10.9.18

Festival del cinema di Venezia 2018- Parte 1 - i migliori film fuori concorso - di Riccardo Simoncini



Riccardo Simoncini è un giovanissimo lettore del blog, se non sbaglio ha da poco compiuto vent'anni.
Già due anni fa scrisse due articoli sui film visti a Venezia.
Siccome non ha ancora spazi suoi dove scrivere anche quest'anno ne approfitto io e lo faccio diventare voce ufficiale del blog al festival.
Riccardo è un ragazzo d'oro che sta cercando di approfondire questa sua passione per il cinema a 360°, anche girando cose (avevamo fatto veder qua il suo corto).
Credo che mai come quest'anno, visto quello che è accaduto, dare voce a un ventenne che ha voglia di crescere ed imparare sia una gran cosa, rappresenti la faccia bella di questa straordinaria ma ancora tumultuosa moltitudine di giovani appassionati.
Come prima puntata ho raccolto sei film fuori concorso, domani parlerà di 7 che invece erano nella gara ufficiale.
D'ora in poi a scrivere è lui.


Un’edizione ricca di grandi nomi. Di nuove scoperte. Di grandi riconferme. Tanti film hanno diviso pubblico e critica, ma come ha detto in conferenza stampa la presidente di giuria Orizzonti, Athina Rachel Tsangari, in quanto amanti del cinema occorre quasi “ucciderci” l’un altro per un film, sia come registi,  che come giurati o come semplici spettatori. Parlare e discutere dei film è in fin dei conti forse una delle parti più emozionanti di tutti i festival. In questa edizione 2018 domina poi la realtà Netflix: non solo tanti film in concorso, ma anche due film vincitori Netflix (Roma come Leone d’Oro e i Coen per la miglior sceneggiatura). Come ha detto, però, Guillermo del Toro, presidente di giuria del concorso, questo non deve essere inteso come un evento epocale, come inizio o fine di qualcosa, ma piuttosto come “la continuazione di un processo iniziato centinaia di anni fa”.

Sulla mia pelle (Orizzonti)

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Il caso di cronaca nera di Stefano Cucchi, interpretato magistralmente da Alessandro Borghi. Una storia di 7 giorni iniziata con un episodio di violenza inaudita. Noi non lo vediamo questo episodio. Ma ne vediamo gli effetti. I segni indelebili sulla pelle di Stefano. Quei segni che lo accompagneranno in tutto il film, durante tutti i suoi spostamenti. Durante tutti i suoi incontri. E in effetti in questi incontri, nessuno può restare indifferente. 
“Cosa ti sei fatto?” Gli viene chiesto
“Sono caduto dalle scale.” Risponde lui 
Ma di tutta la gente che incontra, non riesce mai a vedere le persone che vorrebbe: la sua famiglia, il suo avvocato. Perché la burocrazia è lunga e complessa. E lui sempre più debilitato. A volte ha la forza di arrabbiarsi, altre volte solo di abbandonarsi a se stesso e di non combattere più. Ed è in quest’opposizione che noi cogliamo il suo dolore: la volontà di ribellarsi è frenata dalla paura, dalla mancanza di fiducia nelle persone che ha attorno. 

Alla fine quei segni di violenza di moriranno con lui. Ma non tutto è morto. La sua storia è viva. E questo film ne è la testimonianza. 


Anons - The Annoucement (Orizzonti)


Una commedia politica satirica turca su un colpo di stato militare. O meglio: sul tentativo di attuarlo in una notte. Perché in realtà quel colpo di stato troverà continuamente degli ostacoli: assurdi, impensabili e per questo tremendamente divertenti. 
Così, recuperando stilisticamente Roy Andersson, il film si prende gioco degli idealismi, il dogmatico ed eccessivo credere in qualcosa fino alla fine ed esalta quindi il contrasto tra idealismo e realtà. È interessante, infatti, quest’opposizione proprio perché il film arriva da una nazione come la Turchia, dove sembrerebbe impensabile poter ridere di temi così delicati. In effetti il film più che come una commedia appare come una tragicommedia. Il silenzio domina la scena e quando qualcuno parla è per dire frasi inopportune, assurde e fuori contesto. “L’annuncio”, insomma, non è solo quello del colpo di stato alla radio all’interno del film, ma rappresenta anche l’annuncio dell’arrivo di un nuovo regista e chi lo sa magari di una vera e propria corrente. 

Domingo (Giornate degli Autori)

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Domingo potrebbe sembrare ad una prima occhiata il classico dramma familiare. Di quelli già visti e rivisti. Invece no. Di nuovo una tragicommedia. Di nuovo il contesto esterno alla famiglia assume un valore centrale nella narrazione, soprattutto se si considera che il paese in questione è il Brasile. Se si considera che nel film il presidente Lula è appena stato eletto. Così questo contesto ben preciso non fa da semplice sfondo al racconto, ma ne è del tutto interno. È radicato nei personaggi. Perché nel loro agire, in fondo, tutti sono in qualche modo condizionati da ciò che li circonda. Le vicende del Brasile ne determinano allora le azioni, i pensieri, le emozioni. I rapporti tra i membri della famiglia, in alcuni casi sinergici, in altri conflittuali, in altri ancora addirittura morbosi, vengono ad essere conseguenza del tempo. Tempo del presente per i cambiamenti in atto. Tempo del passato, per chi l’ha vissuto. 
E così c’è chi spera in quel cambiamento incarnato da Lula, chi lo vuole evitare e chi invece quella speranza l’ha del tutto persa. 

Blonde Animals (Settimana della critica)

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Riprendendo il surrealismo di Quentin Dupieux (anche se meno allucinato e meno geniale rispetto ai film del grande regista francese), Blonde Animals è un viaggio divertente all’interno della vita di Fabien, un uomo che non può più ricordare. “Mi dimentico le cose perché non assimilo bene le vitamine” è la frase che torna continuamente durante la visione. Perché si dimentica di tutto: di cose, di persone, di luoghi e appunto delle frasi che lui stesso pronuncia. 
Il tema della memoria è il fulcro del film. A ricordi del presente che non riescono ad essere impressi nella sua mente, si oppongono ricordi di un passato felice, di successo, quando Fabien era una star di una sitcom degli anni ‘90, che invece permangono in maniera indelebile nella sua memoria. Così come permangono i ricordi di una ragazza che ora non c’è più. Quasi come se quell’uomo fosse bloccato: incapace di andare avanti e di vivere un presente che diventerà poi passato. A contribuire all’assurdo è in particolare una caratteristica di Fabien: la capacità di mangiare (e digerire) qualsiasi cosa. Oggetti di qualsiasi tipo e dimensione. Ma questa capacità così completa, concreta e materiale è contrapposta ad un’incapacità più astratta, ma in questo senso molto più dolorosa: quella appunto di non riuscire a  ricordare. 

