Il ToHorror è forse il mio festival preferito o quello cui comunque sono più legato, per tanti motivi.
Ne ho fatti 4 ma quest'anno non sono andato.
Ho avuto però la fortuna che l'amica alessandrina Gaia Baruscotti fosse là presente a avesse pure la voglia di scrivere(mi) recensioni (è molto brava).
Devo dire che ha fatto un grandissimo lavoro, è riuscita a vedere ben 8 film (praticamente in soli due giorni) e recensirli anche in maniera parecchio esauriente.
Vi lascio a questo suo bellissimo reportage.
Appuntatevi i titoli perchè spesso film del ToHorror "emergono" poi nel cinema di sopra o diventano comunque cult del sottosuolo.
Buona lettura!
SAYARA
Per quanto non raggiunga gli eccessi truculenti di Baskin, Sayara, ultima fatica di Can Evrol , non è sicuramente per i deboli di cuore. Un po’ Kill Bill, un po’ The Villainess, il film si allontana dagli stilemi dell’horror soprannaturale per avventurarsi nel campo del classico rape and revenge, senza particolari innovazioni ma riempiendo la struttura di denuncia sociale.
La protagonista, immigrata turkmena che dà il titolo al film, lavora come donna delle pulizie in una palestra di Istanbul e cerca di rendersi invisibile agli occhi degli altri. Ma gli allenamenti all’alba in cui dimostra capacità fuori dal normale e le confidenze della sorella Yonca all’amante (e proprietario della palestra) Baris dimostrano che sotto l’apparente anonimato di Sayara è sopita una violenza cieca e primordiale. L’uccisione della sorella e il successivo tentativo di insabbiamento scatenerà una furia dirompente, che consumerà non soltanto gli assassini e i loro complici, ma anche, è il caso di dirlo, Sayara stessa, in una sorta di battesimo del sangue e successiva rinascita.
L’immagine con cui si apre il film, e cioè la Sayara bambina che dà alle fiamme i giochi d’infanzia, è il sunto del film stesso: in un mondo dominato dalla sopraffazione e dal consumismo (di oggetti, di droghe, perfino di persone), “vince”, se si può definire vittoria, chi è più spietato degli altri. Non c’è spazio per l’innocenza, la purezza o altri fardelli di questo tipo. Gli idealisti, come il padre di Sayara che le proibisce di usare la forza di cui è dotata, sono destinati, inevitabilmente, a soccombere. Nella società, sembra volerci dire il regista, si ritrovano, amplificate, le stesse dinamiche della palestra: se qui è necessario allenarsi ogni giorno per essere il migliore e lasciare indietro tutti, nel mondo fuori bisogna perdere quotidianamente un briciolo di umanità e calpestare nella scalata al successo chi ci sta intorno. E non si tratta di un fenomeno ristretto alla sola società turca, e neppure alla società moderna: le radici vanno ricercate nelle generazioni passate, o forse ancora più addietro e nelle profondità della natura umana. Entrambe le figure dei padri presenti nella storia, quello di Sayara, che la istruisce nella pratica delle arti marziali e lascia intendere di averle usate più volte per togliere la vita, e quello di Baris, che, quando quest’ultimo era solo un bambino, aggredisce un uomo reo soltanto di aver fatto ridere di gusto la moglie, sembrano suggerire che gli schemi di comportamento tossici sono ereditari, in un ciclo perpetuo impossibile da scardinare. Le vittime sacrificali della violenza sono, ovviamente, le donne, in particolare quelle immigrate come Sayara e Yonca, e il tema della violenza di genere è qui trattato senza alcuna delicatezza ma mostrato in tutta la sua brutalità (alcune scene, nel loro estremo realismo, sono davvero difficili da guardare senza distogliere lo sguardo). La soluzione, forse eccessivamente semplicistica, è che le donne diventino peggiori dei loro aguzzini, più spietate, più crudeli, in un olocausto catartico di sangue e fuoco.
