"...Rachele, vedendo che non le era concesso di procreare figli a Giacobbe, divenne gelosa della sorella e disse a Giacobbe: «Dammi dei figli, se no io muoio!». Giacobbe s'irritò contro Rachele e disse: «Tengo forse io il posto di Dio, il quale ti ha negato il frutto del grembo?». Allora essa rispose: «Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, così che partorisca sulle mie ginocchia e abbia anch'io una mia prole per mezzo di lei». Così essa gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei. Bila concepì e partorì a Giacobbe un figlio. Rachele disse: «Dio mi ha fatto giustizia e ha anche ascoltato la mia voce, dandomi un figlio»..." (Genesi 30, 1-6)
La riconobbe all’istante, a prima vista fu sicura che quello fosse il volto di cui aveva tanto sentito parlare. Z non era molto alta, ma aveva un bel portamento, schiena dritta, un mento fiero su cui spuntava una piccola fossetta, fronte alta e orgogliosamente lasciata scoperta da lunghi capelli raccolti all’indietro. A si incuneò tra la folla, spinta da un’inquietudine che in un primo momento battezzò curiosità e che R avrebbe di certo definito civetteria femminile, quasi ne rise al pensiero.
Si avvicinò ancora, finse di prendere una posizione di distanza dal centro della scena, per guadagnare una zona da cui avesse potuto mirarne il profilo. Ora era abbastanza vicino da poterne indovinare l’odore, qualche essenza floreale pensò, molto semplice. Rientrava perfettamente nei canoni. Non le sembrò particolarmente bella, ma aveva un viso che era la grazia personificata: se qualche dio avesse mai lasciato a metà il suo volto, la logica estetica di un chirurgo o la razionalità armonica di un pittore l’avrebbero portato a termine esattamente com’era. Si sorprese a richiamare alla mente questi strani pensieri, e quasi a scacciarli via volse il volto verso il cielo, ma lassù la rotondità di una nuvola la rimandò immediatamente al volto di Z. Non poté riconoscere ciò di cui aveva sentito parlare più spesso, il suo sorriso: ciò che più di tutto aveva attratto R. Non era certo quella l’occasione per vederle sfoggiare un sorriso. Si scoprì intenta a fissare una coppia di lombrichi intrecciati in un viscido connubio amoroso sopra un gambo di un fiore appassito. Quella decadente e gelatinosa composizione floreale la rimandava alla freschezza del profumo della donna davanti a lei. La sua persona era diventata il centro di gravitazione dei suoi pensieri e affezioni. R sopravviveva nella figura eterea di Z pensò per un attimo. Se ne vergognò. In quel momento, Z, forse intercettando la pesantezza di due occhi che le trafiggevano il capo, si voltò e incrociò lo sguardo con quello di A. Ne emerse un sorriso a mezza bocca. A arrossì e si vergognò ancora di più, quasi colta in fallo. Fece per allontanarsi, quando Z proferì: “tu sei A? vero?”. Con timidezza e sfoggiando un sorriso di circostanza, di rimando, cercando di nascondere un volto ingombrante, saturo di sapere: “Sì, conoscevi R?”. “Sì, non bene, ma quel poco che è sufficiente oggi a rendermi molto triste”. Provò ancora vergogna a quelle parole, quasi riconoscendosi in una anziana vedova nel giorno di un addio inconsolabile. A non voleva dare l’apparenza di una vedova di fronte a Z, ma il suo senso di vergogna nasceva dallo strano senso di vuoto che aveva lasciato in lei R. Si vergognava di non provare dolore, aveva perso R già molto tempo prima per via di Z, oggi ne salutava solo le spoglie mortali. Voleva però che i segni del lutto fossero socialmente riconoscibili. Concesse subito una capitolazione senza riserve alla sua antica avversaria “Tu sei Z, R mi aveva parlato molte volte e con grande trasporto di te”. La voce rotta a metà della frase aveva rivelato molto più del suo contenuto. Z non prestò molta attenzione a quella viva partecipazione degli occhi di A, o perlomeno finse bene di non farlo e di rimando “R era il ragazzo più gentile che abbia mai conosciuto”. Dopo quelle parole, A avrebbe voluto abbandonare il campo immediatamente, ma le circostanze glielo impedivano, se ne uscì con un interlocutorio “Già…” solo per stemperare e lenire in parte il bruciante calore delle ferite riacutizzate dalle parole di Z. Ma A rivolgendosi ancora a Z, in un impeto di carità al quale solo i cuori più puri arrivano, che consiste nel togliere all’avversario la spada inoperosa ormai rinfoderata per infilarla loro stessi nel proprio petto, con un filo di voce le sussurrò: “sai, stasera, ci sarebbe una cerimonia ristretta a casa di R, solo per gli amici più stretti, vorrei che venissi anche tu”. Z, cercando di mascherare un evidente disagio “beh… non saprei… ho un turno lavorativo difficile oggi pomeriggio” accampando la prima scusa che passò per la sua testa, poi quasi a non voler deludere un invito tanto gentile “Insomma… non ti prometto nulla, magari riesco, ecco.” “Ci conto” soggiunse A di rimando e senza darle il tempo di ribattere si allontanò soddisfatta di aver perso una guerra che le aveva lasciato così tante cicatrici che le ottundevano le piccole frustrazioni che la vita le poneva ogni giorno davanti.