The man Who surprised everyone (Orizzonti) 

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Il travestimento come inganno. Quello che viene sfruttato, per esempio, da un ladro per eludere la sicurezza. Per non farsi riconoscere. Per confondersi con gli altri. Potremmo definirlo come un segno di astuzia. Cosa cambia allora quando quel travestimento è invece da donna? 

Così un uomo, malato terminale, ormai abbandonato dalla scienza, decide di affidarsi a credenze popolari e si traveste da donna, per ingannare la morte. Per non farsi riconoscere appunto e confondersi quindi con altre donne. Un semplice vestito, del trucco applicato sulla faccia: una maschera insomma, un sottile velo esteriore. Perché il protagonista in realtà non si sente donna. Quella è solo apparenza, una maschera, che, però, agli occhi della gente del posto (una classica cittadina nella taiga siberiana) è qualcosa di più. Qualcosa di diverso, che esce dal comune, dalla tradizione, e che per questo deve essere represso. Se i suoi amici e conoscenti all’inizio provavano pietà nei suoi confronti, arrivando a dargli soldi per permettergli di curarsi dal cancro, con un po’ di trucco e vestiti femminili invece lo deridono, arrivando addirittura a picchiarlo. Come se in fondo i primi ad essere ingannati da quel travestimento fossero proprio le persone a lui più vicine. Come se queste non l’avessero mai conosciuto realmente per la sua essenza. Come se quell’aspetto esteriore con cui nasciamo rappresentasse in toto il nostro Io.


Manta Ray (Orizzonti)

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La manta. Animale marino gigantesco. Titanico. Quasi mitico. Immenso nuotatore. Immerso continuamente nell’oceano. Ed è nel mare che affogano tanti rifugiati, che in questo film thailandese in particolare sono rappresentati dai Rohingya della Birmania. Uno di loro viene trovato ancora vivo da un pescatore del posto. Non parla, non ricorda. È un uomo senza nome, senza identità. Tra il salvato e il salvatore, entrambi uomini soli per motivi differenti, inizia così una grande amicizia, di silenzi innanzitutto, di esperienze, che diventano spirituali, immateriali e spesso quasi surreali, perché in tutta questa sofferenza diventa difficile accontentarsi della realtà e si può solo più nuotare nell’acqua. Lontano.

9.9.18

Recensione: "Nuovo Ordine Mondiale" - Gli Abomini di Serie Z - 29 -

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Questo film fa parte de La Promessa ( 7/15 )
Me sa non ce la fo manco st'anno


Un gruppo di "rapinatori barra assassini barra poliziotti deviati barra rettiliani barra scugnizzi napoletani" assalta un Supermercato.
Oltre a vedere tutte le marche e marchette dei vari prodotti (fuori c'è anche un furgone di una pasta fresca me pare) accade che arrivano, sgommando e frenando all'ultimo, una decina di volanti della Polizia, compresa quella del grande Commissario Torre, un benemerito e mitico esponente delle forze dell'Ordine.
Arrivano lì e trovano un poliziotto gravemente ferito, quasi morente.
Sono tipo in 45.
Nessuno lo soccorre.
Anzi, parlano, parlano, parlano, dicendo cose quasi prive di senso.
Poi, come non bastasse, si avvicinano al loro collega morente.
Gli fanno qualche domanda ma, ancora una volta, non lo soccorrono.
Siamo davanti a quella che è forse la scena più insensata nel mondo poliziesco che io abbia mai visto.
Ma il capolavoro deve ancora arrivare.
Quando il Commissario Torre decide finalmente di entrare nel Supermercato (e, vista la mole, credo ne sia assiduo frequentatore anche privo di pistola) il poliziotto morente, manco fosse un peluche da buttare perchè il tuo labrador te l'ha distrutto, viene preso per un PIEDE e trascinato via con violenza.
Non solo nei suoi ultimi minuti di vita ha visto 45 colleghi parlare del più e del meno mentre lui moriva, ma si è visto anche buttar via come un sacchetto dell'umido.

Ora, sta scena avviene quasi all'inizio, e basterebbe di per sè a farci fuggir via.
Eppure avevamo visto già abbastanza merda in precedenza.
Nuovo Ordine Mondiale, dei Ferrara rothers (tutto vero eh, non li chiamo così io) è un film cult che purtroppo non è ancora assurto a supercult.
Un peccato.
Questi due fratelli da anni lo pubblicizzavano, facevano finta che avrebbe invaso i cinema, parlavano di un film che avrebbe stravolto il nostro cinema e le nostre coscienze.
Un progetto durato anni e costato, dicono, milioni di euro.
Io, lo dissi 2 anni fa, ero disposto anche a spenderci 10 euri per vederlo in sala.
E invece niente, e invece il mega progetto dei Ferrara Brothers non è mai partito, limitandosi ad una copia nel tubo.
A rendere ancora più mitica la questione ce sta il fatto che la copia migliore del film è parlata in italiano e sottotitolata in inglese e in ARABO.


(ah, io c'ho la copia 1080 hd, semmai chiedete)

Ora, vedere giganteschi sottotitoli arabi ha reso tutto molto straniante.
Ma avere vicino il tuo amico Rocco (che l'arabo l'ha studiato) che ogni tanto provava a legger i sottotitoli e andava quindi di lingua capovolta è stato anche più straniante.
E, ciliegina sulla torta, nell'unica scena presumibilmente sexy del film lo schermo viene ricoperto da centinaia di PETROLDOLLARI, a coprire la vergogna.
Io sono serissimo eh, tiè


Siccome Nuovo Ordine Mondiale è il film definitivo sul complottismo (c'è di tutto, prologo massonico e rettiliano, vaccini, dentifrici che hanno fluoro per farci controllare la mente, governo deviato che vuole usarci come marionette e altre stronzate simili) la faccenda dell'arabo potrebbe anche essere una scelta dei registi, per diffondere la loro opera a tutte le latitudini.
Non lo so e non lo voglio sapere.

