2.10.19

Oltre l'Immagine, viaggio nel significato nascosto dei film - 13 - C'era una volta Sergio Leone - di Edoardo Romanella


Puntata un pò anomala e off topic della rubrica di Edoardo.
Una riflessione su tutta la filmografia di Sergio Leone
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Ho deciso di scrivere questo articolo non con l’intento di raccontare una biografia sulla vita del grande regista, ma con l’intenzione di celebrare il suo genio cinematografico e mostrare quanto realmente sia stato importante per la settima arte. Quindi non leggerete nulla riguardo la sua infanzia, la sua famiglia, o la sua gavetta come assistente, solo e unicamente sulla sua opera.

Il primo film risale al 1961, ed è Il colosso di Rodi, film realizzato con un budget molto ridotto, che in sostanza narra la storia tra due amanti, un viaggiatore e la figlia del re di Rodi. E’ l’unico tra i suoi film (a mio avviso) a non essere un capolavoro (sette film totali, sei capolavori, dei quali quattro western, uno sulla Rivoluzione Messicana e uno sulla storia americana nel periodo del proibizionismo). Rappresenta in parole povere il suo esordio, un breve riscaldamento come preludio alla manifestazione del suo vero genio.
Due anni dopo fu convinto da un amico ad andare al cinema a vedere un film capolavoro di Akira Kurosawa: La sfida del Samurai, e ne rimase molto colpito, tant’è che si mise subito a scrivere una sceneggiatura, un “remake stile western” per così dire. Una volta terminata, andò in cerca di un produttore che accettasse il finanziamento.
Una volta trovati i produttori, questi ultimi gli assicurarono di avere l’ok a girare da parte di Kurosawa: poterono iniziare le riprese di quello che oggi conosciamo come Per un pugno di dollari, il primo capitolo della cosiddetta Trilogia del Dollaro.
E’ una storia di guerra tra due famiglie in una cittadina del New Mexico, nella quale arriva un misterioso pistolero, Joe, che prenderà le parti di una di esse (vista la poca moralità dell’altra), e porrà fine alla lotta.

Alla sua uscita il successo è immediato, da subito il pubblico lo percepisce come un western atipico, anni luce avanti ai prodotti americani (nonostante lo abbia girato con lo pseudonimo di Bob Robertson), e sbanca al botteghino. Da qui iniziano le collaborazioni con i grandi attori, da qui iniziano le grandi interpretazioni, come quella di Gian Maria Volontè (nella parte di Ramon) e di Clint Eastwood (nella parte di Joe). Peccato solo che i produttori non avevano ancora stilato un accordo col regista giapponese. Così, quando Kurosawa seppe della pellicola (che in breve tempo era diventata un cult a livello mondiale) citò Leone in tribunale. Come prevedibile vinse la causa e ottenne un cospicuo risarcimento.

Fu così che Sergio Leone stabilì il punto di non ritorno, il punto in cui si inizia a capire l’essenza più profonda della settima arte e da cui attingeranno tutti i registi (successivi e non). E’ il primo esempio di “potere dell’immagine”, di quelle inquadrature simmetriche e oniriche che senza i dialoghi parlerebbero da sole.



(L’inquadratura che segnerà la svolta nella storia del cinema)


Sarebbe riduttivo però dire che questo film si sofferma solo sulla bellezza estetica e sulle inquadrature rivoluzionarie, sull’azione e su qualche frase a effetto (“Quando un uomo col fucile incontra un uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è un uomo morto”).
Sarebbe molto riduttivo, perché qui per la prima volta viene introdotta la controcultura nel mondo del cinema. Qui non ci sono i buoni e i cattivi come era accaduto per ogni film fino a quel momento. Tutti sono buoni e tutti sono cattivi, ognuno tira acqua al proprio mulino. Lo stesso Joe, quando gli viene chiesto dalla famiglia Rojo: “Perchè lo fai?” risponde “Per 500 dollari”. Solo a un certo punto Joe viene spinto alla redenzione, quando vede le lacrime del bambino, il figlio di Marisol (non è un caso che Marisol sia anche il nome della ragazza spagnola nel film Un sacco bello, di Carlo Verdone, aiutato da Leone nelle riprese, così come gli attori nello sviluppo dei propri personaggi, specie Marisol). Solo a quel punto Joe aiuterà Marisol, il marito e il figlio a fuggire, e combatterà la famiglia dei Rojo, ponendo fine alla guerra.



