Ma ho sempre la fortuna di avere lì qualche amico/scagnozzo che ha voglia e piacere di scrivere per il blog.
The Woodcutter Story è il film che Søren Kierkegaard avrebbe girato se fosse nato un secolo dopo. O se qualcuno decidesse di realizzare una trasposizione cinematografica del Libro di Giobbe ambientandola in una cittadina un po’ Fargo, un po’ Twin Peaks, tra le foreste e le montagne innevate della Finlandia. Fuor di metafora, il protagonista Pepe (Jarkko Lahti) è il beniamino della piccola (e all’apparenza) felice comunità che vive intorno alla segheria in cui lavora la popolazione maschile. Operaio indefesso, marito fedele, padre premuroso del Piccolo Tuomas (Iivo Tuuri), così soprannominato per distinguerlo dal suo migliore amico, anch’egli chiamato Tuomas (Hannu-Pekka Juhani Björkman), con cui condivide il lavoro in fabbrica e i sabati sera passati a giocare a carte. Ma l’idillio è destinato a finire per volere dei due misteriosi manager con cui il film si apre, personificazioni moderne degli asi scandinavi o delle forze oscure del caos che sembrano dominare la vita umana: la segheria viene venduta e gli operai, tra cui Pepe e Tuomas, perdono il posto. A questo rovescio di fortuna, il secondo reagisce con violenza, contro gli altri e contro se stesso, mentre il primo decide di affrontare ogni disgrazia, dal tradimento della moglie alla morte della madre, fino all’ultimo, drammatico lutto, con la stessa aria naïf, la stessa meraviglia per ogni aspetto dell’esistenza e la stessa incrollabile fiducia non tanto nel futuro, quanto nel proprio, personale presente fatto di ciò che “non è inferno” da difendere e custodire nel proprio intimo. Una sorta di religiosità laica, che non cerca facili e convenzionali soluzioni al mistero della sofferenza inflitta alle persone buone, come cerca goffamente di fare il “medium-cantante” in visita nel paesino, sfruttando l’ingenuità e le sofferenze degli abitanti, o l’operaio che guida l’assalto alla miniera in cui ha trovato impiego Pepe per realizzare un’utopia politico-religiosa in ultima analisi impossibile.
Animato da uno spirito bizzarro à la Aki Kaurismäki, unito
a un pizzico di surrealismo della scuola di Buñuel,
il film è un riuscito connubio di commedia grottesca, tragedia ambientata negli
anni ‘70 e fantasy, dove, tra una palla di luce che inesplicabilmente si anima
e rapisce il Piccolo Tuomas e una macchina in fiamme senza guidatore vagante
per le vie del paese, giganteggia Pepe, l’uomo comune che ha compreso l’assurdità
della vita e, proprio per questo, riesce sempre a sorridere.
Che cos’è il contrario di un miracolo? E’ da questa
premessa che prende le mosse l’opera prima di Michelle Garza Cervera, una
favola nera che attinge a piene mani dal folklore messicano e dal body horror
per ottenere una critica - a dire il vero, talora semplicistica - ai ruoli
tradizionali che l’attuale società ancora impone alle donne.
La protagonista, Valeria (Natalia Solian), chiede alla
Madonna la grazia di poter concepire il primo figlio ma a risponderle non è la
Vergine dallo sguardo impassibile della statua a cui prega, bensì una qualche
entità atavica, sopravvissuta alla violenza e alle conversioni forzate dei
conquistadores. Forse la stessa “huesera” che dà il titolo al film, spirito
femminile che vaga per il deserto alla ricerca di ossa, e che si manifesta
nelle visioni terrorizzanti della donna in figure con arti piegati in maniera
innaturale. Appare subito chiaro che non bastano lo yoga o altri prodotti della
pseudo religiosità contemporanea per sconfiggere la forza occulta che si è manifestata,
ma è necessario risponderle sullo stesso piano con un rito di sangue e fuoco.