La sera A e gli amici erano tutti intorno alla belva di R, sembrava già che soffrisse di solitudine per la dipartita del suo unico compagno. Un’enorme lurida, viscida carcassa tutta raggomitolata su se stessa e tante persone a farle coraggio. A l’accarezzava amorevolmente come aveva fatto altre volte, la belva non dava accenno ad alcun movimento se ne stava su di sé, respirando rumorosamente, non preoccupandosi di dare le spalle a tutti i convitati.
Z arrivò in tarda serata, quasi tutto era finito, gli amici se ne erano andati, rimanevano stoviglie usate su una tovaglia bianca impiastricciata in più punti di vino e di olio, una bottiglia di prosecco, A e la bestia. A la accolse con un’espressione piatta di stupore, si sollevò dall’incombente mastino, poi, con un sorriso insperato le si avvicinò porgendogli un bicchiere, e ancora senza parlarle prese la bottiglia rimasta a metà e le servì da bere. Infine: “Sono contenta che tu abbia deciso di venire”
“mah… ho fatto prima del previsto… lei come sta? E’ molto più grande di quando l’avevo vista l’ultima volta”, indicando con una fugace occhiata la bestia.
“Sì, si era ridotta per un periodo, ma ha ricominciato a crescere considerevolmente”
“E’ inquietante, mi fa molta paura, non riuscivo ad avvicinarmi ad R se c’era anche lei”
“Spesso si fissa con alcune persone, ma non è cattiva… la sua è solo un’orrenda sceneggiata fatta per impressionare… ci sono passata anch’io molto tempo fa. Erano i primi tempi che conoscevo R”
“Non è solo perché mi mostra i suoi denti… è tutto in lei che comunica pericolo, la viscidità della sua pelle, non si può pensare di afferrare qualcosa di così scivoloso e sfuggente”
La bestia nel frattempo si era sollevata dalle coltri che la ricoprivano e aveva guadagnato l’angolo della stanza più lontano dalle due giovani donne.
“Vedi, ha ricominciato a guardarmi con gli stessi occhi di allora, non sopporto quello sguardo” Z nel proferire quelle parole si era spinta quasi tra le braccia di A, ora si specchiavano l’una nell’altra, e tutte e due si riflettevano nella bestia che di lontano osservava sempre più rabbiosamente quella composizione. A allontanò platealmente Z.
“Non davanti a lei” disse seccata, e premurosamente si recò sopra lo scabroso mastodonte, che alle sue carezze sembrò lenire la rabbia e placare il ringhio infernale. Z in un primo momento rimase stupita, rigida come una statua di sale, le parve di aver subito un rifiuto ad un avance che non aveva mai voluto fare. Maldestramente dissimulò quella sua sensazione riponendo l’attenzione al bicchiere mezzo pieno che aveva davanti, ne trangugiò il liquido tutto insieme, poi guadagnò l’angolo opposto a quello di A e della belva. Osservò per la prima volta A, non che non l’avesse mai guardata prima, ma era la prima volta che misurava davvero i contorni della superficie di quella donna, il perimetro della sua esistenza sbatteva furentemente contro le sue pupille, costretta in un inestricabile algoritmo nell’anima che le sfaceva serrare le mascelle e stringere i pugni. Sperimentava la fatalità di un desiderio frustrato.