7.9.18

Recensione: "Bajo la Rosa"

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Batto un mio nuovo record, scrivo questa recensione a una settimana esatta dalla visione (era il venerdì del raduno). Ero indeciso sull'opportunità, a questo punto, di farla o no perchè a me scrivere senza il film ancora dentro non piace, è lo stesso film poi a rimetterci.
Ma ho pensato che queste poche righe possono comunque essere indicative per qualcuno.

grandissimi spoiler dopo seconda foto

Per chi ha amato i recenti grandi thriller spagnoli (Contratiempo, El Cuerpo, ma anche roba come Magical Girl e Bed Time) un altro possibile grandissimo esponente di questa ondata.
Purtroppo, però, la sua prevedibilità e alcune scelte narrative penalizzano molto Bajo la Rosa.
Ma guardatelo perchè è comunque un gran film e se avrete la fortuna di non capir nulla lo amerete da morire



Ricordo che più di una persona, parlandomi di Contratiempo, mi disse di aver intuito il colpo di scena finale (completamente o all'incirca) e quanto questo, ovviamente, gli abbia un pochino rovinato il totale apprezzamento del film.
Io, invece, fui completamente spiazzato dal finale, pur sapendo che un grosso colpo di scena ci sarebbe comunque stato (era il regista de El Cuerpo...).
Insomma, grazie a questa mia scarsa capacità di intuizione mi ritrovai davanti ad un grandissimo thriller.
Con Bajo la Rosa credo sia successo l'opposto, ovvero l'essermi in gran parte rovinato la visione di un grande thriller per aver indovinato dopo solo mezz'ora tutto quello che stava accadendo e che sarebbe successo, "colpo di scena" finale in primis.
Resta un gran bel thriller ma viverlo tutto con prevedibilità lo depotenzia molto.

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Una bambina di 10 anni scompare.
La famiglia è ovviamente disperata.
Il secondo giorno (mi pare) la stessa famiglia riceve una strana lettera nella quale viene comunicato che la bimba sta bene e che se si vuole rivederla bisogna lasciar fuori la polizia e accettare semplicemente una chiacchierata di mezzanotte con i rapitori.
La famiglia, spalle al muro, accetta.
A mezzanotte si presenta a casa loro un uomo.
Si mette a sedere.
E succede una cosa incredibile, l'uomo dice loro che è disposto a restituire la bimba solo se uno dei 3 (padre, madre, fratello) confessa entro le sei di mattina un segreto tremendo.
Se questo non accade la bambina verrà uccisa.
Chi dei tre ha qualcosa di terribile nascosto?
Lo confesserà?

6.9.18

Recensione: "Lucky"




Un film meraviglioso.
Uno di quelli a cui non riesco a toglier nulla, nulla.
Certo, il film testamento di Dean Stanton ma forse sarebbe meglio considerarlo come film testamento tout court.
Un vecchio, la sua routine, il suo cambiamento.
Non pensare alla morte, poi averne paura, poi saperla accettare.
In mezzo lacrime, risa e riflessioni.

Lucky, tra le tante tante cose, mi ha fatto pensare a come il sorriso, insieme allo sguardo, sia probabilmente l'unico aspetto "fisico" che non invecchia mai.
Chè gli aspetti morali o astratti si sa, posson davvero mai invecchiare.
Invece per quanto ci manteniamo bene, per quanto curiamo noi stessi, per quanto ci sentiam giovani dentro, il nostro corpo dice altro, mostra altro, e quello che eravamo a 20 anni a 80 non siam più.
Eppure lo sguardo e il sorriso no, quelli non invecchiano mai. E se prendessimo solo il sorriso di Dean Stanton, in un super zoom che ci metta fuori campo rughe e pelle cadente, secondo me vedremmo lo stesso sorriso che aveva 20 anni fa, 50 anni fa, 70 anni fa.
Credo che veder ridere un vecchio sia bellissimo.
Ed è buffo che questo mio prologo sul sorriso l'avrei fatto lo stesso, l'ho pensato sin dalla prima volta che il vecchio attore ne mostra uno.
Mai avrei pensato che poi, però, il sorriso diventasse architrave e anima di questo meraviglioso film, film che mi ha lasciato l'ultima mezz'ora con gli occhi sempre lucidi (magari lucidi e basta, veniva già un vero tsunami che dovevo coprire al Nencioni seduto vicino a me. Per fortuna, a destra, nessuno).

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Lucky è il film testamento di Dean Stanton, possiamo far finta che non sia così ma così è.
Del resto un film interpretato da un 90enne che parla proprio di morte e di avvicinamento ad essa è testamento anche nel significante, non nascondiamoci.
Ma sarebbe un errore considerare Lucky solo come film testamento di questo attore quando, invece, dovremmo ergerlo a Film Testamento tout court, ovvero di un'opera sull'andarsene, anzi, sull'andarsene nel miglior modo possibile.
Anche qui, come col sorriso, torneremo sopra.
Lucky è l'opera prima di John Carroll Lynch (e anche su quest'ultimo cognome torneremo), un grandissimo caratterista americano (io l'ho adorato soprattutto su The Invitation) che a 50 anni suonati ha deciso di saltare la staccionata.
E che in questo suo primo film abbia preso come protagonista unico Dean Stanton è un'altra di quelle piccole grandi cose, di quelle emozioni che dovremmo far nostre.
Un attore, Carroll Lynch, quasi solo caratterista, che gira un film mettendo come protagonista unico uno dei Re dei caratteristi.