CONTINENTE
Una ragazza di origine brasiliana, Amanda, immigrata in Francia da bambina, decide di tornare nella fazenda della sua infanzia per poter dare l’ultimo saluto al padre morente, ignorando che il luogo nasconda un terribile segreto. Le premesse di Continente di Davi Pretto non sono certamente originali ma il regista si sforza, con alterne fortune, di rivitalizzarle, immaginando che sia il luogo stesso, nella sua lussureggiante e carnosa vegetazione solo parzialmente addomesticata dall’uomo, a essere infestato dai conflitti sociali e storici, incarnati in corpi che si nutrono a vicenda. Amanda, come ha tentato di fare suo padre, si sforza di mantenere un ordine in un mondo al limite del collasso e del sovvertimento di classe, dove i contadini sono costantemente emarginati, sfruttati e “zombificati” dal lavoro e la cui unica possibilità di sazietà è il cannibalismo. A fare da spettatrice c’è la natura, tanto bella quanto ostile, che amplifica la sensazione di isolamento e straniamento della protagonista, catapultata dalla civilissima Francia ai riti ancestrali della foresta amazzonica. La violenza e la disuguaglianza dovute, entrambe, al capitalismo, dipinti con toni da realismo magico, aprono la porta a immagini e suggestioni simboliche pressoché illimitate che, però, non vengono sfruttate al massimo grado per una certa difficoltà a tenere insieme elementi così complessi e distanti. Il tentativo di creare un mito storico si arena in una serie di scene girate con eccellenza tecnica - il “calvario antropofago” tra padrona e sottoposti e il rapporto sessuale tra il compagno con la dottoressa del villaggio, in una commistione di terrore ed erotismo grottesco - che non trasmettono la forza di un racconto corale di riscatto. Gli abitanti del villaggio e i personaggi secondari sono scarsamente caratterizzati, impedendo allo spettatore di empatizzare con loro e comprenderne i motivi, le intenzioni, gli impulsi dei loro corpi. Inoltre, la lentezza della narrazione, più che mantenere la suspence o permettere una maggiore immersione nella complessità del materiale, genera l’effetto opposto, anche a causa di dialoghi che appaiono un po’ forzati, pur riuscendo a restituire l’idea di una minaccia incombente e pronta a esplodere.
SOLVENT
Chi avrebbe mai detto che mi sarei trovata ad apprezzare un film dove il cattivo, come in un brutto libro dei Piccoli Brividi, è un tubo metallico conficcato nel terreno. Eppure, eccoci qua.
Johannes Grenzfurthner ritorna al genere del mockumentary con Solvent, dove un gruppo di personaggi stralunati capitanati da Holbrook, che registra con una videocamera tutte le sue attività - lavorative e non, viene contattato da Ernst Bartholdi, interpretato dallo stesso regista, per esplorare la casa, chiusa da anni, del nonno defunto alla ricerca di documenti e reperti storici del Terzo Reich. Eh sì, perché il caro vecchietto, mai pentitosi dei suoi misfatti, in gioventù era uno dei comandanti del campo di sterminio di Chelmno, dove i nazisti avevano sperimentato per la prima volta le innovazioni tecniche che avrebbero poi trovato applicazione su larga scala ad Auschwitz. Il tema portante del film è, infatti, il difficile rapporto con il passato e le colpe del proprio Paese, che, inutilmente, vengono rimosse in un inconscio collettivo, qui rappresentato materialmente dallo spazio sottostante la cantina dei vini da cui lo spirito del gerarca riesce a comunicare e possedere i vivi, attraverso il tubo di cui sopra. I traumi, però, se non affrontati, trovano il modo di riemergere prepotentemente e ripetersi, sia a livello personale, visto che Holbrook soffre di disturbo post traumatico per ciò che ha visto e fatto durante la Prima Guerra del Golfo e in Bosnia (dove ha ucciso “soprattutto militari” e comunque “nessuno sotto i quattordici anni”), sia a livello politico e sociale, con la recrudescenza, un po’ ovunque, di movimenti neo-nazisti e, specialmente dopo i fatti del 7 ottobre 2023, antisemiti. Non è certo un caso se la pellicola è stata presentata al grande pubblico nello stesso mese in cui le recenti elezioni nazionali in Austria hanno visto un aumento esponenziale di votanti del partito di estrema destra FPO.
