29.7.22

"Class Enemy /Ultima Notte a Soho /Chernobyl" - A luci accese (divagazioni illuminate) - 1 - di Nicola C.




 Proprio nel momento più "fermo" del blog (ma si spera in una grande ripresa) ecco che forse una nuova rubrica esterna può arrivare a dare slancio.
Nicola è un lettore/commentatore del blog.
I suoi commenti sono sempre bellissimi, interessanti, stimolanti.
Gli ho detto che sarebbe stato bello fare il passo successivo, ovvero non limitarsi a stare lì in fondo, nei commenti, ma, magari, creare una rubrica "emersa".
Ha accettato, ed eccoci qua alla prima puntata.
Troverete sempre pensieri su 2/3 film, sono sicuro davvero interessanti per molti di voi.
Vi lascio alla sua presentazione della rubrica e poi ai suoi primi 3 film.
E approfitto per scusarmi con Roberto ed Enrico (i due amici che hanno ancora rubriche super aperte qua) per il mio ritardo nel pubblicare i loro nuovi pezzi ;)
------------------------------------------------------------

"A luci accese" e' uno spazio che raccoglie i momenti in cui, cessata la penombra della visione, torna a illuminarsi la sala e siamo noi a essere nuovamente proiettati al mondo, restituiti ai lumi della dimensione razionale, a quanto nostro malgrado ci porterá a riflettere su quel sogno cullato qualche ora in chiaroscuro. Nulla sara' esattamente come prima, e' stato per sempre aggiunto qualcosa al nostro sguardo sulle cose e alla sua inevitabile condivisione.

N° 1 CLASS ENEMY - LA SCUOLA DELL'ISOLAMENTO


Class enemy di Rok Biček è il miglior film che abbia visto sul tema “scuola”; insieme a Non uno di meno di Zhang Yimou esprime il meglio sull’universalità dell’insegnamento, quale momento chiave della continuità dell’ “essere umano”. Nella pellicola cinese ne vengono percorsi in crescendo i valori positivi, qui invece troviamo tutto quanto li opprime nel nostro mondo e, riguardandoci così da vicino, rimane una pellicola di cui a maggior ragione far tesoro. Ciò che mi pare si imponga all’attenzione (a monte di qualunque lettura) è l’incomunicabilità quale ratio di un sistema, in un insieme sovraordinato di relazioni che talvolta trascende persino le intenzioni dei suoi attori nella propria incapacità di vedere oltre quelle; e il primo effetto (e anche il più grave)  è il fallimento delle possibilità del protagonista “prof”, che diversamente avrebbero tutto per essere elevate ad arte. La profondità della persona (che pur apprezziamo cristallina) mostra di fatto la sua impotenza di fronte all’apparato scuola – rimanendo ingessata nel proprio ruolo – e uscirà sconfitta proprio dal rapporto con i ragazzi. Interessante è capire le origini di questo fallimento, che personalmente rintraccio nel non aver compreso che la prima relazione efficace è il proprio rapporto con l’insegnamento stesso, nella consapevolezza che nulla viene prima dell’incontro quotidiano con ogni singolo studente. E non può che essere un momento creativo perché ogni volta nulla può essere omologato a quanto già vissuto. Egli invece non solo quel momento irreggimenta (e quindi omologa) ma fa del suo patrimonio umano e intellettuale un bagaglio retorico da impartire con altero distacco, piuttosto che da condividere accogliendo le diffidenze che deve affrontare; a noi appare sempre incapace di vedersi negli occhi o nei gesti di quell’adolescenza che, nell’atto di insegnare, diventa semplicemente parte di sé.

L’atteggiamento del docente sempre contribuisce a strutturare quello dell’istituzione in cui agisce e con esso quello dei suoi discenti, ma fuori da questo percorso l’impermeabilità alza barriere che si impongono in controcampo. Già la semplice distanza da egli imposta - con una tempestività che anticipa in sé gran parte dei contenuti  –  suscita nei ragazzi soltanto ostilità verso chi avrebbe avuto invece molto da dire su ciascuno di loro; ma – con tali premesse - ciò non provoca la minima scintilla, nessuna benevola o impertinente curiosità: regna un clima nel migliore dei casi di anaffettiva diffidenza.


Gli studenti – da canto loro - non posseggono alcuna attitudine all’altro da sé fosse anche da irridere, ma intanto da accogliere nella sua genuina rivelazione. Conta invece l’aspettativa di venir assecondati alle proprie condizioni (così come l’istituzione stessa ha stabilito), su una strada che si pretende sempre e comunque in discesa avendo perso il gusto di ammirare il paesaggio dalla cima del pendio, forse perché il “sistema” ha già tradito quella promessa a partire da se stesso. Ma il sistema qui è tutti loro, anche l’insegnante colpevole di mancare proprio di questa consapevolezza e cavalcarla (che è materia sua). La classe raccontata da Biček non si cimenta neanche davvero nello scontro (che sarebbe tale solo alla luce di un confronto realmente vissuto) ma piuttosto nella difesa a oltranza delle rassicurazioni (elevate a status di diritto) elargite a proprio favore da una scuola in apparenza strutturata per esigere ma sempre ammiccante all’indulgenza (estremi dello stesso rovinoso equivoco). E’ un mondo adulto che in fondo vuol sentirsi per primo al sicuro, cristallizzando i propri paradigmi per mettersi al riparo dal futuro; quel mondo al quale noi tutti per altro abbiamo imparato piuttosto ad abituarci (diversamente declinato anche nella nostra esperienza): omologato dal puntiglio prolisso e formale della norma, in cui si omologano persone e scopi; mentre il cuore della sua missione è ridotto a ragioneria del profitto e burocrazia didattica all’insegna del dovere, che è coazione all’apprendimento e mortificazione della curiosità (sempre motore della conoscenza). Ogni atto è finalizzato alla mera sopravvivenza dell’apparato scuola, disinteressato e comunque impreparato a spingersi oltre se stesso. In questo scenario l’impotenza elevata ad atto estremo, il suicidio di un’alunna che paga (anche) quest’ennesimo abbandono, è quel momento di rottura che pone gli uni di fronte agli altri elementi sostanzialmente ripiegati su sé stessi (il “sistema”, il prof e la classe), svelandone le contraddizioni una volta rimossa la coltre di conformismo che le nascondeva o peggio che le facesse sembrare normali parti del gioco; che è una critica forse più ampia e rivelatrice di un modello di umanità di cui la scuola è modello in erba e che retroalimenta la propria crisi anche laddove ci sarebbero le risorse (se non per uscirne facilmente) almeno per affrontarla. 


