5.2.25

Il meglio dell'Invisibile, edizione 2024 - 10 film bellissimi non ancora distribuiti in Italia




Terminato il sondaggione sul Miglior Film distribuito in Italia nel 2024 ecco che arriviamo all'ormai classico appuntamento sull'altra faccia della Luna, ovvero il post in cui tanti valorosi e competentissimi amici vi presentano il meglio che potete trovare sul non distribuito, sul non ancora legalmente visibile.
10 bellissimi film, raccontati da 5 voci diverse.
Ovviamente  si spera che tutti questi film possano trovare una distribuzione.
In caso contrario dovrete cercarli in altri modi.



RICCARDO SIMONCINI

THE SUMMER BOOK di Charlie McDowell

Esistono tante storie estive: quelle di amori sbocciati come margherite e poi recise con violenza nel primo giorno di temporale, ma anche quelle di bambini in crescita che nel tempo sospeso delle vacanze decidono di diventare grandi tutto in una volta, in fretta e furia velocizzano esperienze, primi baci, prime innocenze perdute. Esiste anche però un’estate da ricordare, di tragiche cartoline familiari da scolpire e conoscere per la prima volta prima che sia troppo tardi. The Summer Book recupera e integra tutti questi orizzonti intimisti: un’estate, una bambina, sua nonna (due performance attoriali di Glenn Close e Emily Matthews tra le migliori dell’anno). Un rapporto familiare che ha la stessa intensità dell’amore (passeggero ma indimenticabile) e la stessa spensieratezza dell’infanzia (dove non esiste nulla a parte un sole illustrato), ma inevitabilmente ha anche lo stesso preludio mortale e tombale. Come se l’estate intrinsecamente contenesse già l’inizio e la fine, il partire e il ritornare, come ogni famiglia sulla sua macchina ricolma di valigie e cibo in viaggio con destinazione mare. Qui il paesaggio non è però riempito di turisti, di palle svolazzanti in cielo insieme ai gabbiani cigolanti e i secchielli colorati colanti cocco e sabbia mischiati. È la Finlandia insulare dei fiordi a strapiombo, dai profili spigolosi e scavati, del verde che il vento ingiallisce, delle casette di legno isolate che dominano ogni orizzonte oceanico, con le assi così irregolari da lasciare sempre aperte sottili feritoie attraverso cui spiare il mondo circostante. In mezzo alle alghe aggrovigliate, alle barche a remi attraccate e agli aghi di felce da stringere in bocca, la Natura si compie al disgelo all’ennesima potenza.
Il piccolo e dolcissimo caschetto biondo di Sophia si muove rapido, curioso di scoprire quel luogo in cui ad ogni angolo e zolla di terra il passato ha lasciato un oggetto del suo passaggio. Sophia riempie di natura l’innocenza curiosa tipica della sua età. “Esistono le formiche in paradiso?” chiede teneramente come si chiede qual è il senso della vita, perché mamma non c’è più, perché papà sta sempre per i fatti suoi. Dopo la morte della madre, Sophia è infatti legata intimamente più alla nonna che al padre, serioso e solitario sempre intento a disegnare. “La puzza del dolore”. Con la nonna Sophia scopre il mondo, risolve i suoi dubbi e le sue paure, le intaglia nel legno per gettarle in mare aperto, ritrovando la serenità dopo un lutto in cui la Natura rigogliosa ma brutale non ne ha rispettato le sentite condoglianze. Quella nonna, energica e vigorosa nonostante un decadimento fisico e mentale ormai irreversibile, è l’esatta personificazione e della natura, Madre-Natura, Nonna-Natura, in quel paesaggio che è lei stessa, da 47 anni a questa parte un unico respiro e carezza fuso nello stesso immutato locus amoenus, nudo e vivo, l’Ogigia salvifica e paradisiaca in cui la ninfa Calipso accoglie (e trattiene) Ulisse nell’Odissea.
È tutto percezione ed esperienza, immagine materica e granulosa in cui le parole scorrono comunque a fiumi (nei piani d’ascolto più che nei piani d’azione - che è già in sé cifra stilistica) aiutando a ricordare quello che non si può guardare più. C’è la metafisica contemplativa di Terrence Malick, la terrestrità del sentire di Josephine Decker, il tempo geologicamente inarrestabile di Hlynur Pálmason. Sembra pure di ascoltare la Rêverie di Debussy, l’atmosfera sognante in Fa maggiore che negli arpeggi progressivi prende corpo e materia in una rincorsa soffice e cotonosa come nuvole. “Rallentando e perdendosi” come recita la notazione sullo spartito.
Un’isola, che come tutte le isole è circondata in ogni angolo dal mare, ma al centro c’è la vita. Il cuore singhiozza come una barca a motore in avaria al largo.
Prima della fine, prima di andare via, pianteremo un albero, quel pioppo che mamma amava tanto. I suoi rami toccheranno le stelle. E sarà sempre estate.