Qui si parla del bene e del male, e di come sia indispensabile l’esistenza dell’uno affinché esista l’altro. “Sembra che non amiate la pace”. “Si può amare qualcosa che non si conosce e in cui non si crede?”
Qui per la prima volta viene attuata un’amara e spietata critica al sistema e al governo americano: entrambe le famiglie riforniscono di armi e whisky sia l’esercito americano che gli indiani, e lo stesso esercito americano rifornisce gli indiani di armi e munizioni. Capite l’inghippo?
E se nessuno è di per se totalmente buono o cattivo, è il potere che trasforma gli uomini in demoni, e la redenzione di Joe partirà proprio dal prendere le parti dei personaggi più deboli, quelli che non hanno il potere: Marisol, il marito e il figlio piccolo.

E come ultima cosa, da qui si inizia a capire il potere della musica, e comincia la collaborazione con uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, colui che considero essere il più grande compositore cinematografico mai esistito, l’orecchio assoluto, che con le sue musiche ha elevato in maniera esponenziale la potenza evocativa dei film di Sergio Leone: Ennio Morricone.

Alla luce dei fatti quindi, da semplice remake o “plagio” come volete chiamarlo, Sergio Leone ci racconta il mito, ci racconta la controcultura, ci racconta il bene e il male, ci racconta la musica, e realizza così quello che probabilmente è il film più importante nella storia del cinema.



Il successo al botteghino fu tale che, nonostante la causa con Kurosawa, l’anno dopo (1965) arriva il secondo capitolo della Trilogia del dollaro: Per qualche dollaro in più. Un altro western, una storia di vendetta tra due pistoleri: un criminale ricercato evaso di prigione (Indio, interpretato ancora una volta da Gian Maria Volontè), e l’uomo che lo vuole uccidere per vendicare la morte della sorella (Mortimer, interpretato da Lee Van Cleef). Da contorno alla vicenda c’è il Monco (Clint Eastwood), che prende le parti di Mortimer, e la banda di Indio (nella quale spiccano le grandi interpretazioni di Klaus Kinski e di Mario Brega).



Anche qui non ci sono dei veri “buoni” o “cattivi”, ogni figura tira acqua al proprio mulino, ogni uomo possiede in se sia il bene che il male (lo stesso Mortimer non esita a uccidere i cavalli dei suoi nemici se serve a disarcionarli).



Così sarà anche nel suo prossimo film, nel 1966: Il buono, il brutto e il cattivo, il film che completa la Trilogia del dollaro, nel quale la vena compositiva di Ennio Morricone sfiora la perfezione.
Questa storia non ha un vero e proprio protagonista, solo una serie di personaggi che ci vengono presentati, e  i quali nomi non verranno mai svelati: Biondo (Clint Eastwood), Tuco (Eli Wallack) e Sentenza (Lee Van Cleef), tutti in cerca di denaro, e disposti a qualunque cosa per arricchirsi (anche se il personaggio che suscita più antipatia è Sentenza, gli altri due non sono dei santi, in linea con la nuova filosofia cinematografica del regista).



Dopo questo film però si iniziava a percepire che il genere era giunto ormai al tramonto.  Nonostante successivamente vennero realizzati alcuni grandi capolavori, come Lo straniero senza nome o Il texano dagli occhi di ghiaccio, non c’era più nulla da dire. Sergio Leone aveva ormai detto tutto.
Così, nel 1968, gira il primo capitolo di quella che sarà nota a tutti come la Trilogia del tempo: C’era una volta il West. Il film immortale, il film sulla nostalgia, il film sul mito.
Un western epico e onirico, con protagonisti Claudia Cardinale, Henry Fonda, Jason Robards e Charles Bronson, quest’ultimo (che interpreta Armonica) in cerca di vendetta su Frank (Henry Fonda). Come contorno alla vicenda la costruzione della ferrovia nel West, la costruzione del treno, la venuta della civiltà, come nella scena finale, che segna la fine di un genere da lui tanto amato.





Curiosità: in questo film per la prima volta manca  Clint Eastwood, il quale rifiutò il ruolo proposto dal regista perché il suo personaggio sarebbe morto dopo un quarto d’ora dall’inizio. E’ la controcultura, l’imprevedibilità della trama, nella quale ogni personaggio è ugualmente sacrificabile, e la scelta di un attore famoso (uno dei suoi storici protagonisti) avrebbe rafforzato ulteriormente questa filosofia. Con questa scelta Clint Eastwood ha confermato di essere vittima del suo stesso personaggio, un prodotto del Sistema, ribadendo appunto che le star di Hollywood non possono morire all’inizio di un film. Da lì il suo rapporto col regista si incrinò, portando quest’ultimo a definirlo come “capace di solo due tipi di espressione: col cappello e senza”. Nonostante questo breve battibecco, i due rimasero amici per tutta la vita.