Un appello volutamente crudo in cui si individuano molte assenze e troppi discorsi colmi di silenzio. Ogni elemento in sé positivo (il rigore intellettuale del prof, la “migliore amica” quale immagine genuina del candore adolescente e la direttrice dell’Istituto armata a modo suo delle migliori intenzioni) rimane chiuso nel suo isolamento e destinato a dissolversi senza lasciar traccia; quell’assenza di volto in locandina che è sintesi dell’intera vicenda, quando alle maschere è affidata l’espressione più audace della protesta.


N°2: ULTIMA NOTTE A SOHO (E BARTON FINK) –  LA GESTAZIONE GROTTESCA DELL’AMBIZIONE



Ultima notte a Soho è un film che ho visto dopo aver ammirato Anya Taylor-Joy nella Regina degli scacchi e, al contempo, attratto dalla recensione di Giuseppe sul Blog che mi serviva su un vassoio d’argento quest’occasione. E anche a titolo di gratitudine volevo (per quel che vale) agganciarmi alla perplessità che ho rilevato (perché dopo il film, è quella che mi ha colpito) per un finale che disinnesca i piani raffinatamente visionari del racconto per virare – diciamo così – su ritmi sorprendentemente dissonanti: si passa da un’avvolgente armonia classica alle distorsioni del metal senza neanche cambiar spartito.

27.7.22

Recensione: "Veleno" - Le Serie tv de Il Buio in Sala - Su Prime

 

A fine anni 90 in due paesini emiliani scoppiò il caso dei "Diavoli della Bassa Modenese".
Abusi in famiglia, messe nere, omicidi rituali.
Tutto questo raccontato da dei bimbi presi da famiglie in grossa difficoltà economica.
Decine di persone arrestate, 16 bambini portati via ai loro genitori, una vicenda terribile, inumana, vergognosa, che solo tanto tempo dopo ha rivelato la sua verità, peraltro palese.
Tutto, o quasi tutti, era stato inventato. Assistenti sociali e inquirenti senza scrupoli che, senza uno straccio di prova, hanno ucciso o fatto uccidere (in alcuni casi non solo metaforicamente)  tante famiglie che avevano solo la colpa di vivere un grande degrado.
Pablo Trincia ho ha voluto portare allo scoperto questa incredibile e vergognosa pagina di storia italiania.
Lo ha fatto nello splendido podcast Veleno.
Da qui questa bellissima miniserie tv.
Che vi farà incazzare.
Che vi farà piangere.
Che vi farà pensare.

Più di un mese dall'ultima recensione.
E 14 giorni da quando ho visto questa splendida miniserie. Ero gasato, emozionato, pieno di cose in testa, convinto che c'avrei scritto tantissimo sopra.
Poi, però, oltre al mood davvero basso per quello che mi è successo in famiglia, si è aggiunto un covid davvero pesantissimo.
E l'umore è andato ancora più in basso.
E' il momento di reagire e ricominciare.
Peccato scrivere solo adesso di una cosa così complessa come Veleno.
Perchè oltre al rischio di scrivere meno della metà di quello che avrei scritto potrei anche commettere errori, essere impreciso.
Mi scuso preventivamente per questo, non solo coi lettori, ma anche con le persone eventualmente interessate alla vicenda.

Veleno è una miniserie di Amazon Prime "figlia" di un podcast omonimo andato in onda  - in 8 puntate - negli anni precedenti.
Il podcast è di Pablo Trincia, ex Le Iene.
E' un'inchiesta su un oscuro, terribile e doloroso fatto di nera italiana, ovvero la vicenda dei Diavoli della Bassa Modenese, questo il nome che venne dato ad un manipolo di persone accusate di uno dei più terribili dei crimini, ovvero quello di tremendi abusi verso i propri figli.
L'appellativo "Diavoli", in realtà, non fu casuale, riguardava accuse ancora più pesanti e specifiche.
Messe nere, sacrifici, bambini uccisi da altri bambini, violenze sessuali nei cimiteri.
Di tutto e di più.
Una vicenda incredibile che, in realtà, nasconde una vergognosa pagina italiana.




Emozione, rabbia, dolore, profonde riflessioni.
Durante le 5 puntate della miniserie non c'è stato un solo momento in cui non mi sono sentito profondamente coinvolto.
Quello degli abusi ai minori è un argomento che mi ha sempre interessato molto.
Se poi, come in questo caso, è associato al tema della manipolazione mentale ancora di più.

Alla fine degli anni 90, nella bassa modenese, precisamente nei paesi di Mirandola e Massa Finalese, fu scoperchiato un tremendo vaso di Pandora.
Più famiglie si ritrovarono accusate di abusi contro i propri figli, messe nere sataniche con tanto di sacrifici e altre terribili cose.
Tutto è partito dal disagio di un bambino ("il bambino 0" come si dice in questi casi), figlio di una famiglia con gravissimi problemi finanziari, "adottato" dai vicini di casa, costretto a raccontare cose terribili che poi, tra un'accusa e l'altra, porteranno al coinvolgimento di sempre più bambini, di sempre più famiglie.
Tutto "per colpa" degli assistenti sociali, in particolare quello di Valeria Donati (di cui, ahimè, dovrò dire quel che penso), probabilmente donna in buona fede ma con evidenti problemi d'esperienza nel campo e, se posso permettermi, personali.
Vero, la situazione del bambino 0 era di forte degrado.
Famiglia poverissima, al limite della sopravvivenza.
Probabilmente anche anaffettività, vero.
Probabilmente anche qualche esperienza traumatizzante (ma quanti bambini ne hanno avute?).
Fatto sta che quel bambino ha dei problemi e che la Donati si convince che ci siano state delle molestie. Da lì partirà uno tsunami incredibile che travolgerà tutto e tutti.