FRANCO CAPPUCCIO

EXERGUE - ON DOCUMENTA 14 di 
Dimitris Athiridis


“Nei tempi bui / si canterà? / Si canterà. / Dei tempi bui.”, scriveva Bertolt Brecht nel 1939. Queste parole sono acutamente apposte al documentario osservazionale di 14 ore di Dimitris Athiridis - un resoconto tentacolare della realizzazione di documenta 14, la divisiva edizione 2017 della mostra d’arte quinquennale che si è svolta sia a Kassel, Germania, che ad Atene, Grecia. exergue è da un lato uno studio su un personaggio realizzato attraverso uno sbalorditivo livello d’accesso, con Athridis che ha seguito il direttore artistico Adam Szymcyk attraverso incontri curatoriali, visite studio, eventi pubblici, problemi di budget, e fazioni. È anche un’anatomizzazione di una istituzione in bilico. Il materiale di Athridis mostra quanto critica e creatività possono arrivare dall’interno della pancia della bestia, senza mai lasciar dimenticare allo spettatore che c’è un prezzo da pagare lungo la via.


MARCO MACCHINI

SKUNK di Koen Mortier


Ogni anno ormai inizia con la solita, inscalfibile, consapevolezza: sono troppo vecchio. Sono troppo vecchio per il calcetto del giovedì sera, sono troppo vecchio per riuscire a costruirmi una vita anche solo lontanamente dignitosa e sono troppo vecchio per i coming of age. Se per i primi due punti è ormai impossibile trovare una soluzione, non resta infatti che dichiarare la resa, accettare l’ignominiosa sconfitta contro il tempo, per il terzo esistono delle scappatoie perfettamente delineate da un film come Skunk. Un coming of age sicuramente diverso e tutt’altro che formativo. C’è del marcio in Belgio e Koen Mortier ce l’aveva già mostrato in Ex Drummer, anche se in Skunk il pattume è ancora più triste e avvilente. Il povero Liam, adolescente dallo sguardo malinconico, ha infatti i genitori peggiori del mondo che quotidianamente lo picchiano, lo seviziano e lo torturano psicologicamente. Il padre (“metal fun fact”: interpretato dal cantante degli Amenra) gestisce addirittura un giro di prostituzione nella loro lercissima abitazione dove la protagonista assoluta è, ovviamente, la madre di Liam. Un quadretto famigliare così irreprensibile non poteva che trascinare il ragazzo in un istituto correttivo per minori dove, guarda un po’, la situazione non migliora affatto tra risse, botte da orbi, gattini assassinati, stupri e assistenti inadeguati. Skunk è un film asfissiante e deprimente, capace di caratterizzare alla perfezione un protagonista imperdibile. Impossibile non empatizzare con Liam durante le sue mille sventure, impossibile non provare un brivido nelle scene dove ripensa ai suoi genitori, trascinato dall’irrazionale speranza che questi possano davvero cambiare. Skunk è un viaggio marcio e violento, arricchito da alcuni fugaci lampi di quell’amore tossico e non corrisposto che tanto piace. Perlomeno a me.


GIANLUCA CAFAGGI


RED ROOMS di Pascal Plante


Pur non essendo arrivato ufficialmente in Italia, Red Rooms, film del regista canadese Pascal Plante, ha fatto molto parlare di sé durante il 2024, anche grazie al premio ricevuto al ToHorror 2023 e alla splendida interpretazione dell'attrice protagonista. È stato appellato dai più come un grandissimo film, elogiandone regia e contenuto ma, se tecnicamente è meraviglioso, la sceneggiatura presenta ahimè più di un incertezza, pur rimanendo a suo modo un gran film, ma ci arriveremo.

La storia parte immediatamente con un primo piano della protagonista Kelly-Anne, appena risvegliata all'angolo di una strada; passano un paio di minuti e siamo catapultati in aula di tribunale, non abbiamo la minima idea di cosa ci aspetti, ne perché la ragazza sia lì.