28.8.18

Recensione "Tower" - BuioDoc - 38 -

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Tower è un bellissimo documentario a tecnica mista (animazione in rotoscope, filmati d'archivio, interviste, audio originali) che racconta la prima strage in un college americano della nostra era moderna.
Siamo nel 1966, un cecchino spara indiscriminatamente dalla Torre dell'Università di Austin.
Un doc artisticamente grande, umano, rispettoso, emozionante

Mi ritrovo per caso a vedere Tower proprio il giorno che negli Stati Uniti si verifica l'ennesima strage.
Questa poi, se vogliamo, ancora più preoccupante e "interessante" delle altre perchè non si limita a farci riflettere solo sull'abominevole discorso del possesso delle armi ma anche perchè avvenuta in un contesto, quello dei giochi virtuali, sempre più spersonalizzante.
Un ragazzo perde ad un torneo di un videogame e allora inizia a sparare a tutti.
Potremmo scriverci un libro su sto fatto, vero e proprio emblema dei nostri tempi.
Tra l'altro, altra coincidenza, in questo momento negli Stati Uniti c'è anche la piccola Caden Cotard. 
E vabbeh.
Ma di cosa parla Tower allora?
Della prima strage con armi da fuoco compiuta in un college americano, o almeno la prima di questa nostra ultima era moderna (ci dovrebbero essere dei precedenti a fine 800 e inizio 900).
Siamo nel 1966
Da lì in poi non se ne conteranno più anche se mai tante come negli ultimi 20 anni.
E' abbastanza strano che un appassionato stragista come me non conoscesse (o non ricordasse) questo terribile e incredibile fatto, per certi versi ancora più assurdo e iconico di tante stragi famosissime avvenute dopo, come la Columbine o la Virginia Tech.
Perchè dico così?
Perchè questa strage avvenne di giorno, fuori, in uno dei punti più trafficati di Austin.
E in estate, con 38 gradi.
Ma, soprattutto, perchè il cecchino si mise sul davanzale della Torre dell'Università, questa qua, proprio sotto il grande orologio.




Praticamente era impossibile vederlo lassù, nascosto dietro la balconata, a quell'altezza.
Mentre lui, invece, vedeva mezza città sotto di sè.
Il cecchino iniziò a sparare in questo grande piazzale universitario e nelle strade adiacenti.
Impossibile nel 1966 (che non era il mondo di adesso) e in pieno giorno pensare che stesse accadendo qualcosa del genere.
Si pensava a petardi o cose simili.
E invece la gente cominciava a cadere.
Morirono (mi pare) 16 persone, senza contare la moglie e la madre dell'assassino, uccise la notte prima della strage.

24.8.18

Recensione: "The End? L'inferno fuori"

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Un film prodotto dai Manetti che sembra un film dei Manetti.
Un Piano 17 in salsa zombesca che si fa voler bene, che gioca con il genere, che ha cose interessanti dentro e che è un ottimo tentativo di far qualcosa di diverso nel genere.
Peccato per le tante ingenuità di scrittura e, forse, per una mancanza di coraggio e di cattiveria in più.
Un film che va aiutato, imperfetto ma meritevole

presenti spoiler


Guardi "The End?" e dopo nemmeno 8 minuti ti trovi a dire "cavolo, ma sono i Manetti?".
Poi, sempre che non lo sapevi già da prima, scopri che i due fratelloni romani sono in effetti i produttori del film.
Ed è molto bello, ma al tempo stesso molto strano, che producano un film che è quasi copia diretta delle loro opere e di una in particolare - lo splendido Piano 17 - di cui è quasi una copia carbone.
Perchè, diciamocelo subito, il film del bravo Misischia è un Piano 17 in salsa zombie.
Credo che il riferimento sia assolutamente voluto perchè di film di persone "costrette" in un luogo ce ne sono tanti (gli stessi Manetti ne han fatti almeno 3, come nel caso di Misischia "budget che aguzza l'ingegno") ma se si è scelta proprio l'ascensore impossibile non pensare ad un rimando.
Poi c'è anche la romanità, l'ironia, la tensione, insomma, tantissime cose in comune.
Anche se a me piace citare pure un'altra opera, anch'essa notevolissima, che è Dead Set, una miniserie tv inglese che è forse una delle tre meglio cose viste in tema zombie in questo decennio.
Mi piace nominarla perchè anche lì c'è un luogo chiuso (la casa del Grande Fratello inglese) e, soprattutto, "isolato" dal resto del mondo.
In entrambi i casi chi sta dentro (casa o ascensore) non si rende conto di quello che sta accadendo fuori (vedi il sottotitolo del film di Misischia) e solo piano piano inizia ad essere travolto dall'orrore.
Lo dico subito, "The End?" (mortacci sua il punto interrogativo, scomodissimo) è un film tremendamente imperfetto ma che si fa voler bene, eccome.
E' un film che non si prende mai troppo sul serio, ironico e che sa giocare con l'orrore.
In più è ben recitato (in nessun attore si percepisce, come spesso accade nel nostro piccolo cinema, quel senso di pesce fuor d'acqua amatoriale), ben girato ma, bisogna dirlo, non benissimo scritto.
Come vedremo, infatti, tutti i problemi sono di scrittura.
Claudio Verona (un bravissimo Alessandro Roja) è un economista che, ad appena 40 anni, sembra già aver costruito un piccolo impero.
Una mattina sta andando a chiudere un importantissimo trading nel suo ufficio.
Rimane chiuso in ascensore.
Intanto a Roma è arrivata l'Apocalisse.

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Il pregio maggiore del film, la costrizione in un unico -strettissimo- luogo diventa a lungo andare uno dei suoi più grandi limiti.
Perchè se è vero che assistere e combattere un'apocalisse zombesca da dentro un'ascensore è soggetto molto simpatico ed interessante è anche vero che - anche a causa di una sceneggiatura che si copia troppo spesso - ad un certo punto lo spettatore ha una tremenda voglia di uscire e di iniziare ad assistere a cose diverse da quelle viste finora.
L'errore più grande del film in fase di scrittura sta nell'incredibile ridondanza della stessa situazione.