La gravidanza di Valeria non è mai un fatto intimo e
privato, diventa immediatamente un evento da condividere “pubblicamente” non
soltanto con il compagno Raul (Alfonso Dosal),
ma anche con la famiglia allargata e l’intera comunità. Il corpo femminile non è
mai dunque di proprietà esclusiva della donna stessa, è corpo “sociale” e sono
altri attori, di maggiore importanza e generalmente di sesso maschile, a
normarlo e a prendere decisioni su di esso: dal marito al medico che, prima di
prescrivere degli antidepressivi alla futura mamma, si consulta con Raul e la
suocera Norma (Anahi Allue), passando per l’infermiera che, appena terminato il
parto, sutura Valeria senza chiederle il permesso e senza spiegarle alcunché.
La sensazione (o per meglio dire, la consapevolezza) di non avere il controllo
sulla propria corporeità è rinforzata dalle parole rivolte alla protagonista
che si sente spiegare come sia normale, durante la gravidanza, sentirsi “divise
in due” e che durante il parto le sembrerà che “tutte le ossa del corpo le si spezzino”
- ma allo stesso tempo valga davvero la pena sopportare questo dolore: infatti,
ciò che è davvero importante per la società non è la madre, a cui viene
dedicata una giornata di festa ormai svuotata di significato, bensì il neonato,
una nuova vita da inserire nel tessuto produttivo e riproduttivo per garantire
la sopravvivenza delle attuali strutture oppressive. E chi, come Valeria, non è
in grado di proteggere la sua prole deve essere allontanato dal consorzio
umano.
Anche l’abbandono della sua passione giovanile per il punk
e del lavoro per diventare moglie e madre a tempo pieno rivela la stessa
impossibilità di scegliere liberamente il proprio presente e il proprio futuro:
chi ha optato per una strada diversa, come la zia Isabel (Mercedes Hernandez) che ha preferito non avere figli o l’amica d’infanzia
Octavia (Mayra Batalla), escono sconfitte da questo scontro impari - derisa
dalla famiglia e costretta a nascondere la propria relazione omosessuale la
prima, rassegnata all’idea di dover abbandonare la città e vivere isolata la
seconda. Le frustrazioni di Valeria trovano sfogo solo contro se stessa,
contorcendosi dolorosamente le dita delle mani, e nelle spaventose visioni di
corpi senza giunture che si dimenano come ragni e tentano di farle del male.
Proprio il ragno è uno dei simboli più potenti del film, dal momento che, come
afferma la sciamana Ursula (Martha Claudia Moreno), esso è sia madre sia
predatrice e tesse una tela che funge tanto da casa quanto da prigione. E chi
meglio di Valeria, colei che si è - consapevolmente o meno - rinchiusa in una
gabbia dorata di convenzioni borghesi, portando con sé anche la neonata
destinata a ripercorrere lo stesso tragitto, può identificarsi in questo
animale?
PALM
TREES AND POWER LINES, JAMIE DACK, 2022
Il punto di forza del film è il casting, senza cui
perderebbe ogni credibilità e incisività. Ci sembra davvero di trovarci di
fronte a un trentaquattrenne e una diciassettenne, un imbroglione e una
ragazzina innamorata, un abusatore e una vittima. La recitazione di Tucker si
articola su due piani distinti e complementari: quello che vede Lea e quello
che percepiamo come spettatori. La sua gelosia appare alla ragazza la prova del
suo amore, mentre noi siamo consapevoli che si tratta di possessività rapace;
la sua cautela non è rispetto dei tempi e dell’innocenza della ragazza, bensì timore
di spaventarla e perdere la sua preda; i confronti tra Lea e la sua cerchia di
amici, a vantaggio della prima, non sono un mezzo per complimentarla bensì per
alienarla ulteriormente dal gruppo dei pari e averla completamente sotto il
proprio controllo. McInerney è invece il cuore pulsante del film,
il catalizzatore di tutte le nostre paure e preoccupazioni, il grande enigma
che ci poniamo quando sentiamo storie simili: perché, pur essendo così intelligente,
non abbandona il suo carceriere, ma anzi ogni umiliazione la spinge ancora di
più tra le sue braccia? La nostra partecipazione simpatetica alle sue vicende è
sottolineata da una macchina da presa posta ad altezza del suo viso che
trasmette un universo di sentimenti con una smorfia della bocca o un luccichio
degli occhi, mentre la causa di questo cambiamento resta fuori campo. Ed è proprio
il suo volto fresco e innocente l’unica cosa che vediamo nell’ultima (ma
purtroppo non definitiva) mortificazione in slow motion che Lea deve patire a
causa di Tom. Evitando ogni glorificazione o una rilettura in chiave romantica
delle scene di sesso, il momento in cui la cinepresa si allontana dal primo
piano della ragazzina è anche quello in cui è lampante la distanza siderale tra
Tom e Lea: quando il primo chiede alla seconda di spogliarsi senza tirare le
tende della stanza, come aveva finora fatto, li vediamo per quelli che sono
realmente - una bambina confusa, impacciata, incredula, e un uomo avido,
lascivo, famelico. Il senso del film è in questa frattura insanabile.