Degrado, ecco, forse la parola che meglio racconta Veleno è questa.
Degrado morale, degrado fisico, degrado strutturale, degrado statale.
Una storia di persone poverissime uccise dalle istituzioni.
Tutto viene raccontato nella serie in più modi, sostanzialmente tre.
Attraverso degli agghiaccianti filmati dell'epoca, specie quelli delle registrazioni degli "interrogatori" (colloqui) ai bambini.
Delle ricostruzioni di fiction (quelle tipiche dei docufilm per capirsi) che raccontano - tramite attori - come andarono le vicende al tempo, sia quelle reali (come ad esempio le perquisizioni) che quelle immaginarie (come i racconti delle messe nere).
E poi l'oggi, ovvero l'inchiesta fatta da Trincia e dalla sua collega Rafanelli.

Se devo trovare un piccolo difetto a Veleno è solo in questa parte.
Trincia mostra sì cose che ha fatto realmente (le indagini, lo studio del materiale, i contatti e gli incontri coi protagonisti) ma, non avendo filmati di tutti quei momenti, li "reinterpreta" adesso.
Una piccola opera di finzione che avrei evitato.
Vero che dà ritmo alla serie, vero che "vedere" le cose che una voce solo può raccontare è sempre preferibile, ma immaginarsi Trincia che "rifà sè stesso" un pochino fa storcere il naso.

Madonna, mi accorgo adesso che pur ricordandomi poco della visione le cose da dire sono un'infinità, e non ho nemmeno cominciato (meno male il block notes...).
E siccome non ho ormai la forza mentale per fare un discorso ampio e strutturato credo che l'unico modo per scrivere questo post siano delle considerazioni sparse

- I filmati degli incontri coi bambini fanno veramente male. Sarà la grana dell'immagine, sarà aver visto qualche film sull'argomento, sarà quell'atmosfera da found footage ma, davvero, sembra quasi di ritrovarsi in un film del terrore. Ma, immagini e contesto a parte, fa veramente specie e sconcerto il contenuto degli incontri.
Qualsiasi persona senziente, oggettiva e in buonafede avrebbe capito che quelle dichiarazioni non fossero spontanee nè veritiere.
Quando un bambino di 6-7 anni ti dice che "uccideva altri 5 bambini a settimana" hai la prova provata di come quel povero ragazzino sia ormai entrato in un mondo immaginario di mostri completamente inventato. E' incredibile come delle dichiarazioni così dolorosamente fantozziane abbiano potuto portare all'arresto e alla rovina di decine di persone




- Veleno ha il merito di porre l'attenzione in un mondo che, diavoli inventati a parte, è purtroppo diffusissimo e quasi sempre nascosto. Mi riferisco a quello della povertà, etica, morale o monetaria, di tantissime famiglie italiane. A quanti bambini crescano senza agi, con poco affetto e in situazioni di grande indigenza. Bambini magari insospettabili di famiglie insospettabili. Sono migliaia, milioni. 
Ma queste povere famiglie raccontate in Veleno, oltre a tutti i problemi che già avevano, sono state pugnalate ovunque, nell'affetto, nella dignità, nella speranza. Vedere questi genitori adesso 40enni/50enni, vedere i loro occhi, ti mette una grandissima tristezza. E forse la sensazione più forte che ti lascia questa miniserie è che c'erano persone meravigliose considerate invece dei mostri e persone considerate meravigliose per quello che stavano facendo comportarsi invece in modo mostruoso.
Sì, i mostri, semmai, erano dalla parte dei presunti buoni

- Questa vicenda non ha solo seminato dolore, rabbia, ingiustizia.
Ma ha portato via più d'una vita.
Quella splendida madre suicida per aver perso la figlia ti distrugge.
L'ha cresciuta da sola, era un tutt'uno con lei, una viveva per l'altra.
E quei farabutti si sono permessi di portargliela via, senza un grammo di prova.
Capisco il suo dolore, capisco il suo suicidio.
Fa male, tanto
Non parliamo del parroco, un parroco amato da tutti, anticonformista, buono, intraprendente.
Anche lui, dal nulla, accusato di cose che definirle ridicole è poco.
Un intero paese a difenderlo, nessuno che crede a quelle voci.
Nemmeno questo basta, anche senza una prova, anche con centinaia di persone che testimoniano il contrario, basta un racconto messo in bocca a un bambino per far di quel prete un mostro.
Anche lui pagherà con la vita tutto questo.
E poi ancora un altro brav'uomo, anche lui morto di infarto per le accuse infamanti.
E' vero, tutti i protagonisti di Veleno in qualche modo sono stati uccisi.
Alcuni, però, non solo metaforicamente

9.7.22

Al mio babbo, agli imbecilli e alla vita puttana

 

Il mio amato babbo se ne è andato.
Scrivo questo post intorno ai miei amici, a casa mia, col babbo in mezzo tra noi.
Sembrerà inopportuno ma questo è il momento per scrivere, queste ultime ore insieme a lui e con amici fantastici, non avrei un'altra occasione e non me ne frega niente di quello che pensa la gente.
Il mio babbo è morto per un tumore al polmone.
Una coincidenza incredibile!
Sì perchè da 40 anni gli dicevo che sarebbe morto così, e incredibilmente c'ho preso.
Ma la realtà è un'altra.
Mio padre fumava da 60 anni milioni di sigarette.
Un imbecille.
Era ovvio finisse così.
Perchè chi fuma così tanto è un imbecille.
Imbecille perchè si uccide lentamente, perchè mette la sua vita in mano alla sorte.
Ma non imbecille per questo, perchè tutti abbiamo delle dipendenze.
Imbecille perchè fumare sigarette non serve a NIENTE, se non a uccidersi.
E' un gesto bruttissimo da vedere (non siamo più dentro ai film americani degli anni 50), puzzate sia dentro che fuori, non vi serve a nulla e in più vi uccidete.
E siete talmente imbecilli che mi dite "Mia zia ha 95 anni e fuma da 80. E sta benissimo"
O altre cazzate così.
Ridicoli.
Prendete per esempio chi non si è ammalato e dite che il fumo non fa male, se deve succedere succede.
No, fumando migliaia di sigarette vi state mettendo in una fune con sotto un abisso.
E stigrancazzi se in fondo alla fune ci arrivano in tanti, e anche sani.
Perchè salirci?
Perchè aumentare di decine di volte il rischio di morire in un modo così inumano, terribile e devastante come il babbo?
Ma perchè piuttosto non vi drogate pesante, eroina, cocaina.
Almeno tutto avrebbe un senso, la disperazione e lo sballo che sia.
O perchè non vi alcoolizzate?
Almeno anche qua un senso ci sarebbe, il gusto della birra, del superalcoolico, del vino.
O la disperazione, anche qua.
Ma fumando vi uccidete per nulla, per un vizio subdolo, inutile, che vi rilassa, che fate per status quo. Per una dipendenza da una cosa con un sapore terribile che decide di preferire alla vostra vita.
Porca puttana non vi capirò mai, morite di continuo per una cosa così imbecille.
E la rabbia, e il dolore che ho addosso adesso col mi babbo qui freddo vicino a me è troppo forte, e ste cose devo dirle.