Il film, ambientato nella fattoria e nei dintorni di un sonnacchioso villaggio austriaco di Egelsau, infestato non dagli spiriti dei defunti, bensì da quelli della Storia, è nettamente diviso in due parti: la prima è simile a tanti altri film dove gli youtuber di turno si intrufolano in luoghi abbandonati finché non avviene a tragedia, mentre la seconda è sicuramente più originale e mostra, senza paura di avventurarsi nel campo del body horror e del camp, la discesa nella follia del nostro protagonista e successivo riscatto. Non mancano momenti e personaggi grotteschi, che strappano una risata, non necessariamente a denti stretti, che nulla toglie al clima claustrofobico e malato dell’opera.
Attraverso il costante uso della ripresa in soggettiva, ci immergiamo completamente e senza possibilità di fuga nell’orrore morale e fisico, come se il regista volesse costringerci ad affrontare, volenti o nolenti, ciò che stiamo permettendo, senza renderci conto dei possibili rischi, e ciò che altri, in altri luoghi, in altri tempi, hanno permesso e hanno perpetrato.
Solvent non offre risposte. Siamo noi che, uscendo dal cinema, dobbiamo trovarle.
STEPPENWOLF
Cos’è disposto a fare un lupo per il suo branco? Trovare un cucciolo scomparso (forse).
Brayuk, il “lupo della steppa” che dà il titolo all’opera del prolifico regista kazako Adilkhan Yerzhanov (15 film in 12 anni) è il sadico torturatore con gli occhiali da sole a forma di cuore rosso che la corrotta polizia assolda per costringere i prigionieri a confessare. Il suo branco è ridotto alla sola Tamara, una Madonna dalla pietà e dalla tolleranza alle umiliazioni infinite, una sorta di Santa che neppure i proiettili riescono a colpire o fermare, oltre che giovane affetta da una disabilità intellettiva (o forse traumatizzata da ciò che ha visto e subìto), alla ricerca del suo Timka, sparito durante gli scontri mentre dondolava sull’altalena. Dopo essere sopravvissuto all’assalto dei rivoltosi alla caserma di polizia dove si dilettava a tranciare dita con un ventilatore, il Lupo parte con Tamara alla ricerca del figlio, non prima di essersi fatto promettere un compenso in denaro. Inizia così il viaggio della strana coppia, in un Kazakistan pressoché disabitato e ormai sull’orlo della guerra civile, una sorta di Mad Max in salsa centro-asiatica: quanto più l’uomo è un anti eroe gretto, sgradevole, volgare, violento, lontanissimo dall’eroe senza macchia e senza paura che salva la fanciulla in pericolo, tanto più la donna appare la quintessenza della dolcezza e della purezza, di cui la società avrebbe tanto bisogno. Via via che la storia si dipana, i due personaggi iniziano ad assomigliare sempre più l’uno all’altro e ad aprirsi vicendevolmente; se per Brayuk si tratta ormai dell’ultima opportunità di riscattare una vita spesa male e di vendicare la famiglia trucidata dal signore del crimine Taha che ha rapito lo stesso Timka, per Tamara il viaggio si trasfigura nella ricerca di un significato “altro”, che vada al di là della materialità e che fornisca una spiegazione alla sua sofferenza e a quella degli “agnellini” a cui la donna chiede perdono, pregando, quando si imbatte in un cadavere o Brayuk uccide qualcuno. In poche parole, nella ricerca di Dio, come se le immense distese della steppa fossero pervase da un senso mistico che riscatta ogni possibile bruttura si possa incontrare e subire su questa terra, in un afflato religioso accomunabile a quello di Tarkovskij ne Lo specchio. Entrambi i personaggi sono esseri umani piegati da un destino crudele e imperscrutabile, che trovano consolazione in due elementi diametralmente opposti - nella violenza, il primo, nell’amore pietoso per ogni creatura, la seconda. In tutta la vicenda, gli uomini vengono presentati come crudeli e corrotti, poiché sono stati allevati da adulti altrettanto tossici e feroci (Brayuk, durante la visita alla casa natale, lascia intendere di essere stato abusato dal padre e di non averlo ucciso solo per non far soffrire la madre). Dal momento che questi detengono il potere, hanno plasmato una società a loro immagine e somiglianza. Sono le donne, a cui vengono attribuite tutte le qualità positive della dedizione agli altri, della resilienza, della pacatezza, l’unica possibilità, attraverso la cura di una nuova generazione di figli, di ingentilimento del mondo, ormai sul baratro della disfatta completa.
