1.6.18

Recensione: "Cargo" (2018) - Su Netflix

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L'ennesimo buon prodotto Netflix (mai troppo brutti mai belli come gli indipendenti).
Tratto dal famosissimo corto omonimo, Cargo è un film che ha il grande pregio di privilegiare l'aspetto umano a quello spettacolare che il genere (un virus movie post apocalittico) avrebbe potuto suggerire.
Il problema è che proprio in questo pregio nasconde il suo difetto, non riuscendo mai, se non nel finale, veramente ad emozionare o colpire.
Un prodotto molto onesto, da apprezzare

presenti spoiler

In principio ci fu un corto, diventato ormai nel mondo un cult.
Un corto bellissimo tra l'altro, questo



Come mi è successo per Dark/The Silence, anche qui scopro una cosa per caso (accidenti a me che non mi informo mai su nulla).
Cerco la locandina per questo post, ne trovo una molto bella, controllo che i registi siano giusti -lo sono- e la porto qua. Però non vedo il nome di Martin Freeman, non solo l'attore più famoso del film ma anche l'assoluto protagonista. Insomma, controllo meglio e mi accorgo che il poster che avevo preso era del corto, non del film. Solo così, per caso, 2 minuti prima di scrivere, scopro che i registi del lungometraggio sono gli stessi del corto. Meglio, almeno si possono evitare righe su righe a dire "eh, questi hanno preso un gran corto e l'hanno rovinato, stronzi".
No, sono gli stessi registi e quindi in questo senso la nostra anima è in pace, nel bene o nel male hanno fatto tutto da soli.

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Diciamoci la verità, il corto era PERFETTO così com'era ma allo stesso tempo era anche...perfetto per poter diventare film.
Questo perchè comincia in medias res e finisce quasi... in medias res. Tutto quello che c'è stato prima non si sa, tutto quello che verrà dopo neanche, è come se fossero 3,4 sequenze di un film. E questa è una cosa insolita per un corto la cui - di solito- regola aurea è avere un inizio, uno svolgimento e una fine, molto più dei lunghi.
In ogni caso i registi trasportano in questo Cargo tutti gli elementi cardine del corto.
L'incidente identico, la morte della moglie "infetta", lei che lo morde, lui che prende la figlioletta e inizia a cercare un posto dove portarla (visto che ormai è infetto pure lui), addirittura la casetta con la festa di compleanno.
E, se non sbaglio, la bimba si chiama allo stesso modo.
Particolare però che l'elemento che secondo me rese grandissimo il corto (e anche molto commovente), ovvero quella busta di carne messa davanti a lui per non fargli mordere la bimba facendolo guardare sempre avanti, qua nel film SPOILEEEEERRRRR riguarda solo gli ultimi due minuti.
Allora, diciamo subito che Cargo è l'ennesimo buon Original Netflix, come tutti gli altri che ho visto ottimamente confezionato, senza particolati punti deboli, ben recitato ma, è inutile negarlo, lontano dal livello che tante pellicole più indipendenti riescono, per originalità e coraggio, a raggiungere.

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Di sicuro ha un grande pregio, ovvero quello di puntare molto di più sul lato umano che su quello spettacolare. E per essere una produzione Netflix è una gran cosa. Il difetto, però, sta proprio nel pregio, ovvero nel constatare che per quanto il film provi ad emozionare costantemente poche volte raggiunge il suo obbiettivo. Ma non usa troppi mezzucci, è onesto, probabilmente molto sentito dai registi.
Siamo in Australia, c'è stata l'ennesima pandemia, un virus che ha lasciato pochissimi sopravvissuti. Un virus che ha un decorso sempre identico, 48 ore di tempo dal momento dell'infezione a quello della definitiva "trasformazione" (tanto che alla popolazione sono stati forniti orologi per calcolarlo).
In mezzo alle 48 ore convulsioni, mancamenti, etc...
Andy, sua moglie e sua figlia vivono in una chiatta sul fiume. Il cibo comincia a scarseggiare. Ne trovano tanto, di cibo, in una barca. Ma Kay sarà infettata.
Partono le sue 48 ore, dall'inevitabile finale.
Andy, grandissimo compagno e grande padre, starà con lei fino all'ultimissimo momento. Questo gli sarà fatale, anche lui verrà morso. 
Avrà quindi 48 ore per portare sua figlia sulle spalle (il "cargo" del titolo, lui come una nave da trasporto) e trovare qualcuno a cui affidarla.
Alla fine l'idea del corto, semplice ma molto bella, è anche tutta l'architrave del lungo.
Per mettere ciccia nella sceneggiatura e nel minutaggio i registi devono aggiunger cose. E così Cargo diventa un road movie in cui Andy incontrerà più personaggi, in una corsa contro il tempo abbastanza disperata, anche perchè trovare qualcuno nel bush australiano non è facilissimo.
La parte "horror", quella degli zombie, è molto limitata, forse pure troppo. Così limitata che loro, gli zombie, non paiono mai un pericolo ma soltanto dei poveri cristi ormai infetti imprigionati in un limbo, metà umano metà mostro, che li vede vagare senza meta.
Sentono l'odore del sangue, si muovono se sentono rumori ma non hanno alcun intelletto, puro istinto.
Come dicevo Cargo di questa parte più spettacolare o di genere se ne frega privilegiando di gran lunga i rapporti umani.
Quello che viene più sviluppato è certamente quello della famiglia.
Quella di Andy era legatissima e lo rimane anche con solo due componenti, padre e figlia.
Ma il concetto di famiglia è esteso anche al personaggio della piccola aborigena (scappata dal nucleo famigliare e poi, dopo moltissimi sensi di colpa legati alla morte del padre, bisognosa di tornare indietro) e alla famiglia a riva, quella che porterà alla scena forse più forte del film.
Un film di valori, certamente, e che mette a confronto, in quella che è l'altra grande tematica del film, la civiltà "occidentale" (in senso di bianca) e quella aborigena.
Questo grande tema, affatto marginale, risulta un pochino didascalico anche se porta a più di una buona scena (come quella, molto bella, delle parole da insegnare).
Insomma, una dimensione umana e antropologica nettamente preferita a quella di genere e spettacolare.