Babbo, abbiamo litigato così tante volte.
Così tante volte mi hai fatto sentire inadatto a fare le cose, anche le più sceme.
Per questo errore comune dei genitori che pensano di far bene il loro ruolo se ti dicono come fare le cose, facendoti sentire sempre sbagliato te a farle.
Non è questo fare il genitore.
O il tuo essere tremendamente antisportivo.
O il tuo voler sempre cercare di fregare le compagnie telefoniche o televisive, la tua furbizia.
Tanti difetti, che ho sempre odiato.
Sembravi arrogante a volte ma in realtà eri una persona profondamente insicura di sè, umile, consapevole di alcune sue mancanze, culturali o genitoriali.
Perchè, diciamocelo, non hai potuto fare del tutto il padre, eri quasi usurpato.
E chissà quanto t'ha fatto male sta cosa babbo.
Eppure hai cresciuto insieme a quell'altro essere umano assurdo che è la mamma quattro figli profondamente buoni, stimati quasi da tutti.
E la nostra casa, la tua casa, è diventata la casa di tutto il paese.
Ho sempre temuto che te ne saresti andato e io non avrei fatto in tempo a dirti quanto ti voglio bene.
E invece sta notizia del tumore ci ha fatto vivere dei mesi bellissimi, spesso insieme, a mangiare, a scherzare, ad abbracciarci continuamente.
Abbiamo fatto in tempo a dimostrarci tutto quello che non avevamo mai avuto il coraggio di fare.
Fino a questi ultimi devastanti ultimi 10 giorni.
Devastanti.
Potrei scrivere cose fortissime che ho vissuto con te in ospedale ma questo è un post di rabbia verso chi fuma e di ricordo di te, non voglio dare un peso così grande a chi legge.
Perchè se dicessi alcune cose sono convinto che tutta la gente sensibilissima che legge qua dentro si farebbe male.
E allora le tengo per me.
Sono intime, eppure gigantesche.
Il gigantesco è spesso nell'intimo.
Le due cose più gigantesche che ho vissuto sono state in un ospedale.
La nascita della mia Ginevra, un momento assoluto, perfetto, sovrumano che mi ha annichilito.
E ora questi 10 giorni con te.
Ospedale e ospedale.
La nascita della vita e il lento accompagnamento, cosciente e inesorabile, alla morte.
Ma del resto come possono esserci cose più gigantesche della vita e della morte?
Sti 10 giorni non me li toglierò mai dalla testa, quei 4-5 momenti che abbiamo vissuto (e che hai vissuto probabilmente insieme ai miei splendidi fratelli) non se ne andranno più via.
Non mi faranno dormire la notte.
Ma questo accompagnamento alla morte è la cosa più colma di vita che ho mai vissuto, quella che più me ne ha fatto capire la grandezza.
E chiudo questo post di dolore e rabbia mentre nel frattempo qualche amico se ne è andato via.
Un abbraccio, un "Peppe, che scrivi?", e via.
Domani sarà il primo giorno senza di te.
Sopravvivremo, assolutamente.
E visto quello che stavi vivendo questi giorni saremo anche sollevati.
E ora andrò a letto senza probabilmente avere il coraggio di riguardarti ancora, volgendo lo sguardo altrove.
E sai babbo, se 10, 100, 1000 o 10000 persone leggeranno queste righe, e se solo una smetterà di fumare per questo, ecco, è merito tuo.
Un imbecille in meno, una persona in più che ha possibilità di non finire come sei finito tu.
Tu che hai avuto un comportamento perfetto quando hai saputo cosa ti ha colpito. Hai pianto, ti sei disperato, ma lo hai accettato, con una dignità e una onestà intellettuale straordinaria.
Che tutti dovrebbero copiarti.
Ti voglio bene.

25.6.22

Recensione: "Hatching - La forma del Male"

 

Hatching è un gran bel film finlandese, metaforicamente eccezionale, che si spera arriverà presto anche nelle nostre sale.
Una famiglia perfetta in un quartiere perfetto.
Una perfezione ostentata, ipocrita, mostrata su tutti i social.
In realtà abbiamo una madre terribile, un padre inetto, un figlio già incattivito e una meravigliosa 12enne, la nostra protagonista, costretta a subire tutti i traumi possibili che una madre può causare ai propri figli.
Un giorno, però, Alli trova un uovo, un uovo nato da un corvo morto (la madre glielo aveva ucciso davanti).
Inizia a custodirlo, a "covarlo".
Quell'uovo genera una creatura apparentemente mostruosa ma che, forse, rappresenta quealcos'altro.
Hatching non è un capolavoro, la sua parte horror e di effetti speciali lo depotenzia.
Ma sotto ha tanto, davvero tanto.
E può diventare un film metafora dell'adolescenza come ne ho visti pochi questi anni

presenti spoiler

 La cinematografia finlandese è piccola ma, a ben cercare, sempre pronta a regalare qualche perla.
Hatching non sarà a livello dei film più belli arrivati da lassù (a memoria direi Sauna ed Euthanizer in questi ultimi anni) ma resta una di quelle pellicole che sicuramente restano impresse e provano, seppur con qualche incertezza, a raccontare qualcosa di importante.
E' buffo come io abbia sempre paragonato l'età dell'adolescenza ad una crisalide, un'età di passaggio e di trasformazione che ti fa passare (normalmente, poi le eccezioni sono duemila) dal bambino che eri all'adulto che sarai.
Ecco che mai come prima questa metafora me la sono ritrovata in questo film, Hatching (il titolo inglese ricorda proprio lo schiudersi delle uova).
Film sicuramente bello da vedere ma che forse, a conti fatti, trovo più importante che bello, più interessante che bello.
Insomma, quello che racconta, e il modo in cui lo fa (simbolicamente e non) secondo me lo elevano.