Questa favola nera di sangue e redenzione è brutale, tesa, nichilista ma qua e là brilla un barlume di speranza, oltre che una sotterranea ironia grottesca che alleggerisce ogni tanto la cupezza del racconto. Dal punto di vista stilistico, la pellicola è forse l’opera più matura di Adilkhan Yerzhanov, che riesce a mescolare sapientemente generi diversi (western, road movie, commedia nera, thriller), recuperando e rendendo propria la lezione dei maestri del passato (uno per tutti, il John Ford di Sentieri selvaggi), il tutto accompagnato da una colonna sonora synth anni ’80, che si sposa perfettamente con l’atmosfera allucinata del film. Tutto, dai protagonisti, ai colori sbiaditi dell’ambiente circostante, alle scelte stilistiche, fino al design dei costumi, concorre a creare una distopia, lontana forse geograficamente ma estremamente vivida e realistica.
Distanti anni luce dalla violenza estetizzata ed edulcorata di John Wick, in un mondo dove homo homini lupus, qualcuno è un po’ meno lupo degli altri.
SO UNREAL
Premetto che ho scelto di vedere questo documentario perché il film che mi interessava maggiormente, e che sarebbe stato proiettato in contemporanea, Ladybug ladybug, è stato tolto dalla programmazione “per ragioni burocratiche”. Non so se sia stata la scelta giusta, visto che al termine di So Unreal di Amanda Kramer mi è sembrato di aver ricevuto un bellissimo pacchetto regalo…vuoto.
La pellicola si presenta come una disamina dell’avvento della realtà virtuale, dei rischi e delle paure a essa associata, fino alla previsione delle forme che potrebbe assumere nell’imminente futuro, il tutto attraverso l’utilizzo di film classici, come The Matrix, o di culto (Tetsuo: the Iron Man), commedie demenziali degli anni ’80 (Weird Science), oscuri film indie, perfino Nirvana del nostro Gabriele Salvatores - in pratica qualunque film tratti, anche solo marginalmente, il tema della tecnologia, l’intelligenza artificiale, l’interconnessione umana resa possibile dalla Rete, le macchine che acquisiscono un’autocoscienza, e chi ne ha più ne metta. Guidati dalla voce sognante di Debbie Harry, veniamo bombardati da una sequenza ininterrotta di film che dovrebbero, insieme con le riflessioni della regista, guidarci nell’interpretazione che ogni epoca storica ha dato del tema enorme (e difficilmente condensabile in un documentario di 90 minuti) del “virtuale”, in ogni sua accezione, e dei pericoli in esso celati. Il risultato è straniante e confusionario, più che chiarificante. Il tema di fondo, se ho ben capito, dovrebbe essere l’inevitabile fusione tra reale e virtuale, sintetizzata dall’immagine dell’hacker, che si muove senza cesure tra i due mondi, piegandoli al suo volere grazie a un’intelligenza e a delle capacità fuori dal comune, vero e proprio uomo del futuro. La pervasività della tecnologia nelle nostre vite, perfino nelle nostre ideologie e nelle nostre religioni (ad un certo punto Dio stesso viene definito “un codice binario”), non viene trattato con paura, o almeno con un certo sospetto, ma anzi con un malcelato entusiasmo per le capacità dell’uomo di travalicare i limiti che la natura gli ha imposto. Al termine dell’opera, la voce narrante si chiede (e ci chiede) quale può essere il futuro del cinema in un futuro non troppo lontano dove chiunque, grazie all’Intelligenza Artificiale e visori sempre più all’avanguardia, potrà creare e vivere la propria avventura - tema che arriva come un fulmine a ciel sereno, non essendo stato neppure alluso nei precedenti capitoli in cui il film è diviso.