Sull’asfalto rovente, tra i suoni reboanti di motori a 2 ruote su di giri, la protagonista Julia cerca infatti di trovare il suo ruolo nel mondo, farsi strada in un contesto dove non viene considerata, ma sempre ignorata se non addirittura annientata.
Arrivata come un'estranea amazzonica ("Sconosciuta" la chiamano) tra un branco di rider da cross che ha più le sembianze di un clan di contrabbando, Julia cercherà a qualunque costo di ritrovare il suo spazio e sentire finalmente la libertà furiosa e viscerale che cova dentro di sé, pronta a scoppiare ed esplodere in sella.
Ha bisogno di moto, ha bisogno di cavalcarle, ha bisogno di sentirne la fisicità a contatto con il corpo, toccando tra quegli animali notturni metallici la libertà più grande possibile: essere criminali. E volerne di più e sempre di più. Con un meccanismo strategico che via via si ripete sempre uguale e sempre efficacemente: individuare su Ebay annunci di moto in vendita, provarle di persona e poi scappare via senza farsi più vedere, sfrecciando in un’adrenalina che in quell’aria improvvisa diventa ebbrezza e ubriachezza, dove il tremore non è paura, ma pura esaltazione.
Con il sogno costante di un grande colpo (non di un portavalori, ma di un camion ricolmo di veicoli a due ruote) Julia inizia così la sua scalata (da “sconosciuta” diventa “strega”), in un sistema maschilista che la vorrebbe invece relegare in un angolo come giovane donna d’attesa, a guardare chi corre, o ancor peggio a casa con le tapparelle abbassate nemmeno a poter osservare (come accade ad Ophélie, moglie del Boss continuamente subordinata).
Ma in mezzo a quei telai solitari dagli scarichi ingrassati, dentro Julia continua a divampare un fuoco di libertà, sempre più desideroso di urlare indipendenza in ogni sua piccola scintilla. E sarà così incontenibile che dovrà liberarsi all’esterno, non più solo come semplice fiamma tenuta a bada da un mondo ignifugo, ma come vero e proprio incendio distruttivo.
E da fuoco sarà cenere.
E da cenere sarà fenice.
Lì finalmente dimenticarsi del freno.
E accelerare, accelerare.
Già vincitore del Torino Film Festival 2019 con “A White, White Day” (e recensito proprio sul blog dal sottoscritto), Hlynur Pálmason torna alle bianchissime terre desolate di mondi nordici al confine tra visibile e invisibile, dando vita ad un film profondamente esperienziale con le tinte del western più vero, un’epopea tragica dalla Danimarca all’Islanda del XIX secolo. Un prete-fotografo, Lucas, e un’unica missione: costruire una chiesa, diffondendo la fede in quella terra di nessuno, un luogo a cui non appartiene, estraneo alla lingua e alla sua gente. Ma estraneo soprattutto ad uno sconfinato paesaggio incontaminato che non lascia scampo, nella sua fatale natura distruttiva, che tutto divora senza curarsi della lingua che parliamo e del dio in cui crediamo. Così Lucas parte via mare, ma soprattutto si inoltra via terra, con pesanti casse di legno in spalla per trasportare tutto il necessario (fotografico e religioso) e partire per quell’avventura di fatica e gelo, dove i morti (umani e animali) vengono abbandonati sul cammino, come tombe inaspettate a tracciare la strada solcata, come alimenti di una terra affamata e mai sazia. Come nei precedenti film (cortometraggi compresi) Pálmason indaga i luoghi da abitare, o meglio abitabili, con edifici da costruire nel mezzo di un niente inospitale e che rimangono in sospeso prima di diventare casa di qualcosa, dal sapore di famiglia o, come in questo caso, di spirito. Era una casa da ristrutturare resistente alle intemperie in “A White, White Day”, un memoriale sacrificale in “Winter Brothers”, una capanna su un palo per giocare in “Nest”, una chiesa ai piedi di una montagna appunto in “Godland”. Ma rimane il dubbio di come inserire un’anima in quella materia (ciò che l’inglese distingue tra “house” e “home” per tradurre “casa”), come fare entrare insomma il calore familiare in mezzo a quattro mura di cemento, come invitare i fantasmi degli antenati tra i sassi di un monumento sacrificale. Come può allora entrare Dio tra quei pezzi di legno inchiodati insieme, in una terra la cui unica legge punitiva pare essere invece quella del paesaggio più distruttivo?