Assisteremo a un'apnea di 20 minuti, di cui almeno la metà raccontati attraverso un unico piano sequenza, che ci accompagnerà lungo i sermoni di accusa e difesa; finiti i monologhi, nell'aula cala il silenzio, la macchina da presa si ferma due volte, prima si sofferma sul presunto killer e dopo, con un lento zoom, il campo si restringe verso il volto della protagonista, ha lo sguardo vuoto, attonito, come il nostro dopo aver compreso la terribile vicenda in cui saremo coinvolti.
Il prologo, se così possiamo definirlo, è magnifico sia per la tecnica con cui è girato, sia per le emozioni che trasmette; si ha la sensazione di essere davanti ad un qualcosa di grande.

Il tema del processo ruota attorno all'omicidio di 3 ragazze, accomunate dalla giovane età (tutte minorenni) e dai tratti fisici (bionde e occhi azzurri), avvenuto in un contesto riconducibile al fenomeno delle "Red Rooms", ovvero dirette illegali in cui la gente pagherebbe per assistere a torture/omicidi di ogni tipo, proprio ciò che è capitato alle nostre vittime.
Per dare un po' di contesto, le fantomatiche Red Rooms, sono da anni una leggenda del web; pur non essendoci veri casi di cronaca riconducibili a fatti di questo tipo (viene pure detto esplicitamente sul film, con un po' di furbizia), sono state spesso oggetti di varie storie e racconti horror; il film cerca chiaramente di sfruttare a proprio vantaggio il "fascino" legato a tali storie, sfruttando tale appellativo e cercando di portarci, man mano che la storia avanza, in quella parte oscura del web dove tali dirette avverrebbero.

Tornando al film, ci ritroviamo a questo punto dentro casa di Kelly-Anne, da quel poco che (non) ci viene detto è una sorta di hacker/genio informatico e si guadagna da vivere attraverso poker online, trading e facendo da modella per un sito web.
Sempre per quel poco che ci viene fatto capire, l'intuito ci porta a supporre che la nostra protagonista non sia una pura e semplice spettatrice del processo.

In aula, ad assistere alle sedute, è presente un'altra ragazza, Clementine, ferma sostenitrice dell'innocenza dell'imputato, pur non conoscendolo. Ben presto entrerà di prepotenza nella vita di Kelly-Anne, portando lo spettatore a credere che anche quest'ultima possa appoggiare tale linea di pensiero.
Il personaggio di Clementine è il primo vero limite del film; pur dando una certa continuità e vivacità alla storia, per buona parte del film risulta piuttosto fine a sé stesso, non portando un vero valore aggiunto all'idea che lo spettatore si fa del processo, ne sembrando utile a scalfire il guscio di mistero che avvolge Kelly-Anne.

Tornando a parlare di lei, ci viene mostrato attraverso la sua routine l'effettivo interesse che sembra avere verso il processo; il regista ci mostra gradualmente Kelly-Anne scavare, attraverso le sue doti informatiche, nella vita della madre di una delle ragazze e, man mano che scopriamo informazioni con lei, il processo continua così come i dettagli macabri e orribili legati alla vicenda.
Ben presto emergerà la natura ambigua dell'animo di Kelly-Anne, i suoi sguardi vuoti e i suoi comportamenti bizzarri ci cattureranno; in questo il regista è bravissimo ad alimentare tali sensazioni, evitando di darci il minimo dettaglio sul perché essa sia legata alla vicenda e quale sia il suo scopo.
Ciò favorisce nello spettatore un profondo disagio, non sapendo come porsi nei confronti della protagonista, finendo per farci dubitare del bene come del male.

Purtroppo alcune delle trovate volte ad alimentare tale ambiguità sono quanto meno discutibili e altre davvero poco ispirate.
In primis le sequenze di hacking al PC sono sì utili a fin di trama, ma piuttosto inverosimili, così come le parti in cui naviga nel "dark web" e in pochi secondi ottiene tutte le informazioni di cui ha bisogno; senza contare le sequenze in casa (ma pure fuori dal telefono) dove in pochi secondi guadagna soldi col poker e col trading...fossero state poche e sporadiche sarebbero state tranquillamente passabili, ma essendo parti integranti della vicenda, soprattutto nel finale, non è un aspetto su cui si può soprassedere. 
Così come il lavoro da modella, che sembra essere una sorta di attività che Kelly svolge in totale contrasto con la sua vita strettamente fuori dai riflettori ma che, di fatto, alla fine non porta assolutamente a nulla e risulta essere solo un'ulteriore trovata per provare a dare più profondità al personaggio.