Guardando l’eccentrico mostro ammansito dalle carezze di A, Z pensò che fosse cresciuto nel lasso di quei due minuti. Non poteva essere un effetto ottico, quell’orrenda bestia era almeno raddoppiata ed era facile notarlo ad occhio nudo. La sua superficie occupava una porzione abbondante del lungo tappeto sul quale era adagiata. Ora però qualcosa la distoglieva dai quei calcoli, A si era rialzata e le veniva incontro con un sorriso dolce quanto mai ne aveva veduto prima, arrossì dalla gentilezza di quel segno inaspettato, specie dopo quella secca crepa che ancora scuoteva le fondamenta della sua coscienza.
“Non preoccuparti ora si è tranquillizzata”
“Bene, perché ora dovrei andare, si è fatto tardi. E mi sarebbe dispiaciuto lasciarti in compagnia di quell’animale tremendo per giunta in quello stato”
“Ma è ancora presto, dai… beviamo un altro sorso in compagnia e poi ti accompagno alla macchina.”
“No.. Davvero, troppe emozioni per me in una sola giornata, spero di risentirti in un altro momento”
A se ne stava braccia conserte di spalle alla bestia, che nel frattempo era ancora lievitata. Z se ne accorse e turbata, richiamò l’attenzione di A sulla carcassa di quell’essere.
“Ne sono certa è molto più grande di quando sono arrivata”
“Spesso le accade di gonfiarsi, ma non darle peso, sarà lo stress per la perdita di R”
“Ora è enorme, prima arrivava solo fino a là…” indicando vibrantemente una linea nel tappeto “ora occupa tutto il tappeto. Ti senti sicura a rimanere sola in casa con lei?”
“Sei gentile a preoccupar…” Non aveva fatto in tempo a finire quelle due parole che la bestia era di nuovo ritta sulle quattro zampe e mostrava i canini affilati, producendo un latrato niente affatto gradevole.
“Va bene ora forse dovresti andare. Si è fatto tardi.”
A tagliò ogni possibile trama ad un rapporto che non era ancora nato.
Dopo appena qualche minuto dalla precedente Z lamentava una nuova lacerazione, o forse era solo del sale che si era riversato sulla precedente ferita che ora la faceva bruciare fino alle lacrime.
Z se ne andò, con un indefinibile groppo in gola e gli occhi in fiamme.
Il giorno successivo, non riuscì proprio a spiegarsi da dove si fosse manifestato quel piccolissimo mostro dagli occhi verdi, viscido e peloso, né per quale ragione lo avesse accolto in casa. Tuttavia, ciò che più di ogni altra cosa non riusciva a comprendere era perché, nonostante il profondo senso di repulsione che le suscitava, non poteva smettere di accarezzare quella bestiola immonda.
Non oso esprimere alcuna interpretazione. Mi ha scombussolato parecchio, in senso buono. :)
RispondiEliminaho improvvisamene voglia di rivedere L'australiano di Skolimowski, di cui non ricordo quasi nulla, se non l'atmosfera, che per qualche ragione questo tuo racconto mi richiama. Piacerebbe a te come a G.
Ps: quindi praticamente il primo esempio di utero in affitto è nella Bibbia
Ciao !
Mi fa piacere che ti abbia colpito in senso positivo... poi hai messo G. forse ti ha colpito davvero ;-). L'australiano già è nel mio bagaglio e forse potrebbe essere una possibile fonte inconsciamente. La brutalità e la fatalità con cui si presenta e scompare lo straniero sono una citazione perfetta. E si, giusta chiosa la tua, ogni volta mi sorprende pensare come la bibbia sia potuta diventare un testo sacro...
EliminaL'ho letto due volte, perchè la prima non mi era bastata per capirlo. Nemmeno la seconda mi è bastata, ma ho capito che non viene palesata alcuna soluzione, il senso è volutamente criptico, forse nascosto dietro qualche simbolo. Ti resta dentro una sensazione piuttosto fastidiosa, e poi quasi una rabbia, forse è frustrazione. E’ inutile, forse ingiusto scervellarsi per tentare di capire. Quella sensazione è già di per sè il fine, e quel che da dietro, nascosto, la fa vibrare, è un qualcosa di inguardabile, disastroso, preoccupante, pericoloso, come una bestia da accarezzare per non farsi sbranare. Lo sfregamento reciproco di questi personaggi, di queste esistenze che non si sa per quale arcana ragione si attraggono pur repellendosi, produce uno stridore malevolo, un fastidio, un brivido, un amaro, un ringhio, un viscidume, un conato vergognoso, l’odore dolciastro della cose sfatte.