Nel frattempo si accumulano storicamente le prime fotografie di quei luoghi sperduti in cima al mondo (ritratti soprattutto), scattate proprio da Lucas su antichissime lastre al collodio, prima testimonianza ingannevole di un tempo statico che in quell’Islanda selvaggia pare invece del tutto impossibile. Impresa fotografica assimilabile per certi versi a quella del protagonista del meraviglioso “Blanco en Blanco” di Theo Court, anche lì un fotografo, anche lì in un mondo desolato ad inizio del XX secolo da rappresentare (in quel caso la Terra del Fuoco). Ma dove quest’ultimo lavorava su una violenza amorale perpetuata dalla stessa umanità, in un genocidio truculento che l’immagine latente fotografica poteva solo manipolare, in “Godland” Pálmason è ancora più pessimista circa il ruolo di quella fotografia, perché in Islanda ad essere violenta è innanzitutto la natura stupefacente che ci si ritrova davanti. Impossibile quindi trasformarla in un istantaneo quadro pittorico da contemplare, perché prima di guardarla ci avrà già fulminato mortalmente, come esseri di passaggio in una terra dove il nostro contributo è solo aggiunta o sottrazione. Sì, perché, come suggerisce il titolo originale (Volaða land - “Terra malformata/malferma”) il tema essenziale che Pálmason sviscera è proprio l’inestinguibile metamorfosi, il mutamento inarrestabile a cui tutto è destinato. Nemmeno infatti l’arrivo alla meta, quella chiesa finalmente eretta in un luogo stabile, può donare tranquillità. Perché la calma di quei paesaggi allo stesso tempo infuocati e gelidi è solo illusoria, tanto che cambiano completamente di colori e struttura a distanza di pochi chilometri, dove l’ombra di un ghiacciaio si localizza dinamicamente a pochi passi dai piedi di un vulcano in eruzione.
Persino il linguaggio si fa variabile, perché quell’islandese tanto complicato per Lucas è infinitamente differenziato, frammentato, in un divenire di parole in cui “pioggia” si può dire con centinaia di termini diversi. Sfumature di lingua per una terra a sua volta sfumata, dove la via di mezzo non esiste, è tutto e nulla insieme (una terra, da titolo, malformata ma che continua a formarsi).
Pálmason trova insomma la sua perfetta sintesi cinematografica, di visione e di estetica: dove l’ormai consolidata immagine granulosa a pellicola (meravigliosamente organica) si unisce ad una materica musica frastornante che nel farsi suono diventa richiamo della natura eppure anche suo dolorosissimo lamento. Impossibile allora immortalare vite, impossibile congelare la fede, impossibile persino assecondare la propria presunzione di colonizzatori.
Come una trave vacillante sempre pronta a cadere.
Come la carcassa di un cavallo che continua senza sosta a trasformarsi, mentre la montagna la osserva imponente diventare scheletro e il paesaggio la inghiotte in un pasto senza fine.
I 3 FILM SCELTI DA STEFANO DE ROSA
VENUS - JAUME BALAGUERO - 2022
Il mio viaggio nelle incursioni di matrice iberica al TFF40 inizia con Venus, il nuovo film del leggendario Jaume Balagueró (che avevo frequentato per l’ultima volta nell’amatissimo, da me, “Mientras duermes”), che dietro una facciata noir molto godibile, con inserti horror dai connotati “suspiriani”, nasconde un’accorata denuncia contro il dilagare incontrollato della violenza fisica e psicologica sulle donne.