Per quanto sia senza dubbio un film affascinante, una sorta di lettera d’amore per il cinema nel complesso e per quello di fantascienza nello specifico, oltre che un immenso compendio di film e di suggestioni da cui i cinefili e gli appassionati di tecnologia possono prendere a piene mani, mi sento di dire che si tratti di un’opera eccessivamente ambiziosa. Non riuscendo a trovare una funzionale via di mezzo, alcune sequenze risultano troppo spesso o eccessivamente dense o eccessivamente superficiali (per esempio l’inserto sul binomio sesso-tecnologia). Come se la voce incorporea e sussurrante di Debbie Harry ci dicesse, al tempo stesso, troppo e troppo poco.
KRAZY HOUSE
“Va tutto bene finché non va tutto storto” potrebbe essere la tagline della fittizia sitcom che dà il titolo al film d’esordio della coppia di registi olandesi Steffen Haars e Flip van del Kuil. Prendendo ispirazione dai classici telefilm degli anni ‘80 e ‘90 come Married with children e Full house, oltre che dei film sulla Guerra Fredda e la cosiddetta “paura rossa”, i protagonisti sono la classica famiglia bianca WASP di estrazione medio-borghese che vive in una villetta a due piani della suburbia: il padre, Bernie Christian (Nick Frost), pasticcione e timorato di Dio, bersaglio delle arrabbiature degli altri famigliari; Eve (Alicia Silverstone), donna in carriera sull’orlo di una crisi di nervi; i due figli Adam, adolescente solitario dedito agli esperimenti scientifici, e Sarah, perennemente impegnata a masticare gomme e a mettersi ombretto azzurro sugli occhi nella speranza di trovare, come le sue compagne di classe, un fidanzato. La padrona di casa, dopo aver inutilmente tentato, a causa dei guai combinati dal marito, di concludere un affare con l’Olanda, vorrebbe soltanto guardare la partita di football tra gli Yankee Saints e i Soviet Devils, ignara che i diabolici russi sono già alla porta: il trio composto dal patriarca Pjotr, dal figlio maggiore amante delle tute Adidas in acetato Dmitri, che sfoggia un irresistibile mullet, e da suo fratello minore Igor, fingendo di riparare un guasto del lavandino, si intrufolerà nella casa e nelle vite dei Christian. Oltre a distruggere ogni singola superficie orizzontale e/o verticale dell’abitazione alla ricerca di qualcosa che, fino al flashback finale, ignoriamo cosa sia, introducono vizi e perversioni nel tranquillo ménage famigliare, fino a quel momento tutto casa e chiesa: Sarah rimane ammaliata (e poi incinta) di Dmitri, Adam incomincerà a usare le sue fiale e i suoi alambicchi per produrre crack da fumare con Igor, Eve avrà un esaurimento nervoso che le farà perdere il lavoro, prima, e a tentare il suicidio, poi. L’unico collante della famiglia al collasso è Bernie stesso, che tenta goffamente di riportare ordine nel caos provocato dai criminali russi, pur essendo perseguitato da visioni di crocifissioni e di stragi che lo porteranno lentamente alla follia, fino ad arrivare a parlare con Gesù stesso.