16.8.18

Recensione: "Utoya 22. July" ( U - July 22 )

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Il 22 luglio 2011 in Norvegia avviene quella che è forse la strage più grande compiuta da un solo uomo che mondo ricordi.
Prima la bomba ad Oslo poi un pazzo nazista che va su un'isoletta a fucilare quanti più giovani potesse.
Morirono 77 persone, 70 delle quali ventenni o ancora più giovani.
Fare un film sulla vicenda era delicatissimo.
Dovevano essere compiute delle scelte.
E Poppe, il regista, non ne sbaglia una.
E ci regala un film straordinario, etico, che più si allontana dal cinema dell'orrore, più diventa verosimile, più orrore ci fa provare.
Imperdibile

presenti spoiler dopo metà recensione

So praticamente tutto della strage di Utoya e di Breivik.
In realtà la mia passione per le stragi e i serial killer è forse più forte di quella per il cinema, pari solo a quella per il cibo.
Ho visto documentari all'epoca, altri negli anni, uno appena una settimana fa.
Quella di Utoya è forse la più grande strage commessa da un singolo uomo nella storia.
Di sicuro è la più incredibile, insensata, pazzesca di tutte.
Un ragazzo poco più che trentenne, praticamente nazista, redige un suo manifesto politico e sociale. 
Lo manda per mail a migliaia di persone e poi parte per compiere il suo massacro.
Prima fa scoppiare una bomba a Oslo, vicino agli uffici governativi.
Bomba devastante che causerà 8 morti.
In realtà i morti in quel caso erano "solo" un effetto collaterale per Breivik. No, quella bomba serviva a distrarre il paese e la polizia, a far stare tutti lì mentre lui indisturbato si poteva prendere una barchetta, andare nella piccolissima isola di Utoya e sterminare, fucilandoli, i giovani di sinistra che si erano accampati lì per fare una festa-convegno.
Il paradosso - ma poi nemmeno tanto - è che Breivik odia gli immigrati, specie gli islamici. Ma poi trucida 69 giovani norvegesi, solo per la colpa di appartenere ad un partito di "apertura" verso l'immigrazione.
Breivik ucciderà in totale tra Oslo e Utoya 77 persone, ma prenderà solo 21 anni, il massimo della pena previsto in Norvegia.

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Ora, una vicenda così è delicatissima da portare al cinema, gli scrupoli son mille.
Qui non si trattava di fare un bello o brutto film, ma di compiere delle scelte.
E il regista - Erik Poppe - non ne sbaglia UNA.
Roba che se io fossi stato un mese solo a pensare quali potessero essere le migliori scelte da fare, anche senza girare una scena, solo scegliere l'approccio, non avrei mai potuto trovarne uno migliore.
Cercheremo di analizzare tutte queste scelte, scelte che fanno di Utoya 22 July un film enorme per me.

12.8.18

Recensione: "Euthanizer" - (Armomurhaaja) - 2017

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Un grandissimo film finlandese capace di tirarci fuori profonde riflessioni.
La storia di un uomo che pratica eutanasie clandestine agli animali.
Un uomo, però, che quegli animali li ama profondamente.
Un personaggio indimenticabile, complesso, incredibile.
Per un film violento e poetico, disumano e lirico.
Un'opera da vedere a mente aperta, senza pregiudizi.
Per conoscere tutto il meglio e tutto il peggio di noi

spoiler segnalati a un certo momento

Sono stato fortunato.
Sono arrivato a 41 anni e ho visto morire pochissime persone a me care. E, quelle poche, erano comunque giunte alla fine del loro lungo cammino.
Non credo quindi di dire niente di strano nell'affermare che forse le due morti che mi hanno fatto più male (tra quelle riguardanti esseri viventi a me vicini) sono state quelle di due cani.
Di una ho parlato più volte, Beniamino, inutile dire qualcosa.
L'altra è di appena tre mesi fa, la splendida e giovanissima Miele che se ne è andata in un modo inconcepibile.
Andata dal veterinario per una semplice sterilizzazione, non è più tornata.
Quindi questo film che mi ha mandato ieri l'amico Giovanni (che l'ha subbato, se volete ce l'ho) mi ha colpito nel profondo.
E forse non solo per aver rivissuto la tragica dinamica dell' "eutanasia" animale.
Ma anche perchè, per vicende personali, conosco abbastanza bene il mondo veterinario.
Quello che mi è successo tre mesi fa, se non fossi una persona lucida e ragionevole, mi avrebbe forse portato a quello che tantissime persone al mondo fanno, ovvero demonizzare una categoria.
Non c'è cosa che sopporto di meno.
Leggere che i preti sono pedofili, che i medici sono incompetenti, che gli insegnanti sono capre, che i poliziotti sono bastardi, che i migranti sono delinquenti e tante altre generalizzazioni così mi danno un fastidio immenso.
Ho conosciuto lo stress, le privazioni, le difficoltà e la complessità che significa esser veterinario. E sì, ce ne saranno alcuni meno bravi degli altri, meno attenti, ma sono persone come tutti noi, come i preti, i medici, i poliziotti, i migranti.
Ce ne sarà sempre qualcuno, anche tanti, meno virtuosi o che fanno cose orribili.
Da qui ad attaccare una categoria c'è un mondo.

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In questo stupendo film la figura della veterinaria presente è sicuramente messa in cattiva luce. E il nostro grandissimo protagonista odia tutta la categoria.
Ma è un film, lui ha dei motivi, ed è il pensiero di un solo uomo.
Tra l'altro, e qui apro un argomento delicato, la persona di cui sopra mi diceva "Giusè, non so se ce la faccio a fare questo lavoro, sono troppo coinvolta".
Ora, a parte il fatto che ce l'ha fatta alla grande, ma si arriva all'umano paradosso che più un veterinario ama i cani più rischia di non essere portato a fare quel lavoro.
Quindi l'accusa che il protagonista del film fa alla veterinaria, non amare gli animali, è sì molto giusta ma alla fine, se dovessimo scegliere tra due estremi, meglio un grande veterinario "freddo" che uno non competente che adora gli animali.