E le donne sono il fulcro e la luce della “pelicula”, come si evince a partire dai nomi delle tre protagoniste (due sorelle e la bambina di una di loro): Lucia, Rocío (rugiada) e Alba, che l’evolversi della storia condurrà in un edificio fatiscente e semiabbandonato (metafora potentissima!), chiamato Venus, abitato ormai, appunto, solo da donne. Ma il titolo è evocato anche dal pianeta Venere che inspiegabilmente ha cambiato la rotta della propria orbita, avvicinandosi alla Terra fino a provocare un’eclissi di Sole, quasi a voler nascondere le nefandezze perpetrate dal genere maschile sul nostro pianeta.
Durante la visione lo spettatore assiste ad un’escalation di terrore ed orrori, fino ad arrivare ad un finale pieno di poesia e di speranza: terminata l’eclissi, Lucia e sua nipote Alba escono dal palazzo accolte con devozione e rispetto da coloro che le avevano perseguitate e si dirigono mano nella mano verso un nuovo giorno pieno di luce…
VIEJOS - RAUL CEREZO - 2022
La seconda pellicola ci porta in una Spagna attraversata da un’eccezionale ondata di caldo che ha un impatto devastante sulla salute fisica e mentale della popolazione più anziana. I viejos, guidati da una misteriosa forza esterna (aliena?) si coalizzano contro i giovani, in una spirale di terrore che vede come protagonista nonno Manuel (interpretato magistralmente da Zorion Eguileor, che avevamo già avuto modo di apprezzare in una precedente edizione del Festival nello straordinario “El Hoyo”) che ha perso da poco la moglie in circostanze misteriose.
La storia è raccontata dai due registi (Raúl Cerezo e Fernando González Gómez) con una mise-en-scène di gran classe, a cominciare dall’incipit con la macchina da presa che indugia su un primissimo piano del dipinto di Goya “Due vecchi che mangiano”, dove compaiono due personaggi anziani: quello di sinistra, fa una smorfia con la bocca, probabilmente per la mancanza di denti, mentre l'altro ha il volto di un cadavere. E proprio in tale opera troviamo una prima chiave di lettura del film che mostra, con una fotografia “calda” (soffocante come il clima di Madrid) che vira spesso sui toni del giallo e del marrone, quanto possa essere terribile la condizione di un essere umano giunto ormai alla fine della propria esistenza.
Ma Viejos è anche (e direi soprattutto) un film sull'essere ignorati se non addirittura invisibili, un grido di dolore indirizzato alle generazioni più giovani, con un finale aperto che mi ha ricordato molto quello di “The invitation”.
MANTICORA - CARLOS VERMUT - 2022
“La manticora è una creatura mitica, una sorta di chimera dotata di una testa simile a quella umana, corpo di leone e coda di scorpione, in grado di scagliare spine velenose per rendere inerme la preda” (da Wikipedia)
Julián ha due occhi scuri, enormi, con in fondo un dolore
Julián come lavoro disegna mostri atroci
un mostro atroce abita in Julián
Julián salva un bambino da un incendio
il mostro che abita in Julián desidera quel bambino
Diana è una ragazza in cerca di amore che si innamora di Julián
anche Julián è in cerca di amore e prova ad amare Diana
Julián perde il lavoro a causa del mostro che abita in lui
Julián ha due occhi scuri, enormi, con in fondo un dolore
Diana scopre il mostro e lascia Julián
Julián non disegna più e il mostro lo porta dal bambino
il bambino ha disegnato una manticora con sotto la scritta “Julián”
Julián decide di uccidere il mostro che abita in lui e vola, vola giù
Julián è paralizzato… il mostro non può più uscire
Diana torna da Julián
Julián ha due occhi scuri, enormi, con in fondo un dolore……
Manticora è un film di Carlos Vermut
Manticora è un capolavoro
Hitler, Stalin, Mussolini e Churchill imprigionati in un oscuro limbo fiabesco, attendono kafkianamente l’incontro con un divino ambiguo. Il maestro russo “anima” queste figure titaniche del novecento, estrapolandole direttamente da filmati d’epoca, moltiplicandole in una ricorsività asfissiante. Tanti Hitler, Stalin, Mussolini e Churchill con diverse monture, che si offendono, rincorrono, chiamano all’infinito.