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Le trovate buone non mancano (le celle con le persone che fanno da esca agli infetti), il sangue gelatina gialla, il tiro al bersaglio (scena completamente sbagliata però, visto che là in messo c'è anche la preziosa bambina, è quasi impossibile colpiscano tutti gli altri e non lei), la bimba che si picchia in testa accordando il dolore fisico a quello dell'anima.
Il film che forse è più richiamato è il meraviglioso The Road ma, bisogna ammetterlo, siamo almeno due spanne sotto, anche solo come atmosfera e fotografia, una cupa, grigia e con cieli plumbei -quella di The Road- questa luminosa e molto più rassicurante.
Lo stesso finale è praticamente identico a The Road ma dove in uno era un falso lieto fine qui, in qualche modo, lo può essere davvero.
Ovviamente molto bello il rapporto tra padre e figlia, rapporto che ricorda quello di Train to Busan anche se nel film coreano, come in Monolith (in quel caso madre-figlio) c'era anche un racconto di "formazione", un saper diventare padre, un riscoprirsi tale. Qua, invece, Andy dovrà sì affrontare problematiche nuove ma quel ruolo lo aveva, e ben forte, da sempre.
Arriviamo alla fine abbastanza soddisfatti, quasi mai sorpresi, quasi mai emozionati e quasi mai impauriti, ma convinti di aver visto un discreto prodotto.
Ed ecco che finalmente il cuore del corto, lui infetto che continua a portare sua figlia avanti (sfruttando l'odore della carne davanti a sè), arriva.
Ed eccola, alla fine, l'emozione tanto aspettata.
Un film onesto, genuino, di grande insegnamento, di grande umanità.
Niente di nuovo sul fronte occidentale, certo, ma da rispettare

6.5 / 7 - - 

2 commenti:

  1. Appena visto.
    Noto con piacere che ne hai parlato e con una certa sorpresa, che nessuno ha commentato.
    Poco da aggiungere alla tua lucida analisi, salvo ringraziarti per la chicca del corto, che colpevolmente non avevo visto prima.
    Sul fatto del tiro a segno allo zombie, ti dico che in un primo momento, considerando le dimensioni della gabbia, l'arma a canna lunga, l'ottica sulla stessa, la dimestichezza del tipo, potrebbe non essere così complicato prendere le prede evitando l'esca (termine orribile, ma questo è).
    In realtà poi mi sono reso conto che non si ha grande idea delle distanze, quindi, tutto può essere ma mi sembra comunque un dettaglio.
    Grande la tua idea di individuare le famiglie del film: quella del protagonista, quella in riva al fiume e quella della bimba aborigena.
    Secondo me ne manca una: quella che in qualche modo cerca di avere il bifolco col fucile (sempre lui).
    Tiene sta ragazza in una sorta di stato di sequestro però credo i suoi sentimenti siano autentici.
    Quando il protagonista dice "una come te avrà fatto innamorare tanti uomini", riferendosi a quando lavorava nella mensa dell'azienda per la quale lavoravano sia il marito che il bifolco, lei risponde "No...Solo uno" riferendosi a lui, il bifolco.
    Inoltre quest'ultimo, oltre a salvare il protagonista da un possibile attacco di uno zombie, lo accetta immediatamente, accoglie lui e la bambina, lo porta a sparare al suo sadico tiro a segno, con fare fraterno o paterno (si mostra paziente nell'insegnare li a sparare e non si arrabbia quando sbaglia mira, sprecando cartucce).
    Insomma, credo che anche lui, orribile villano, sciacallo e violento, sentisse il naturale bisogno di avere una donna, un amico, una bambina (in fondo, seppur accecato dall'ira, rinuncia all'idea di vendicarsi sulla bimba e si abbandona al pianto per la propria perdita).
    Bellissima la tua intuizione sul sotto-messaggio, reale o presunto, sul confronto tra le famiglie bianche e quella aborigena.
    Quest'ultima ci appare come una comunità organizzata, con ruoli precisi che ricordano le civiltà antiche, probabilmente mostrandoci l'unione coesa e organizzata come unica possibilità di salvezza e di futuro.
    Un saluto.

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    Risposte
    1. ciao!

      eh, ormai nel 2020 le recensioni senza commenti sono più d'una, il mondo è andato avanti e commentare nei blog è sempre più raro ;)

      eh, io invece per fortuna avevo visto quel corto (anzi, forse l'avevo pure recensito)

      ricordo poco del film ma sì, la scena che ho contestato del tiro a segno la ricordo. E spero che hai ragione te, ahah

      sì sì, assolutamente, la tua quarta "famiglia" è assolutamente plausibile anche se in questo caso è una autodeterminazione e non un dato di fatto

      molto bella la tua descrizione delle azioni del bifolco, lo rendi motlo umano

      io non ricordo che impressioni ebbi ma credo che se hai scritto tutte queste cose probabilmente in recensione o ne parlo male o non ne parlo affatto ;)

      assolutamente, un pochino quello che è anche il finale di The Road (anche se lì io la speranza non la vedo quasi per niente)

      forse anche in questi giorni che stiamo vivendo questo messaggio di restare uniti, coesi e organizzati è l'unica speranza

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