Le prime inquadrature ci mostrano un quartiere bellissimo, luminoso, colorato, perfetto.
E una famiglia altrettanto bellissima, colorata e perfetta.
Passiamo da un drone a telecamerine casalinghe.
Tutta questa perfezione non solo è manifesta ma anche "voluta" visto che la famiglia in questione tiene una specie di blog/profilo instagram dove racconta la propria invidiabile vita, spazio gestito dall'insopportabile madre.
Non serve uno spettatore membro del Mensa per capire che la realtà che sta sotto è  - e sarà - parecchio diversa.
A dir la verità è lo stesso film ad urlarcelo contro sin da subito sia con la colonna sonora "argentiana" che accompagna i primi minuti sia con una scena inquietante che arriva dopo pochissimo, quella in cui la madre spezza il collo del corvo.
La figlia - una meravigliosa 12enne con la quale empatizzerete tantissimo, o almeno per me è stato così - rimane talmente scioccata da quel gesto da - almeno nella mia lettura - abbandonare l'infanzia da quel momento esatto.
E per sempre.
Ne nascerà un film che - come dicevo prima - diventa molto più bello e importante se letto in chiava metaforica, a prescindere dalle sfumature diverse che ognuno di noi potrà dare.
Prima di addentrarmi nella mia personale lettura analizzo il film più in superficie, tra pregi e difetti.

20.6.22

Recensione: "Black Phone"


Sono mesi che vedo pochissimi film (uno a settimana di media).
E spesso manco ne scrivo.
Recuperiamo qualcosa del tempo perso con l'ultimo film visto, 
un horror adesso nelle sale, Black Phone.
Buono, per tanti molto buono.
Niente per cui impazzire ma la conferma che Derrickson - tra i mestieranti -  è uno dei migliori (certo Eggers, Aster e Peele sono un'altra cosa...).
Il problema, semmai, è che ricorda per tantissimi aspetti un suo vecchio grande successo, Sinister.
La storia della classica cittadina americana dove cominciano a sparire bambini.
La polizia brancola nel buio ma una bambina con sogni premonitori li porta nella strada giusta.
Sono vittime de Il Rapace, un uomo-mostro.
Una prigione, un telefono nero che, forse, rappresenta la speranza.
Un telefono nero grazie al quale combattere tutti insieme


PRESENTI SPOILER

Ora, lo ammetto, non ricordo perfettamente Sinister (gran bel horror, non eccezionale ma tra quelli da multisala di questo ultimo decennio sicuramente tra i migliori) ma più guardavo Black Phone (adesso al cinema) più me dicevo "cazzo, ma sta cosa l'ho già vista!" e ogni volta il "già vista" era riferita a Sinister.
Derrickson è bravo, il suo (quasi) debutto con L'esorcismo di Emily Rose era veramente bello e Sinister, come detto, pure.
Buffo come si barcameni esattamente a metà tra gli horror e i blockbuster sci-fi a conferma che probabilmente non sia un grandissimo autore ma sicuramente uno "solido" che fa il suo dovere al meglio.
Questo Black Phone non ha, preso pezzo per pezzo, un solo aspetto che lo renda originale ma in qualche modo, unendoli tutti sti pezzi, alla fine un proprio carattere lo tira fuori.

Siamo a fine anni 70 e abbiamo la classica cittadina americana dove iniziano a sparire regazzini una settimana sì e una no.
Nessuno, tranne una bambina che ha sogni premonitori, sa che a far questo è un mezzo matto, uno che sembra vestito da Babadook ma va in giro coi palloncini (neri) tipo It.
The Grabber (il Rapace) lo chiamano.

Film horror solido, che se inviti gli amici a venire al cinema o lo consigli non sbagli.
L'ambientazione retrò è sempre ben gradita, la location col quartierino co le case a schiera e coi pratini belli alla Halloween pure, la regia e la fotografie pulite.
In realtà quando uno guarda Black Phone percepisce "soltanto" il film di genere ma, se riflette un attimo, capisce che in realtà l'operazione voleva far di più.
Andando a scavare infatti questo è un film con profonde velleità, ad esempio nel raccontare questo mondo di ragazzini con pessimi genitori o che sembrano vivere in un mondo senza adulti (pensiamo ad una fusione tra Stand by me e It Follows ad esempio).
E proprio in questa cornice di profonda empatia-legame tra adolescenti si instaura la parte sovrannaturale del film, quella legata al telefono nero di cui il titolo.
Quel telefono è come se fosse un portale in cui tutti questi bambini rapiti e poi uccisi riescano a parlare tra loro e, tutti insieme, sconfiggere il mostro.
Sulla carta è un'idea bella, importante e potenzialmente commovente (l'idea che bambini morti comunichino e aiutino quello ancora vivo a sopravvivere poteva essere davvero forte ad emozioni) ma il film purtroppo non riesce a creare la giusta empatia verso questi ragazzi, non riesce a trasmetterci la potenza del messaggio.
Anzi, paradossalmente, tutte le scene del telefono nero, quelle sovrannaturali, ci sembrano pure scene "horror" (lo metto tra virgolette perchè non c'è mai la sensazione di pericolo) che rischiano addirittura di rovinare il film.
Quindi grande idea il telefono nero (metaforico più volte, può essere anche visto come quel telefono che bambini abusati vorrebbero/potrebbero usare per salvarsi) ma gestita non benissimo.
In realtà quel telefono non è l'unico "non-luogo" tra due mondi.
C'è anche quello dei sogni della bambina, sogni in cui vede chiaramente cose realmente successe (però che la polizia americana per risolvere un caso di un serial killer si affidi totalmente ai sogni di una bambini di 10 anni è fantascienza).
Insomma, Derrickson gioca tra realtà e immaginazione in due modi diversi e il risultato è più che discreto.