Il film, in sostanza, è un divertissement in stile Adult Swim non particolarmente raffinato ma senza dubbio riesce nell’intento di parodiare una certa narrativa che, grazie al successo delle sitcom statunitensi, si è imposta un po’ ovunque, e le religioni organizzate, che non riescono a fornire risposte precise alle sofferenze e ai problemi dei fedeli ma solo slogan svuotati di significato. Nella lotta tra i due gruppi di congiunti possiamo vedere in controluce una sorta di replica della Guerra Fredda, dove il terreno di scontro non è il mondo intero bensì la dimora dei Christian, ma anche, più prosaicamente, due diverse concezioni di famiglia e di ciò che si è disposti a fare per proteggerla. I limiti del progetto non sono difficili da individuare: una certa ripetizione degli schemi narrativi, un senso dell’ironia nella maggior parte dei casi adolescenziale e demenziale, una ricerca del grottesco esasperata, un aspetto della psiche di Bernie, quello incapace di reagire ai soprusi, che non viene mai davvero affrontato e analizzato. Nonostante questo, è un film impossibile da non amare e vi sfido a non canticchiare la sigla all’uscita del cinema.
ANIMALE
Non so perché Animale, secondo film di della regista franco-algerina Emma Benestan, sia stato scelto come film di chiusura della Settimana della Critica di Cannes. Probabilmente perché rientra in quel filone di film horror girato da donne, come Titane, o perché ricordava un’altra opera cinematografica francese sulla metamorfosi da umano ad animale, Le Règne animal. O forse perché semplicemente volevano proiettare un film dove dopo 15 minuti tutti in sala avevano già capito come si sarebbe svolta e risolta la storia.
La giovane Najma vive e lavora in un allevamento di tori in Camargue, dove, tra le altre cose, si allena per partecipare alla versione non cruenta, ma non per questo meno pericolosa, della corrida, in cui il vincitore deve riuscire a sottrarre al toro un nastro annodato alle corna, ovviamente evitandone i colpi. È un mondo popolato da uomini virili e tutti d’un pezzo, che, nel rapporto con Najma, alternano momenti di protezione a frecciatine per farla sentire inferiore e manchevole. Fanno eccezione il padrone del ranch, Léonard, burbero ma benigno patriarca, amico del padre della protagonista, e il figlio omosessuale di questi, Tony. Dopo aver dimostrato per la prima volta il suo coraggio nell’arena, Najma, al termine di una serata di festeggiamenti, alcool e pasticche, viene sfidata dai colleghi a entrare nel recinto dei tori, dove la giovane perde i sensi per poi risvegliarsi, livida e frastornata, il giorno successivo nel suo letto. Non abbiamo bisogno di vedere i ricordi confusi della ragazza, né tanto meno i flashback della serata di eccessi, per capire cosa sia in realtà accaduto. Riusciamo anche a immaginare chi sia il (o sarebbe meglio dire la) responsabile delle fughe dei tori dai loro recinti e degli omicidi, uno dopo l’altro, dei ragazzi che erano con Najma la sera del fattaccio. E ci è anche chiaro cosa stia succedendo alla psiche e al corpo della protagonista, quando questa inizia a immedesimarsi e a sentire il dolore dei tori, oltre che ad accorgersi che le dita dei piedi si stanno fondendo tra loro e sulla schiena sta crescendo una folta pelliccia nera.
La macchina da presa è fluida e agile nel riprendere i cavalieri e le gare sportive, riuscendo a essere intima e riflessiva quando le circostanze lo richiedano, in particolare nel modo in cui sono rappresentati i tori, animali maestosi e potenti ma anche, allo stesso tempo, vittime impotenti della brutalità umana. Il parallelismo tra il modo in cui queste creature vengono trattate e la costrizione delle donne in uno stato di inferiorità è lampante. Najma si trova a passare le sue giornate in un mondo completamente dominato dagli uomini: il suo capo è maschio, i suoi colleghi sono maschi, i suoi amici sono maschi, perfino gli animali che alleva sono maschi. La sua presenza è, se non apertamente osteggiata, magnanimamente tollerata. Una possibilità di riscatto è costituita dallo sport, ma anche in questo caso Najma non incontra un sostegno incondizionato né dalla madre, che le dice di fare attenzione alle cornate al basso ventre che potrebbero renderla sterile, né dal collega che le dice che è stata brava “per essere una ragazza”. Anche questo si rivela un vicolo cieco, perché se perderà non farà che confermare i pregiudizi degli uomini, mentre se vincerà sarà comunque inferiore a loro. Nel microcosmo dove si trova per caso, in un corpo che non ha scelto, Najma, nell’impossibilità di cambiarle, può soltanto giocare la partita secondo regole che altri hanno scelto per lei. Come un toro nell’arena.