Riprendendo la vicenda, si arriva ad un punto di svolta quando al processo è finalmente l'ora di mostrare i video degli omicidi, visone che viene preclusa a Kelly e Clementine.
Si scoprirà che Kelly possiede tali video sul proprio PC; in una sequenza magnifica le due ragazze vedranno i video al computer, con il rosso del sangue sparato sui loro volti attraverso i monitor.
Qua verrà fuori un netto contrasto durante la visone, con Clementine sconvolta e Kelly fredda e glaciale, quasi priva di qualsiasi empatia, quasi come se quei video fossero stati visti così tante volte da conoscerli a memoria.
Cominciamo a capire la morbosità che si cela dietro alla protagonista, sorgono ulteriori dubbi, si ha come la sensazione che tutto possa accadere e che quel tutto non sia nulla di positivo.
Clementine deciderà di andarsene, uscendo di scena e di fatto tagliando fuori il personaggio dalla vicenda (ricomparirà poco prima dell'epilogo giusto per dovere di narrazione) ; capiremo alla fine che oltre a contribuire per la splendida sequenza descritta poco fa, esso sia servito solo a farci conoscere anche un lato buono di Kelly...troppo poco per quanto mi riguarda.

Di qui in avanti ci avvicineremo alla conclusione. 
Kelly finalmente viene allo scoperto e lo fa nel modo più scioccante possibile, comparendo in aula vestita e travestita come una delle ragazze al momento della morte; ci viene mostrato un lato mai visto fino ad adesso, sul momento non capiamo.

Quello che sembra ormai il folle piano di Kelly prende vita; siamo di nuovo nel "dark web", l'obbiettivo è entrare in possesso dell'unico video "inedito" dei 3 omicidi, in una sequenza che, come già detto, purtroppo è forzatissima così come tutte quelle al PC.
La tensione è comunque alta, poiché il fine dell'entrare in possesso di quel video ci è totalmente sconosciuto.
L'acquisto va a buon fine, leggiamo in volto l'eccitazione di Kelly, apre il video, lo fa partire.
Vediamo di nuovo il suo volto dipinto di rosso, ecco ancora lo sguardo attonito, con un accenno di sorriso, i dubbi tornano, l'ansia ci pervade.

Siamo giunti alla fine; Kelly copia il video in una penna USB, in piena notte si introduce in casa dei genitori della ragazza uccisa, vestita di nuovo come lei; si siede sopra il letto della tredicenne morta, si scatta una foto sorridendo; va in camera mentre loro dormono e lascia la USB sul comodino.

Il giorno seguente il lieto fine, la penna USB conteneva, oltre al video, le prove della colpevolezza dell'imputato, che confessa. Giustizia è stata fatta grazie a Kelly.

Dal nostro punto di vista sarà però tutt'altro che un lieto fine, perché sappiamo bene che Kelly non ha fatto tutto questo solo per un senso di giustizia.

A mente fredda tutto è più chiaro; una parte di Kelly era estasiata alla vista di quei video, forse una parte di lei voleva essere una di quelle ragazze, una parte di lei voleva a tutti costi attirare anche solo uno sguardo di quel killer così spietato, una parte di lei voleva quel saluto che egli le rivolge quando si presenta in aula vestita come la bambina uccisa, una parte di lei è morbosamente compiaciuta da tutto quel dolore.
Come in ogni dualismo che si rispetti però, c'è anche la parte di Kelly che forse non è del tutto immune a sentimenti nobili, una parte di lei forse non è ancora pronta a condannarsi a tale dolore, allora tanto vale rinchiuderlo quel dolore, tanto vale lasciare quella penna USB sul comodino.