I problemi sono due.
Intanto alcune cose davvero poco credibili.
Ho già citato quello della polizia che si affida alla bambina ma gli errori più grandi di scrittura sono altrove.
Finney per salvarsi tenterà 3 strade, ognuna delle quali consigliatagli dai 3 bambini morti prima di lui. E se per quella del congelatore ok, vediamo che è finita là e non ci sono speranze, è veramente incredibile come il film "dimentichi" totalmente le altre due quando, in realtà, sembrava stessero andando molto bene.
Per prima la strada della buca in terra alla "Le Ali della libertà", buca che procede molto bene ma che Finney abbandona, non sappiamo perchè (bastava farci vedere che trovava il cemento, che ne so).
Poi l'ancor più incredibile possibilità dalla finestra.
Dopo tanti tentativi e una genialata alla MacGyver (quella del filo attraverso il tappeto) il bambino riesce nella cosa più difficile e decisiva, ovvero scardinare completamente le sbarre di ferro.
Adesso ha solo il vetro a separarlo dalla salvezza.

6.6.22

Recensione: "Shiva Baby" - Rocco's House - 4 - su Mubi

 

Una deliziosa commedia ebraica, diretta da una giovane regista.
La storia di Danielle, universitaria ancora in balia del "che farò nella vita", e della sua partecipazione ad uno shiva, un funerale ebraico.
Danielle adesso ha uno sugar daddy (un uomo più grande che gli fa regalini in cambio di sesso) e nel passato ha avuto una ragazza (femmina).
 Se li ritrova entrambi al funerale.
Ne nasce una commedia dai dialoghi sferzanti e dalle situazioni imbarazzanti.
Ma il miracolo di Shiva Baby è che a tratti l'atmosfera si fa talmente opprimente e psicologicamente difficile da far oscillare questo film tra il divertente e l'angosciante.
Ci ritroverete addirittura sfumature di "madre!" e lo amerà sicuramente chi, come me, ha amato quel gioiello di Krisha.
Da vedere, subito

  Dopo un'infinità di tempo siamo riusciti finalmente a fare una "Rocco's House", ovvero vedere un film a casa de Rocco.
In realtà questi mesi ci siamo visti sempre, anche a casa sua, ma birillo o baralla (umbrismo per "in un modo o nell'altro") alla fine niente film.
Che poi di solito i film a casa de Rocco saltavano sempre per problemi esterni (mancanza cavo hd, internet sconnesso, madonne varie) tanto che crediamo fermamente che quel luogo sia una specie de Fossa delle Marianne della tecnologia.
Ma ora Rocco ha fatto Mubi (bellissimo!) e quindi a meno che la rete non c'abbandona abbiamo risolto.
Ho scelto io il film perchè consigliatomi più volte.
Facevano bene.
A consigliarlo dico.

Shiva Baby è un film delizioso, uno di quelli che ti senti di consigliare veramente a tutti.
A chi vuole un film leggero, a chi ne vuole uno intelligente, a chi uno spensierato, a chi uno autoriale con dentro parecchie tematiche.
Scrittura formidabile nei dialoghi, protagonisti amabili, un'atmosfera incredibilmente a metà tra il divertimento e la tensione, una cornice - quella del mondo ebraico - che regala sempre chicche umoristiche.
Insomma, un piccolo film di una giovane regista donna di cui molto probabilmente vi innamorerete (del film dico, non di lei, anche se pure lei è una bellissima ragazza).


Danielle è una studentessa arrivata a quel bivio nel quale è difficile capire quale sarà il proprio futuro.
Per tirar su qualche soldo accetta di avere uno "sugar daddy", ovvero un uomo più grande di lei che gli dà soldi e regalini in cambio di sesso (bellissimo - e quasi inquietante nei primi secondi con lei che gli dice "daddy" -  l'incipit).
Pochi minuti dopo un loro incontro sessuale Danielle va con i suoi genitori ad uno shiva (funerale ebraico) .
Destino vuole che arrivi là (con moglie e figlioletto) lo stesso sugar daddy e pure la vecchia ragazza di Danielle, Maya (la nostra protagonista è bisessuale).
L'aria si fa pesantissima.

Film quindi in unità di tempo e - praticamente - anche di luogo, una di quelle tipologie di soggetto che adoro davvero.
Shiva Baby ha dalla sua una protagonista eccezionale, Rachel Sennott, un vero viso da cinema. Sensuale quanto basta senza essere bellissima, intelligente, divertente, ironica, stronza, vendicativa.
Un personaggio perfetto.
Le commedie di ambientazione ebraica sono sempre un passo avanti e, se ci fate caso, di solito a girarle - prendendo per primi in giro gli ebrei - sono registi anch'essi ebrei.
Questo perchè questi film raccontano usanze, convenzioni, modi di fare e peculiarità talmente particolari che solo uno che conosce benissimo quel mondo può raccontare.
Quasi sempre c'è tantissima (auto)ironia, quasi sempre ci ritroviamo questi personaggi "imprigionati" in tradizioni secolari che, però, nel mondo moderno, sembrano così superate ed anacronistiche.

4.6.22

La buffa storia della partita tra Passaro e Rune, quando traiettorie (quasi) impossibili della vita si incrociano

 