A questo punto seguono quelle che considero essere le sue opere più straordinarie: Giù la testa (1971) e C’era una volta in America (1984).
Il primo film riguarda la Rivoluzione Messicana, con protagonisti Rod Steiger e James Coburn, ed è segnato da quella che a giudizio di molti (e io sono tra quelli) è la più grande colonna sonora di tutti i tempi, nella quale Ennio Morricone si è davvero superato, ispirato dall’immortale capolavoro Il suonatore Jones, del grande Fabrizio De Andrè. E’ un film dal significato profondo, che inizia con una frase di Mao Tze-tung sulla rivoluzione: “La rivoluzione è un atto di sangue”. C’è tutto in questo film, azione, dialoghi cult, la guerra, e con lo sviluppo delle situazioni prendono corpo le riflessioni sul senso dell’esistenza, sulla morale, sul bene e sul male.






C’era una volta in America è il suo ultimo capolavoro, quello che chiude la Trilogia del tempo, riconosciuto all’unanimità come uno dei grandi capolavori del cinema mondiale.
Caratterizzato dalle grandi interpretazioni, tra cui Robert De Niro e James Woods, narra la storia dell’America vissuta attraverso gli occhi di Noodles e dei suoi amici, dal proibizionismo fino agli anni Sessanta, tra mito, sogni e una realtà dura e spietata, con un finale grandioso. Si dice che stesse lavorando a un altro film, sulla guerra in Russia (allora Unione Sovietica), ma non abbiamo avuto la fortuna di ammirarlo, causa la sua prematura morte, avvenuta nel 1989 per un attacco cardiaco.






Il cinema nacque agli inizia del ‘900, grazie ai fratelli Lumiere, a partire dalla fotografia. Seguirono le prime produzioni Hollywoodiane, il fondamentale espressionismo tedesco, il nuovo cinema giapponese, poi i grandi registi americani come Alfred Hitchcock e Orson Welles, seguiti da De Sica, Antonioni, Fellini, Kurosawa, Tarkovskij e così via. Ognuno ha dato il proprio contributo alla settima arte, e se dovessi scegliere quale sia il più grande film nella storia del cinema vi direi Waking Life, di Richard Linklater.
Tuttavia, rimanendo prettamente su una questione tecnica, su una cosa sono abbastanza sicuro: tutti coloro che lo hanno seguito e coloro che lo hanno preceduto hanno appreso da Sergio Leone, come  ho scritto all’inizio. E’ da lui che l’immagine per la prima volta acquista il vero potere onirico, da lui il mito inizia a essere davvero il mito, da lui controcultura entra nel cinema, da lui la musica diventa parte integrante di esso.
Stanley Kubrick (la quale opera possiamo non solo suddividere in “prima e dopo Kirk Douglas” ma anche in “prima e dopo 2001: Odissea nello spazio”), ha ringraziato e omaggiato più volte il grande regista italiano, reo di essere stato proprio lui il punto di svolta (girando la “Trilogia del dollaro”) della sua filmografia, definendolo come la sua più grande fonte d’ispirazione (soprattutto nella geometria perfetta delle inquadrature), senza il quale non sarebbe stato il Kubrick che oggi conosciamo (a tal proposito, chiese l’aiuto di Leone per girare Barry Lyndon, nelle riprese e nelle musiche, dal momento che doveva essere realizzato solo con l’ausilio delle luci naturali).
E come Kubrick moltissimi altri registi hanno omaggiato Leone come il più importante nella storia del cinema: da Lynch a Martin Scorsese, da David Fincher a Lars Von Trier, da Guy Ritchie a Richard Linklater. Perfino Tarantino (il quale dedica ogni suo film al grande regista italiano) ha coniato un’espressione pittoresca quando vuole una messa a fuoco sui dettagli, rimasta impressa nella storia del cinema: “Give me a Leone”.
Alla luce dei fatti quindi, posso dire che Sergio Leone è stato probabilmente il più grande regista nella storia del cinema. O come dicono gli americani: THE GREATEST OF ALL TIMES.

Grazie di tutto, Sergio.




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