ELSE
Avete presente quel meme in cui una ragazza chiede al proprio fidanzato se la amerebbe lo stesso se fosse un verme/un armadio/altro animale o oggetto inanimato? Se la domanda fosse posta ad Anx, il protagonista maschile del film d’esordio di Thibault Emin Else, questi risponderebbe con un sonoro ed entusiastico “Sì”.
Il timido, riservato, germofobico pubblicitario Anx (il cui nome rimanda alle ansie e alle fobie che lo affliggono) conosce a una festa la disinibita e spensierata Cassandra. Quella che avrebbe dovuto essere soltanto la storia di una notte si trasforma in una relazione vera e propria quando i due si ritrovano rinchiusi nell’appartamento di Anx in seguito alla decisione del governo di imporre un lockdown per arginare una misteriosa malattia che fa fondere i malati con gli oggetti, siano essi muri, rocce, tavoli. Rimanere in casa non impedisce di contrarre il morbo, dal momento che basta il gesto più simpatetico e pietoso di cui è capace l’essere umano, cioè guardare negli occhi la persona infetta, e, ovviamente, non esiste cura, se non quella di far muovere il malato ogni 15 minuti. Cosa che Anx non riesce a fare poiché il cellulare su cui aveva impostato il timer si scarica e il perenne blackout in cui è precipitata la città gli impedisce di riaccenderlo, condannando Cassandra a soccombere all’infezione.
Partendo da due esperienze che, in questo momento storico, hanno caratterizzato buona parte dell’umanità, l’innamoramento e il lockdown, qui declinato in salsa Annihilation, la pellicola confeziona un’affascinante, ma talvolta confusa, storia d’amore che trascende il tempo, lo spazio, perfino la forma umana. Gli effetti speciali sono forse l’elemento meglio riuscito dell’opera, riuscendo a trasmettere la sensazione fisica di un corpo animato che si fonde materialmente con uno inanimato, apparendo al tempo stesso umano e alieno, à la Cronenberg. Anche gli ambienti e la forma stessa del film sono metamorfici, passando dal body horror che si sviluppa negli interni della casa all’orrore cosmico che avviluppa il mondo intero, in un caleidoscopio di scelte cromatiche. Si parte dai colori accesi e saturi della commedia romantica, al bianco e nero grafico del noir della Hollywood classica che delinea nettamente le ombre e le luci quando la misteriosa vicina Setsuko conduce Anx fuori dall’appartamento, fino al colore seppia del mondo ormai abitato da bambini accecati dai genitori per evitare il contagio, che ricorda le lande inospitali dello Stalker di Tarkovskij, e ai colori neutri e tenui dell’ultimo incontro tra i due amanti, riferimento a una certa fantascienza intimistica.
La trasformazione in creatura condannata a rimanere ferma mentre la vita scorre davanti agli occhi è la situazione in cui molti, Anx compreso, si trovano quando non affrontano i traumi e le perdite: l’uomo rivela, infatti, a Cassandra che aveva assistito alla lenta agonia della madre, malata di cancro, che, ad un certo punto, era diventata “simile a un oggetto” e, in seguito alla sua morte, si era rinchiuso in casa, divenuta “la sua famiglia”. Ma la vita è continuo mutamento, e, quando questo si arresta, è l’amore, per quanto terribile e pauroso possa apparire, che ci porta a esplorare le profondità del nostro intimo e riemergerne trasfigurati. A volte in un letto.