Sono passati meno di due mesi.
Era il 9 Aprile e nel bel challenger di SanRemo (i challenger sono tornei di tennis di un circuito minore, diciamo giocati perlopiù dai giocatori tra il numero 100 e il 200) si ritrovano in finale due giocatori che già all'epoca, ma adesso con ancor maggior clamore, non "c'entravano niente l'uno con l'altro".
Da una parte Rune, giovanotto danese all'epoca nemmeno 19enne, dall'altra "un frego de Perugia", uno sconosciuto ragazzo della mia città, Francesco Passaro.
Non si sa come i due possano essere lì, in quella partita.
Uno è un giovane molto rampante (all'epoca 90 del mondo), l'altro un perfetto signor nessuno, 500 del mondo.
La finale in quel Challenger è per Rune il minimo sindacale, è già strano che un giocatore così lanciato e forte si sia iscritto a un piccolo challenger italiano.
Passaro, invece, ha compiuto un autentico miracolo sportivo per arrivarci a quella finale.
Viene dalle qualificazioni (per capirsi non aveva la classifica nemmeno per entrare nel tabellone di quel torneo) dove ha fatto fuori, tra gli altri, un ex top ten mondiale, giocatore magnifico ma pazzo, talentuosissimo ma senza testa per il tennis, il lettone Gulbis, uno nato coi miliardi sotto il culo (suo padre è un milionario) e che quasi per divertimento è arrivato quasi al top del mondo.
Passaro arriva alla finale massacrando tutti, in semifinale addirittura 6-1 6-1 a Mager, uno che da ormai tanti anni è tra i più forti giocatori italiani (in questo momento è il numero 6 d'Italia).
Ok, Passaro ha devastato ma adesso incontra uno, Rune, che dovrebbe batterlo con la sinistra in 45 minuti.
Però accade una cosa stranissima, quasi unica nel tennis.
La settimana successiva inizia il Master 1000 di Montecarlo, uno dei tornei sulla terra più importanti di tutti.
Rune è iscritto.
Deve fare le qualificazioni (ai Master 1000 sono in tabellone i primi 60, circa, e lui in quel momento era 90).
E c'è poco da fare, le qualificazioni cominciano di sabato.
Ma Rune il sabato ha la finale a Sanremo con Passaro.
Mi accorgo di questa cosa il giorno prima e dico ai miei amici "lo so, vi sembro folle ma scommettere la vittoria del 500 del mondo contro il 90, perchè quello dopo 5 ore ha un'altra partita in un altro torneo".
Io, in ogni caso, scommetto (mai più di 5 euro).
Per andargli incontro gli organizzatori decidono di anticipare la finale di Sanremo alle 11 di mattina.
Poi, Rune, dovrà essere alle 17 a Montecarlo a giocarsi una partita ben più importante di quella finale.
Sta di fatto che sono libero e quella partita posso vederla.
Giocare a tennis sapendo che dopo 4-5 ore devi prendere una macchina o un treno per fare un'altra partita da un'altra parte è quasi impossibile.
Rune ha una sola possibilità, sparare tutto, fare in fretta.
E così fa.
Bum, bum, bum, bum e Rune fa suo il primo set 6-1.
Sapevo che sarebbe successo questo ma sapevo anche che quando spari tutto o vinci presto o perdi presto (per questo la mia scommessa, anche con gli amici).
E infatti il secondo set, con un Rune che stava solo pensando al viaggio per Montecarlo, succede l'opposto.
Il danese ha fretta, è nervoso, ma le palle entrano poco.
6-2 per Passaro.
Ormai è andata, mi dico.
E infatti il terzo decisivo set stessa cosa, Rune non può perder tempo a lottare.
Passaro si ritrova 4-2.
Alla sua prima finale.
Da numero 500 del mondo contro il numero 90 che, spoiler (ci arrivo tra poco), nei due mesi successivi dimostrerà di essere già un campione.
Ma ecco che arriva quelle cosa che ogni tennista conosce benissimo, la paura di vincere.
E niente, a Passaro non entra più una palla. Ha davanti un avversario che vuole solo andare a fare la doccia e andarsene via da quel torneino e invece niente, Passaro sbaglia tutto.
Da 4-2 e servizio a 4-6.
Rune vince (e adesso visto quello che è diventato ricordarselo vincitore due mesi fa al torneo di Sanremo fa ridere), prende una macchina al volo e arriva - presumo - un'ora prima del match a Montecarlo.
E che fa?
Batte facilmente Albot, poi il giorno dopo ancora un altro giocatore e poi arriva pure al secondo turno dove perde una partita lottatissima (7-6 7-5) con Ruud, sì, il giocatore che domani sfida Nadal nella finale del Roland Garros.
Tre giorni prima Rune era lì a perdere con "un frego di Perugia" e ora era lì, al top, a sfiorare di battere il numero 8 del mondo.
Ma se ho voluto riportare qua questa minima e buffa storia è perchè quella partita "impossibile" per certi versi è stato il momento in cui sono veramente cominciate le carriere di entrambi i nostri due protagonisti.
Rune, che rischiò di perdere col numero 500 del mondo, da lì in poi esploderà.
Vince tantissimo, pure un torneo grande (Monaco), batte il numero 3 del mondo Zverev, batte al Roland Garros il numero 4 del mondo Tsitsipas e il numero 13 Shapovalov.
Lunedì sarà 28 del mondo, tra due lunedì addirittura nei 25.
Ma Passaro, molti piani più in basso, farà la stessa cosa.
Di lì in poi anche lui esplode (quando giochi alla pari del numero 90 del mondo - che sarà addirittura 28 un mese dopo - capisci che allora sei un giocatore vero) vincendo il torneo di prequalifiche al Master di Roma e facendo anche una gran figura al primo turno col 20 del mondo Garin.
Ma se ho deciso di fare questo post è perchè un'ora fa Francesco, mio concittadino, giocatore di un circolo a 5 minuti da casa mia, ha battuto e quasi preso a pallate Munar, 90 del mondo (ex 50), uno che solo 7 giorni fa portava, addirittura al terzo turno, al quinto set del Roland Garros Schwartzman.
E Passaro è arrivato così alla sua seconda finale dove incontrerà domani (molto probabilmente) nientepopodimeno che Musetti, ovvero uno dei 5 ventenni più forti del mondo e già piccola star (ma attenzione, gioca la semifinale con lo sconosciuto Gigante, un altro ventenne italiano che meriterebbe un capitolo a parte, uno forte davvero).
Ho visto la partita di Francesco e ho capito che sto ragazzo che il 9 aprile si ritrovò in quell'assurdo match forse non c'era arrivato per caso.
Dritto pazzesco, continue discese a rete, palle corte ogni 3 colpi (tanto che oggi l'ho sentito in perugino stretto lamentarsi di farne troppe), un gioco davvero vario con un servizio e un rovescio da migliorare.
Siccome è forse destino che le partite di Passaro diventino piccole e strane storie è successa anche una cosa che io non avevo mai visto in 30 anni che guardo tennis.
Sul 40 pari del 6-5 per Passaro, il tennista perugino colpisce il net con un dritto atomico.
La palla cambia completamente direzione, in senso orizzontale, di metri.
Non bastasse va sulla riga di fondo, match point per Passaro.
L'avversario spagnolo si infuria, giustamente quella traiettoria è impossibile, se la palla devia così tanto orizzontalmente vuol dire che ha preso "sotto" il nastro ed è passata attraverso.
La regia fa vedere alcuni replay e la sensazione è che invece sia tutto regolare.
E che il dritto di Passaro sia così forte da trapassare il nastro, passandogli comunque sopra.
A niente servono le proteste di Munar.
Passaro serve il match point e vince la partita.
E io mi sono ritrovato una piccola lacrima per questa coincidenza assurda.
A pochi minuti dalla fine del match mi ero detto "Giusè, ora te racconti la storia di Passaro e metti come titolo "traiettorie impossibili".
E poi 10 minuti dopo, all'ultimo punto, ecco quella reale traiettoria impossibile, mai vista prima.
Mi sono emozionato per la coincidenza.
E son venuto qua a raccontare questa piccola cosa