Fairytale è un film ossessivo, ripetitivo, appunto asfissiante, come il limbo dove i nostri sono prigionieri: figure in bianco e nero, impresse e autoreferenziali, che si aggirano in cerca di un giudizio da parte di una divinità stanca, che ha abbandonato anche il proprio figlio.
Perchè Sokurov ci sottopone a questo strazio? Sono solo assilli? Gli spettri del novecento che continuano a tormentarci? Posso solo dire che il suo tocco, la sua atmosfera è sempre quella, sempre unica, un velo distorcente, nebbia incantata, quasi una droga, e l’esperienza vale, vale come tale: Merita sentire quell'esplosione disperata e prolungata di spettri adoranti e odianti che si radunano ai piedi dei dittatori. E loro, mai domi, mai risolti, si offrono nella loro disumana umanità, strappandoci anche qualche sorriso pietoso.
Un’esplosione indefinita di morti, milioni di morti fuori fuoco.
Grazie a tutti di questo resoconto imperdibile, specie perché in arrivo dalla bella Torino, e da non poche persone incontrate proprio lì al precedente ToHorror. Ne è passato di tempo, e anche ormai dal TFF, ma siccome il vero cinema e l'eccitazione festivaliera vanno sempre celebrati, mi piace commentarvi.
RispondiEliminaTanto mondo lusitano-ispanico innanzitutto, sia al di qua che al di là dell'Atlantico. Va detto che non mi sorprende, ormai credo che assieme al coreano sia quello qualitativamente più elevato al mondo. Sia Venus che Viejos mi ispirano tantissimo (complice anche per me l'adorazione verso Mientras Duermes), e amo sempre un buon folk horror come può essere Huesera. Il film che però potrebbe essere più nelle mie corde tra quelli di Gaia è proprio The woodcutter story, io che adoro la neve, Fargo e quel grottesco che inquadra perfettamente la monotona assurdità delle nostre vite. Adoro generalmente anche Sokurov, e ora che Fairytale è al cinema spero proprio di non perdermelo.
Inevitabile per me tributare infine la giusta attenzione ai film del mio amico Riccardo, anche perché praticamente mi ispirano tutti :)
"Rodeo": una parola che perfettamente si adatta alla stessa lettura di queste righe. Ho sentito pienamente, come l'avessi vissuta io, l'estasi cinematografica del cinema-movimento, le bruciature sull'asfalto che non fanno soffrire come quelle interiori, la voglia sfrenata di libertà, la "pazzia" di Julia - non a caso credo sia stato citato Max il pazzo, padre di tutti i folli al volante - pazzia del suo mondo e nel suo mondo. Come avrei voluto esserci, a vedersi accendere quella scintilla, al cinema spesso magica. Come quella che accendeva un vulcano, nel mio amato "They carry death", un'altro tempo, un altro festival.
"Day ground burning": ecco, qui siamo indubbiamente molto meno nelle mie corde. Ma non per questo è meno intrigante sentire l'Inmubinologo indulgere nelle meraviglie del documentario, specie quando particolare come questo. È nella verità che nascono le leggende, e sono le leggende che fanno i popoli. Anche se sono storie di notti cupe, di terra arida: a volte, tutto ciò che ci meritiamo.
Godland: questo lo vedrò al cinema, assolutamente. Ma nonostante la mia reticenza ad informarmi sapevo di poter leggere questo pezzo, duro come la poesia più pura, come la lingua di quell'isola di ghiaccio e di fuoco. Chissà se Pitea, il greco esploratore, quando (forse) ne scrisse chiamandola Thule, si sentiva come Lucas il prete, a immortalare qualcosa di così tanto più grande di lui. Immagino la bellezza di ritrovare l'amata fotografia in questo film, sentirla (più che vederla) ai suoi primordi tramite l'immagine del grande schermo moderno. E siano sempre beati i registi che quell'immagine la vogliono con la grana, dove esplode il ruvido carattere del western (hai citato anche la Terra del fuoco, impossibile non pensare al "nostro" Re Granchio). Mi fermo, perché il resto, spero, sarà con una visione alle spalle.