7.8.18

Recensione: "Dark Hall"




Dopo il bellissimo Buried e l'imperfetto ma molto interessante Red Lights, Cortes torna al cinema con il suo terzo film.
E, bisogna ammetterlo, è un bel passo indietro.
Probabilmente piacerà ai fan superficiali dell'horror ma Dark Hall resta un film mal scritto (anche se con una buona intuizione dietro), mal raccontato e anche mal interpretato.
Vedibile, certo, ma niente di più che un horror d'estate.

spoiler segnalati

Cortes debuttò con un film che, per me, è dentro la piccola storia del cinema recente.
Niente si avvicina minimamente a quel grandissimo esperimento che fu Buried.
Film molto osteggiato, criticato, e va bene tutto, ma non riconoscerne il coraggio e la difficoltà è impossibile.
In ogni caso lo amai molto.
Fece solo un filo peggio col secondo film, questo davvero massacrato dalla critica, Red Lights.
Io lo trovai imperfetto ma davvero buono, molto interessante.
Insomma, in entrambi i casi mi ritrovai in nettissima minoranza a difendere quello che era per me un grande autore.
Sta di fatto che questo terzo Cortes è senza ombra di dubbio un grande passo indietro e, per me, un quasi assoluto passo falso.

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I primi 20 minuti sono al limite del disastro.
Intanto io direi anche basta con queste improbabili scuole dentro grandi e lugubri manieri.
No, nel 2018 delle ragazze difficili non finiscono in luoghi così, stop.
Ma è tutto veramente bruttino.
I dialoghi sono di scarsissimo livello e tremendamente didascalici. Sembra di trovarsi in quei film di serie b in cui ad ogni frase i protagonisti ci raccontano il loro passato.
"Eh quando tuo padre morì, eh, devi chiamare padre il mio nuovo compagno, eh, ti ricordi quella vacanza là, eh, già in passato hai commesso atti vandalici"
Insomma, degli spiegoni dopo 5 minuti di film camuffati da reali dialoghi.
Ma è tutto sbagliato.

4.8.18

Recensione: "Inimi cicatrizate" (Scarred Hearts)

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Un film rumeno malinconico, divertente, colto, lungo, divertente.
L'odissea di un giovane intellettuale finito in un sanatorio alla fine degli anni 30.
Film lirico, esistenziale, rassegnato ma anche vitalistico.
Un'opera con dentro solo personaggi amabili.
Meglio un cuore che soffre che uno cicatrizzato, ormai insensibile al dolore


Ci sono alcuni film che mentre li vedi a volte fatichi un pochino, oppure ci son quelli che stanno sempre lì lì per lasciarti o prenderti con sè, oppure quelli ti paion troppo lunghi e ripetitivi, oppure quelli ti regalano non troppe emozioni.
Quasi sempre film così poi non ti restano troppo dentro.
A volte, però, capitano film che magari hanno un pò tutte quelle caratteristiche là sopra eppur, quando finiscono, ti lasciano la sensazione di aver visto qualcosa di grande, fors'anche di grandissimo.
Inimi cicatrizate (cuori cicatrizzati, che già solo il titolo puzza di bello) è uno di questi film.
Lungo, troppo lungo, ripetitivo, troppo ripetitivo, fermo su sè stesso, non troppo emozionante, banalotto nelle vicende.
Eppure l'ho finito e me ne sono stato lì 5 minuti, fermo a guardare lo schermo, emozionato, convinto d'aver visto qualcosa di veramente grande.
Ambientato alla fine degli anni 30 Inimi Cicatrizate racconta l'odissea di un giovane intellettuale ebreo-rumeno finito in un sanatorio a causa di alcuni problemi vertebrali.
Solo alla fine capiamo che quel ragazzo di cui durante la visione ci siamo probabilmente innamorati, Manu, è in realtà qualcuno di veramente esistito, tal Max Blecher, intellettuale rumeno morto per tubercolosi ossea negli anni che racconta il film.
Belcher ha lasciato numerosi scritti, anche solo piccoli frammenti poetici che, durante il film, faranno capolino più volte.
Questa introduzione vi fa già capire che alla fine dentro il film c'è malattia, dolore, disperazione e (forse) morte.
Ma l'errore più grande sarebbe considerare Inimi Cicatrizate come film drammatico.
No, la forza di questo film è nei millemila modi in cui si riesce a sublimare il dolore, facendolo diventare altro.
Lo si fa con l'ironia, con il divertimento, con la cultura, con le riflessioni, con la gioia di vivere nonostante tutto.

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Questo è un film che fa star bene, che fa sorridere, pieno di gag a telecamera fissa abbastanza surreali, tanto che più volte m'è venuto in mente l'Andersson del Piccione.
La vera magia del film, un tesoro inestimabile, sono i suoi personaggi. Non ce n'è uno, nemmeno uno, in qualche modo cattivo, meschino, negativo. Ci troviamo davanti una decina di personaggi uno più amabile dell'altro, quand'anche non delizioso.
Lo stesso medico capo del sanatorio, dottore dai metodi bruschi e piacioni, è personaggio a tratti irresistibile.

27.7.18

Recensione: "Hereditary"

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Un horror tremendamente derivativo all'apparenza.
E sì, Hereditary ha tanto di già visto, quasi tutto.
Ma la classe di regia, la sua anima drammatica, una complessità di scrittura notevole e il volto di una bimba che non si dimentica ne fanno un horror che si discosta dal solito horror da sala, qualcosa di più.
E poi è opera prima, non scordiamolo

presenti spoiler dopo prima foto, interpretazioni del film nel finale di recensione