31.5.22

Recensione: "Nostalgia"

 

Nostalgia è un grande film, malinconico, emozionante, teso.
La storia di Felice, un 55enne che dopo 40 anni torna a Napoli, la sua città natale, città dalla quale dovette fuggire dopo una terribile vicenda.
Felice torna ma non sembra nemmeno un uomo adulto, piuttosto un bambino che torna a quello che era e a pieni polmoni respira tutti i ricordi di un tempo.
Ma il mondo è andato avanti, sono passati 40 anni, di cose nel Rione Sanità ne sono successe e Felice dovrebbe prenderne atto e, magari, andarsene via.
Ma ormai è impossibile farlo, Napoli è tornata dentro le sue ossa e lì vuole restare.
Ancora una volta grande cinema italiano, di grandi attori, di grandi luoghi e di piccole storie ordinarie che diventano straordinarie, con alcune sequenze che non se ne vanno via.
Come quella di una tinozza e di una vecchia donna nuda, scena talmente bella e talmente simbolica da far parte di ognuno di noi.

GRANDI SPOILER DOPO LA FOTO DI ORESTE (L'UOMO COI CAPELLI BIANCHI)


Era soltanto il mio secondo Martone.
Il primo, Capri-Revolution, mi lasciò un'impressione strana, tanto interessante e particolare per molti versi quanto talmente pieno di cose da darmi l'impressione di non riuscire a tenerle tutte assieme.
Ecco, Nostalgia no, Nostalgia è un film che ho amato tutto e a cui riuscirei a cambiare davvero poco.
Felice è un bel 55enne (il solito spettacoloso Favino i cui sorrisi e i cui occhi mi rapiscono sempre, mortacci sua) che vediamo tornare a Napoli in aereo.
Scopriremo poi che vive a Il Cairo da 40 anni, fuggito dalla sua città natale in seguito ad un episodio che verrà fuori solo a metà film.
A Napoli c'è ancora la sua anzianissima madre.
E tanti tanti ricordi.
Tra i quali quello dell'amico del cuore, più d'un fratello, amico che adesso ha preso una strada molto diversa dalla sua.
Felice vuole incontrarlo, a tutti i costi.

Martone racconta (ancora una volta, come in tutta la sua carriera) la sua Napoli e basterebbe solo quella a far grande il film.
Siamo nel Rione Sanità, uno dei quartieri più popolari e degradati della città (malgrado mi hanno raccontato come, in realtà, questo rione nacque come polo borghese e nobiliare).
E' una Napoli "vecchia", bellissima, fatta di viuzze, mercatini, murales.
Soprattutto nei primissimi minuti del film Martone sfrutta il suo personaggio per aggirarsi in questi vicoli e in mezzo a queste persone (curioso come Felice, probabilmente solo per l'abbigliamento, venga preso sin da subito come uno "di fuori", vedere ad esempio il cameriere che gli fa domande in inglese) facendo calare lo spettatore sin da subito in un contesto tanto affascinante quanto "nervoso" e "stretto", un contesto in cui il personaggio di Felice ci sembra continuamente fuori posto.
In realtà Felice, e questo è un aspetto talmente importante del film da ricavarci fuori quasi una tematica, si sente completamente a suo agio.
La sua felicità ed emozione nell'essere ripiombato (senza che fosse mai tornato prima) nella sua città natale sono talmente forti da nascondere tutto il resto.
E questo sarà il mood, quasi commovente, dell'intero film, ovvero quello di un 55enne che, appena messo piede a Napoli, torna il 15 enne di allora.
E tutto per lui è bello, e tutto è "facile", e tutto può essere risolto col sorriso.
In realtà tutto ora è diverso, Felice si ritrova invischiato in una storia criminosa, tutti provano a dirgli di andarsene (un pò come Capuano al giovane Sorrentino in E' stata la mano di Dio, film che più volte mi è tornato in mente qua) ma lui non si rende assolutamente conto di quello che sta accadendo, come se rifiutasse la vita adulta (o quantomeno rifiutasse il sè adulto di adesso a Napoli).
Lui è ripiombato nei suoi ricordi, lui non ha vissuto quei 40 anni di Rione Sanità.
E l'errore più grande che farà è pensare che il tempo si sia fermato, che quello che si era un tempo si è anche adesso.


Nostalgia ha un grande merito, ovvero quello di raccontare una storia bellissima (non a caso è un romanzo).
Un 55enne che torna a Napoli dopo 40 anni (c'è una cura sul linguaggio di Favino su cui tornerò), una madre da ritrovare ed accudire, un ricordo terribile che piano piano torna fuori, la vita parallela di un amico adesso opposto a te.
E' l'esaltazione di quei racconti popolari semplici ma perfetti, con un piccolo intreccio, racconti al tempo stesso ordinari ma con quei 2/3 aspetti che li rendono straordinari (come qualsiasi nostra vita, se solo abbiamo l'occhio e la capacità di coglierli).
E poi grandi attori, e poi una grandissima atmosfera, e poi una Napoli che più la vedo più la amo.
Ho parlato di atmosfera perchè questo film che per larghi tratti sembra una via di mezzo tra un drammatico soft e un malinconico per poi diventare un thriller di altissimo livello.