Grazie ancora, queste vostre impressioni sono di grande ispirazione quando si vuol tornare a scrivere (anche se un vecchio pezzo è già pronto nella mail di Giuseppe), e spero di unirmi presto anch'io con la rubrica! Nel frattempo un saluto a tutti :)
Eccomi, caro Enrico! Finalmente riesco a rispondere decentemente al tuo meraviglioso commento, ricco come sempre di preziose riflessioni che arricchiscono ogni parola scritta in partenza.
EliminaDevo però fin da subito dirti che abbiamo tutti sentito la tua mancanza tra le poltrone torinesi del TFF, ma sono sicuro potremo recuperare in prossime edizioni (anche con il ricongiungimento del nostro vate Giuseppe).
Lascio ai compagni di Festival la risposta sui loro film (anche perché di quelli che ti ispirano non ne ho visto nessuno ahaha).
Per quanto riguarda la mia tripletta devo nuovamente ringraziarti, perché le suggestioni poetiche che hai tracciato partendo dalla mie parole sconclusionate mi hanno fatto venire voglia di rivedere i film citati per una seconda volta. Impresa per fortuna non così titanica (a differenza del nostro amico prete di Godland) perché praticamente tutti avranno distribuzione (Godland nello specifico sarà in sala dal 5 gennaio con Movies Inspired, per quanto mi riguarda il miglior modo per iniziare questo nuovo anno).
Andando più nello specifico:
-Rodeo, come hai magnificamente intuito, si muove carico di rabbia tra le coordinate infuocate della pazzia, le stesse di Max il pazzo appunto, con esiti analogamente sorprendenti. Goderselo in sala, come dicevo, non sarà impossibile: aleggia una distribuzione I Wonder Pictures senza data annunciata, ma nel 2023 credo (spero) lo potremo vedere sui nostri schermi.
-Dry Ground Burning: in realtà, pur essendo un documentario, credo abbia diverse caratteristiche che potrebbero essere nelle tue corde. L’atmosfera sospesa, quasi post-apocalittica, vicinissima anche qua per più di aspetto a Mad Max, sembra non appartenere neanche ad un documentario. Lo si intende solo per qualche breve frammento classic-not-fiction e il contesto produttivo in cui viene sviluppato (che rimane comunque informazione aggiuntiva solo per i più volenterosi appassionati). Se ti capita, gli darei comunque una chance: dei tanti documentari che su questo spazio mi sono ritrovato a consigliare, questo è forse il più universale, perché nel suo essere così rivoluzionario si presta a qualsiasi palato e qualsiasi esigenza. Perché, come dici anche tu, le leggende appartengono a tutti.
-Godland: ci sarebbe stato tanto da dire, ma la mia recensione si stava già ampliando ben oltre i limiti di sopportazione (e di abuso di spazio per un pezzo collettivo di film e di penne). Tra queste parole mancate si inserisce anche il meraviglioso parallelismo con quel capolavoro che è "Re Granchio", visto nel 2021 proprio in occasione del TFF e amato e adorato alla follia, ancora più epifanico e illuminante nel suo emergere inaspettato. E anche lo stesso "They Carry Death" da te citato nel tuo commento (e che proprio tu hai portato a conoscere ancor prima grazie al tuo resoconto festivaliero) conserva quell'idea di viaggio, di avventura, di fuoco materiale che brucia nel suo alimentarsi imprevedibile. E a posteriori è proprio forse questo il più grande limite di Godland: che pur arrivando in segno, manca di quella marcia in più che te lo fa amare incondizionatamente, che te lo fa portare nel cuore oltre i festival, oltre le classifiche (come i tanti film più volte citati qui e in separata sede). Ma ne riparleremo assolutamente se avrai occasione di vederlo:)
Grazie ancora di tutto, caro Enrico, e attendiamo trepidanti il tuo magico ritorno sul blog (in rubriche e festival eheh) :)
Un abbraccio