A me sembra che l'horror sia molto vivo.
Non quello da sala magari ma in generale sì.
Più che altro è bello constatare come si continui ancora, nonostante tutto, a fare piccole sperimentazioni.
E si passa da grandi horror metaforici - come Babadook o It Follows o Under the Shadow - ad altri completamente essiccati, di sottrazione -come It comes at night o A Dark Song o Anguish -.
Mi sembra che si stia sempre di più andando via dal genere per cercare di creare degli ibridi.
Attenzione, non che i film di genere tout court siano, in quanto tali, inferiori. Ma ho la sensazione che ormai i "puri" horror siano tutti uguali uno all'altro e che le cose più belle si vedano negli ibridi. Anche perchè è molto più facile essere "autori" (e qui intendo scrittori) in queste mezze "creature" che non nel puro film de paura dove ormai le regole del mercato sembrano ferree e l'unico elemento che può far la differenza resta la regia.
La nota più lieta è che anche nei cinema, però, stanno sempre di più arrivando horror leggermente diversi, magari non originalissimi, ma che non hanno lo stampino preconfezionato.
Hereditary è uno di questi.
Un caso strano però.
Nel senso che pur essendo un qualcosa di visto, stravisto e strastravisto, resta comunque un'opera diversa dal new horror dei jumpscares.
E lo è, essenzialmente, per tre motivi.
Il primo motivo è una regia di grandissima classe e misura.
Il secondo è un materiale "umano" interessantissimo e anche un filo coraggioso.
Il terzo elemento è una complessità di scrittura notevole.
Questo terzo elemento, vedremo, sarà anche un problema.
L'incipit del film è grande.
L'inquadratura parte dalla casetta sugli alberi (vera a propria protagonista del film), carrella indietro in una vera casa, fa la panoramica tra alcune casette di bambola -delle specie di plastici, riproduzioni - si infila in una di esse e questa diventa magicamente vera, reale, una nuova casa.
Al tempo stesso questa casa è la stessa casa dove stavano le casette di bambola...
O.k, un casino spiegarlo.
Ma questo corto circuito tra ambienti reali e miniature ricostruite sarà poi presente per tutto il film. La madre, Toni Collette, è infatti un'artista che riproduce interni di edifici, scene famigliari, stanze, in scala piccolissima, da stop motion per intendersi.
 Tutte le miniature che riproduce, o quasi tutte, raccontano scene della sua vita reale, presente e passata.
Ma al tempo stesso molte volte abbiamo la sensazione opposta, ovvero che alcune inquadrature "reali", come ad esempio quella, esterna, della casa della famiglia protagonista, siano una miniatura.
Non è un caso che il film si apra e chiuda, in struttura circolare, con lo stesso artificio, anche se con processo inverso, dalla miniatura al reale, dal reale alla miniatura.
Il perchè di tutto questo sarà uno dei tanti perchè con cui avrà a che fare lo spettatore.
Magari la cosa è solo un -bellissimo- esercizio di stile ma comunque ci dà la sensazione di qualcosa di "superiore", già prestabilito, quelle sensazioni per cui gli esseri umani sembrano solo delle marionette, delle miniature appunto, nelle mani di un artigiano più grande o di un destino prestabilito.
O.k, sull'argomento sono andato lungo direi, in realtà volevo solo parlar del prologo.

20.7.18

Recensione "The Neon Demon"

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Questo film fa parte de La Promessa (6/15)

The Neon Demon è l'ennesima perla tecnica di Refn.
E' vero, film forse troppo bello e vacuo ma di quello parla, di bellezza e vacuità.
I problemi, semmai, sono secondo me altri, come una davvero rivedibile parte dialogica e una meccanicità di racconto davvero esagerata.
Ma c'è anche tanto altro, una Fanning pazzesca, 3,4 sequenze in cui, solo con la tecnica, Refn ci porta in mondi-altri, una colonna sonora potentissima.
Non il mio modo migliore di intendere il cinema, ma la conferma di un autore a suo modo unico

Credo di esser troppo romantico.
Lo so da sempre, è un dato di fatto, ma dev'esse quello il motivo, non ne trovo altri.
Ho visto 5 Refn.
Li ho apprezzati tutti, li ho trovati tutti super interessanti, li ho trovati tutti delle meraviglie visive come poche altre.
Ma ne ho amato solo uno, Drive.
E ho cercato de capì come mai.
Ho chiuso gli occhi e c'è poco da fa, mi sono venute in mente 4,5 scene di lui e lei.
Lui e lei.
E allora me so detto, ma se non ce fossero stati lui e lei su Drive, se fosse stato un film senza amore come Valhalla, Bronson, Solo Dio Perdona e Neon Demon, te sarebbe piaciuto allo stesso modo?
La risposta è arrivata inequivocabile.
No.
Che poi io i film sentimentali li odio, non li guardo, mi fanno venire l'orticaria.
Ma quelli dove la cosa viene fori in maniera così grande e non stucchevole, come Drive, come Alabama Monroe, come Eternal Sunshine, ecco, allora c'è quel qualcosa in più.
E dev'esse questo il motivo per cui io, con Refn, solo Drive.
Perchè per il resto il marchio del grande regista danese c'è ovunque e, anzi, forse ha fatto anche film visivamente più belli de Drive e dai soggetti più interessanti (chè, diciamocelo, Drive è banalotto).
Valhalla, lo dico da sempre, ha la più bella fotografia degli anni 2000.
Bronson è un particolarissimo e molto originale biopic.
Solo Dio perdona è un film tecnicamente infartuante e molto misterioso.
Neon Demon, eccolo, è qualcosa di visivamente annichilente.
Eppure in Drive ce deve esse l'ingrediente segreto perchè solo là io ho alzato le mani e me so detto "Refn, sono tuo".
Che poi, vedete, che Neon Demon sia un film non troppo profondo e un pochino vacuo va benissimo eh.
Perchè è puro, puro, metacinema.
Refn ci parla in Neon Demon di bellezza e vacuità.
E come lo fa?
Con bellezza e vacuità.
Neon Demon è come una delle modelle che lo interpretano, qualcosa che ti allarga la mascella nel vederlo ma che sotto sotto non ha molto.
E' significante e significato insieme.
Ma non solo, Neon Demon è doppiamente metacinema. Perchè da sempre si dice a Refn che fa film fotograficamente grandissimi ma non troppo complessi.
E allora lui che fa? un film sulla fotografia e sul bello.

17.7.18

Recensione: "Chronicle"


Chronicle è un riuscitissimo ibrido tra teen drama e film di superpoteri.
Un'opera che porta a riflessioni molto importanti ed interessanti, specie l'unione tra la solitudine e la disperazione e la possibilità di distruggere sè e gli altri.
C'erano le carte in regola per tirar fuori qualcosa di quasi perfetto.
Invece le pecche non mancano.
Resta comunque qualcosa da veder subito

Credo che sto Chronicle sia veramente sfigato con me ;)
Lo vidi al cinema nel 2012 ma non feci la recensione.

