sala Corinto, a rimpiangere ancora per un anno il Multisala Astra, ma addolciti da qualche bella sorpresa, il programma cartaceo finalmente tornato agli accreditati, e una selezione di restauri sempre di prim’ordine. Anche quest’anno è passata, i premi sono stati consegnati (commento solo per Il male non esiste, a cui il secondo posto non potrebbe calzare di più) e torneremo la prossima estate, come sempre. Grazie per aver letto, da Venezia 80 passo e chiudo.
TOMMASO FERRERO
IO CAPITANO di Matteo Garrone (Italia, Belgio)
Il mio film preferito in questa edizione della mostra. Una storia di due migranti senegalesi lungo la tratta libica per arrivare in Italia, una storia-esempio di quella che è una delle più grandi tragedie umane del nostro secolo. L’avventura è racchiusa in un film potente e commovente, capace di parlare di un tema su cui si è detto molto ma senza alcuna ombra retorica. Il film assume una forma onirica in alcuni punti che eleva ed emoziona senza scadere nel patetismo, anzi, aggiungendo ottime sfaccettature alla vicenda umana straziante che il protagonista sta affrontando. Il sogno è ciò che fa muovere le gambe nel deserto, il sogno è ciò che permette di salire su una barca arrugginita, il sogno è ciò che fa abbandonare la propria madre senza un saluto. Il sogno è la grande base del film, non la guerra, non il dramma, ma un grande sogno e un diffuso amore per la vita. Un film fatto di umanità e di grandi sguardi, con un Garrone in grinta capace di creare immagini epiche dove, effettivamente, c’è solo il deserto. A differenza di Green Border (comunque l’altro film che è riuscito ad emozionarmi durante la mostra) ha una lettura più umana e positivista. Cerca di far sentire lo spettatore meno colpevole, non crea grandi accuse ma lascia parlare l’anima del film stesso. Non c’è retorica e c’è un rifiuto del luogo comune, il che rende il film corretto verso chiunque viva la vicenda. Verso il futuro si incarna uno sguardo di speranza che sento, forse, più mio. Il titolo in chiusura assume una forza esorbitante, un senso salvifico in fondo allo stomaco, come quello della terra dopo lunghi viaggi per mare.
Nel mercato di una città giapponese devastata dalla guerra, la vita dei relitti umani rimasti vivi ricomincia a scorrere lentamente. L’arrivo di un soldato e di un bambino in casa di una prostituta ricreano una situazione sospesa e surreale di una famiglia ritrovata. Hokage è un bel film, dai ritmi lenti, asiatici e distesi, che si rifanno al nulla lasciato dalla distruzione della guerra. Le psicologie dei personaggi sono rarefatte e frammentate, imprevedibili come bombe inesplose. La bellezza del film sta nella sua cifra umana, che va a bucare la pulizia tipica del comportamento sociale giapponese, composto e rigido, portandolo alla sua estremizzazione. Il Giappone dopo la guerra rappresenta uno dei punti più bassi per la nazione, dove l’intera società ha perso onore, guida e obiettivi. Il film è uno sguardo eccezionale verso una condizione specifica dell’animo umano dove la resilienza e l’abbandono sono due facce quasi obbligate della stessa medaglia e, dove, le vie di mezzo sono solo fugaci illusioni.
VAMPIRE HUMANISTE CHERCHE SUICIDAIRE CONSENTANT di Ariane Louis-Seize (Canada)
Un film adorabile che ricorda le tinte di A girl walks home at night, ma in una lettura di commedia. Una giovane vampira è malata di empatia, non riuscendo a mordere esseri umani indifesi. La conoscenza con un suo coetaneo con manie suicide la porterà a scoprire un rapporto che va oltre a quello tra predatore e preda. La storia del film è davvero molto simpatica, e anche la scelta attoriale dei singoli ragazzi è davvero azzeccata. La commedia si lascia guardare con piacere, con l’arrivo di un paio di scene di grande qualità. Insomma, un ottimo esempio di “cinema di formazione” in una chiave nuova, fresca e, soprattutto, nera.
WU YUE XUE (SNOW IN MIDSUMMER) di Chong Keat Aun (Malesia, Taiwan, Singapore)
Un film che narra della ricerca delle tombe nascoste di una strage dimenticata dalla storia da parte di una delle figlie di una delle vittime. Il film dà visibilità a un momento durissimo della storia Malese, dove, in una notte, centinaia di persone persero la vita solo perché di etnia cinese. Il film ha un dovere sociale e storico, ma la sua visione rappresenta, a mio avviso, un’impresa ardua. Il regista ha un senso della composizione dell’immagine incredibile, dove ogni immagine (soprattutto all’inizio) rappresenta un quadro. Alla lunga, però, la storia diventa pesante, ripetitiva, difficile da seguire e quasi angosciante. Ammetto che, a una certa, ho leggermente chiuso gli occhi durante l’ennesima rappresentazione di un rito funebre cinese. Il film ha valore artistico e sociale, ma sicuramente pecca dal punto di vista di intrattenimento e narrativo.
CONCLUSIONI
Questa mostra è stata deludente. Forse anche quest’anno è colpa del fatto che mi sono perso i primi giorni, ma ho trovato la selezione faziosa, poco varia e incapace di mostrare quella che io definisco “la magia del mezzo”. Lascia a pensare che, per la prima volta da anni, ho deciso consciamente di non entrare in sala, complice una grande stanchezza e il peso delle pellicole viste. Ho notato una grandissima autoreferenzialità dei film in concorso, una presa di posizione aggressiva e di chiusura di fronte al mondo esterno alla sala e alla cricca che conta La posizione presa da molti registi sembra essere quella di eremiti sulla montagna dell’arte che hanno deciso che il mondo non li voglia più e che, dunque, dovranno fare il loro mestiere per loro stessi. Questo porta, di conseguenza, un generale inasprimento del mezzo e un sintomatico non-amore per la propria opera. E questo, il pubblico, lo sente. Io, perlomeno, l’ho percepito. Credo che, in un mondo che avanza, il cinema non perderà la sua funzione, come non l’hanno persa sia l’opera lirica che il teatro. Semplicemente è giusto capire come interfacciarsi al presente, ma senza perdere la propria qualità principale, ovvero saper scandagliare l’umano con la sincerità spiazzante della camera. Siamo in un periodo di cambiamento e spero che il cinema dei prossimi anni sia qualcosa di capace di parlare ancora alle nostre anime inaridite dalla velocità dell’esistenza e dei contenuti. Io sono convinto che ci arriveremo. Vedremo che succederà l’anno prossimo.
Orcamiseria, Grazie mille per il vostro lavoro!
RispondiEliminagrazie!
Eliminachissà quanti arriveranno in sala, oltre a Garrone.
RispondiEliminaho letto che Lanthimos arriva a gennaio, Hamaguchi chissà.
intanto grazie per il triplo sguardo :)
Sai che non ho nemmeno controllato che film hanno recensito? so solo di Francesca perchè me l'ha detto privatamente
Eliminaora controllo, sarebbe bello e buffo se magari di uno stesso film hanno parlato tutti