RispondiEliminaIl linguaggio, prezioso e pesante, mi ricorda, credo, la voce di Borges, e allora si capisce che è inutile tentare di sfondare l’impenetrabile. Le soluzioni ci saranno pure, e di belle, ma sono possibilità, ipotesi. La certezza è la sensazione, e ha la forma cangiante e indefinibile di una bestia a cui non si sa dare un nome, una bestia che bisogna accarezzare, per non farsi sbranare.
Già che ci sono approfitto per chiederti se è legittimo rimpiangere il fatto che Borges non abbia scritto un romanzo, o se secondo te è riuscito coi racconti ad esprimersi completamete.
Già era un gran regalo se uno con la tua profondità di pensiero fosse venuto qua e avesse scritto in fondo "l'ho letto". Ma che tu abbia scritto anche tutto sto commento mi fa un grandissimo piacere. Beh, è già la seconda grande emozione intellettuale di giornata. Stasera mi sogno Spinoza e ci rimango secco sicuro. Va beh deliri a parte. Sì indubbiamente una soluzione c'è ma è ovvio che questa soluzione può essere personale e quindi un punto di vista parziale sulle cose, un linguaggio un po' criptico l'ha velata bene la soluzione. Mettiamola così quando hai scritto che i personaggi si attraggono ma si repellono anche direi che hai centrato più o meno la cosa. Per l'ultimo sulla tua considerazione, per mia formazione, penso sempre che le cose siano da prendere così, non bisognerebbe mai cercare quello di cui mancano, altrimenti dovremmo necessariamente pensare che ci sia una perfezione che risieda necessariamente fuori di loro, ma in effetti è una considerazione che mi sono posto spesso anch'io. Borges era anche un grandissimo lettore e come sai per scrivere spesso c'è bisogno di oblio, di dimenticanza, e avere il peso della sua cultura letteraria sulle spalle deve averlo limitato molto nella ricerca di lievità e scorrevolezza che pretende ogni narrazione. Grazie Ieio.
EliminaCi sento anche qualcosa di Buzzati, soprattutto in quella sensazione di attesa che si ha nel leggere, come se ci si aspetti che debba succedere qualcosa, e invece no, almeno non nella misura che credevi. La bestia è la bestia di tutti, non solo di quei tre. Anche i fantomatici amici le si raggruppano attorno e la coccolano. Ah, mi viene in mente un racconto in particolare di Buzzati che ha un'atmosfera simile, quello della casa infestata dai topi, anche se il suo linguaggio è ben diverso.
RispondiEliminaperfetto anche questo ci sta è vero, la bestia può essere una situazione trasversale che coglie tutti e sì è vero anche la prima cosa è una minaccia che non si compie è una violenza inesplosa, qualcosa che rimane in attesa incompiuta e per questo però sempre in azione. Per Buzzati citami il racconto che a sto punto lo devo leggere.
EliminaSe "la soluzione" è una e ben precisa e non è tante, quando ci vedremo a quattr'occhi me la dovrai dire, dopo aver ascoltato alcune mie ipotesi. In fondo il titolo è un pò un aiutino. I personaggi sembrano legati, forse fusi, sono tre ma hanno un'unica anima. Per Buzzati assolutamente si, ci sono almeno tre o quattro racconti che sarebbe un delitto non fossero letti da un amante di Borges e, suppongo, Kafka. Ho il libro dalla nonna, domani ti do i titoli.
EliminaRipeto un punto di vista c'è anche se te lo dico potrà sembrarti un po'arrangiato. Come mi accade spesso il concetto è la prima base da cui parto poi però la scrittura vuole la sua parte e si stende sopra come una coltre che finisce per introdurre elementi che ottundono la coerenza generale. Diciamo che uno mentre scrive si smarrisce e il progetto va un po' dove vuole. Ne parliamo davanti al Kebab di Tommaso quando riapre il moonshine, così mi dici i titoli di Buzzati (ovvio per Kafka che te lo dico a fare).
EliminaVolentieri, a sto punto ti porterò direttamente il libro dei 60 racconti. E grazie a te per le risposte!
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