E adesso lo ribecco per caso 8 giorni fa in tv e niente, son passati (appunto) 8 giorni e anche stavolta ho rischiato seriamente di non scriverne.
E invece ho deciso di farlo (la mia recensione a più giorni di distanza dalla visione di sempre) perchè, anche se per due volte su due ho rischiato di non parlarne, a me Chronicle è piaciuto, e nemmeno poco.
Non so se vi ricordate il famoso video (o era una pubblicità?) in cui Ronaldinho colpiva non so quante volte di fila la traversa di una porta.
Oppure quei video apparentemente amatoriali che spopolavano sempre quegli anni in cui delle persone riuscivano a fare cose incredibili in casa o un giardino, quasi magiche.
Ecco, credo che Chronicle abbia preso spunto da quei video, da quei trucchi, e ci si sia scritto un film sopra.
Non è un caso che quasi tutti gli esperimenti che i ragazzi contaminati faranno assomigliano tantissimo ai video di cui sopra.
Palloni che seguono traiettorie perfette, oggetti che volano, altri che rimangono fermi a mezz'aria e cose così.
Effetti speciali casalinghi ma molto suggestivi, almeno 10 anni fa.
Su questa "tecnica", su questa davvero suggestiva commistione tra vita reale e effetti impossibili, si basa gran parte di questo Chronicle, notevole ibrido tra teen drama e film di superpoteri.
Purtroppo credo che il regista (se non sbaglio all'opera prima) fosse molto più interessato al secondo aspetto visto che poi farà quello che, a quanto mi dicono, è uno dei più brutti cinecomics di questi anni, I Fantastici 4.
Peccato, veramente peccato perchè Chronicle è invece un gioiellino.

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Andrew (un grande Dane DeHaan) è un adolescente con un'infinità di problemi.
La mamma che ama da morire è in fin di vita, il padre lo umilia e picchia, a scuola è scansato o deriso da tutti per questa sua aria da sfigato e mezzo psicopatico.
Ha un cugino però che gli vuole un sacco di bene.
Andrew affida allora la sua vita a una videocamera, unica "amica" a cui confidare i suoi pensieri.
Ne nasce così un mockumentary che, dobbiamo dirlo, sembra molto forzato. Che tutto il film sia ripreso dalla telecamerina di Andrew (e di un'altra ragazza) non ha alcun senso. Sarebbe stato perfetto un ibrido, un film classico in cui poi Andrew, nel mezzo, faceva delle riprese di sè e dei suoi amici, specie in tutti gli esperimenti che fanno (o il volo sulle nuvole).
Ma sembra sempre che non ci siano vie di mezzo, chi intraprende la strada del mock cerca sempre di essere totale e radicale, non ne comprendo il motivo.
Sta di fatto che Andrew, suo cugino e un ragazzo di colore (l'opposto di Andrew, il più popolare della scuola) vengono a contatto con qualcosa di "alieno" trovato sottoterra.
Tornati in superficie i ragazzi si rendono conto di avere acquisito "piccoli" superpoteri, strettamente connessi con la volontà. 
Non è un caso che a inizio film il cugino filosofo citi Schopenhauer e un discorso sulla pura volontà, sarà architrave del film.
Sta di fatto che ne esce fuori un'opera per niente banale, capace di tirare fuori riflessioni molto interessanti e capace anche di mettere tanto "dolore" dentro.

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La caratterizzazione della famiglia di Andrew è al tempo stesso vista e stravista ma molto convincente, forse per la grande prova di DeHaan. Traspare moltissimo la sua solitudine, la sua disperazione, l'amore per la madre e il dolore immenso di non essere amato dal padre. Sì, perchè più che odio tra i due c'è da parte di Andrew il grande dramma di sentirsi non amato.
La situazione con gli amici è meno convincente, ma tant'è.
Comincia così un film che è una via di mezzo tra coming of age, revenge movie e dramma esistenziale.
Andrew inizia a sviluppare poteri sempre più forti. Ma, a differenza degli altri due amici -che lo vedono quasi come un gioco- per Andrew questi poteri iniziano ad acquisire altre valenze, come prima il riscatto sociale (l'esibizione in pubblico) e poi la vendetta.
L'abbinamento grandi poteri-ragazzo umiliato è perfetta. Ovvio che ci rimanda tantissimo a Carrie ma, se possibile, in questo film le dinamiche sono ancora più complesse.
Anche la scena dello sperma, ai limiti del trash, è invece molto tragica perchè altamente drammatica per Andrew, ragazzo vergine che per la prima volta si trovava a far sesso. E questo suo essersi sempre sentito "represso" e avere stavolta possibilità di vivere la sua sessualità, porta a quel disastro.
Metafora di chi non è abituato a viver cose belle e, allora, quando queste accadono, non ha il controllo, non le conosce.
Ricordiamolo, Andrew non è di punto in bianco passato dall'essere uno sfigato ad un vincente, semplicemente sta vivendo situazioni nuove. E appena tutto torna come prima succede che adesso il dolore è doppio, la rabbia pure, l'umiliazione anche.
Ma ci sono i poteri...
E quindi Chronicle diventa uno splendido film di vendetta, di furia, di liberarsi definitivamente da una vita in cui non si crede più.
Andrew impazzisce, diventa, come lui stesso dice, un predatore. Adesso tutti devono temerlo. In realtà, però, è solo un ragazzo distrutto e disperato che invece che implodere può adesso esplodere.
Nel film ci sono sequenze notevoli.
Buffo che forse le due più belle siano opposte, la più "grande" (l'aereo che passa vicino loro) e la più piccola (il ragno a cui divide le zampe).
Ma sono davvero tanti i trucchi convincenti, dall'automobile alla videocamera mossa col pensiero.

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Poi, nel finale, Andrew esplode definitvamente e il film diventa quasi un cinecomic. Ovvio che questa parte così distruttiva e plateale sia per me la meno interessante, non essendo assolutamente fan del genere. Troppa distruzione, troppa battaglia tra i due ragazzi, troppo casino.
Ma a livello metaforico funziona alla grande, il potere e la disperazione di Andrew sono così grandi che lui diventa una specie di Dio distruttore.
Arriviamo così al finale, anche abbastanza toccante.
Specie per la figura del cugino, davvero riuscita.

Un ragazzo che vuole profondamente bene ad Andrew ma che si trova costretto a fare quello che ha fatto.
E poi gli ultimi minuti, bellissimi.
Matt va in Tibet, dove Andrew ha sempre sognato di andare. E gli dedica un ultimo saluto.
Un film imperfetto, sbilanciato, leggermente forzato nel suo essere falso documentario.
Ma una chicca da vedere lo stesso

7/7.5