FRANCESCO

CHIME di Kiyoshi Kurosawa




Paura e incomprensibilità. Bastano queste parole per riassumere Chime di Kurosawa (kiyoshi), presentato alla Berlinale del 2024. La trama segue Matsuoka, ex chef di fama che ha trovato lavoro come insegnante di cucina. Nella sua classe è presente Tashiro, ragazzo isolato e particolare, che fará sprofondare la vita dell'insegnante in un vortice di angoscia. Chime è un opera di una complessità mastodontica riassunta in soli 45 minuti con lo scopo principale di farti sentire continuamente un senso di instabilità, di paura e di incredulità. E ci riesce in diversi modi.
Forse quello più importante è proprio il sonoro, elemento già sottolineato dal titolo stesso: Chime (scampanellio/rintocco). In tutto il film, ad eccezione del finale, è assente la musica ma sono presenti vari suoni che vanno da uno scampanellio metallico (già citato) a dei suoni striduli e ciclici come il passaggio del treno, rumoli di ventole, lattine buttate, etc. che si ripetono per tutto il film. Tutti questi rumori aiutano a farci entrare nella prospettiva del protagonista, come se ci fosse qualcosa nella mente del nostro protagonista dal quale non può scappare, che lo perseguita, che lo insegue. Come se l'ambiente e la mente del professore fossero una cosa sola, indistinguibile.
E questa sensazione ci viene trasmessa anche grazie alla macchina da presa stessa. Spesso e volentieri nel film ci sono movimenti di macchina precisi, che ci fanno sentire la presenza di qualcuno e qualcosa ma che non ci viene mai rivelato. Ad esempio: in una delle prime scene del film Matsuoka sta cucinando da solo, incominciamo a sentire lo scampanellio con la macchina da presa che si avvicina a lui come se fosse una soggettiva. Il cuoco alza lo sguardo verso l’obiettivo, e lo stacco successivo lascia la domanda aperta: cosa, o chi, stava guardando? La potenza del film sta nel farti sentire la presenza dell'assente/dell'interiore, nel farti immergere più che nella mente del protagonista nelle sue emozioni. Il farti percepire un'assenza di coordinate è il vero fulcro del film.
E infine anche la narrazione aiuta a farci entrare in questo mood. La mancanza di una linearità narrativa riesce ad unire il realistico con il delirante. Il tutto progredisce sempre di più fino ad un finale che non da risposte nette ma solo ulteriori domande spaesanti riuscendo quindi a creare un opera intelligente ma emotiva, stratificata ma impattante.
P.s. Guardando il film ho avuto varie idee su come leggere l'opera. Avviso che sono interpretazioni molto libere, possono ovviamente cambiare da spettatore a spettatore e essere considerate assurdità da taluni (come è normale e giusto che sia).

(Opinioni con spoiler):

Riusciamo a vedere Matsuoka nella sua dimensione "reale" solo nel finale, quando sente suonare il videocitofono da cui vediamo una luce che forse simboleggia proprio quel reale e quella verità che lo risveglia dal suo mondo interiore e dalle sue fissazioni. E si, tutto quello che abbiamo visto potrebbe essere stata semplicemente una sua proiezione mentale per superare dei lutti o delle scomparse/degli allontanamenti. Difatti il suicidio del suo studente e l'omicidio della studentessa nella sua proiezione mentale potrebbero simboleggiare la morte, in ordine, del figlio e della moglie. Come dice anche il nostro protagonista la cucina per lui è un posto dove toccando e assaggiando gli ingredienti si può trovare la pace, anche se ci sono oggetti pericolosi come coltelli. Quindi in qualche modo la cucina per lui è una zona franca, forse la sua stessa mente dove può essere felice e tranquillo ma dove ad una certa si intrufola la realtà. E quindi la morte/scomparsa della famiglia. Dovuta a cosa? Non ci è dato saperlo. Forse la stessa sorte che ha seguito lo studente è toccata pure al figlio: suicidio. Magari dovuto ad una mancanza di attenzioni del padre e un concentrarsi solo su se stesso.
Difatti durante il colloquio per diventare il cuoco di un ristorante (proiezione mentale nella quale punta al successo?) non fa che parlare di se stesso e il suo possibile datore di lavoro gli fa notare che non sta facendo altro che essere egoriferito. A quel punto gli chiede: invece di parlare di te mostrami, crea dei piani concreti. E Matsuoka non ci riesce, balbetta e ritorna a puntare i riflettori su se stesso. Magari anche questo suo ego è una delle ragioni che ha portato il disgregamento della famiglia.
La studentessa, e quindi anche la moglie in questa ricostruzione, viene uccisa quando non riesce a sezionare un pollo, a recidere simbolicamente con il proprio passato. Inoltre nel pollo ritrova un aspetto umano/reale, e proprio allora viene uccisa. È come se in quel momento avesse costretto anche il marito a confrontarsi con la realtà, distruggendo la sua illusione.
Però l'ultima inquadratura, con i ciliegi in fiore da sempre simbolo di brevità della vita ma anche di rinascita, forse in qualche modo ci indica un possibile lieto fine/una possibile presa di coscienza del protagonista? O la porta, chiusa dal protagonista mentre la macchina da presa resta all'esterno della sua abitazione, simboleggia una definitiva chiusura mentale nel suo mondo interiore? A ogni spettatore la propria teoria


RICCARDO SIMONCINI

TENDABERRY di Haley Elizabeth Anderson


Una metropoli effervescente, cinetica, convergente, che vuole sempre portarti e farti perdere al centro dell’universo, lontano dalla periferia e da tutto ciò che rappresenta. La ventenne Dakota vaga nell’arco temporale di quattro stagioni, in una Brooklyn post-pandemica mutevole e liminale dove le reali stagioni sembrano invece infinite nella città, altrettanto infinite ma impossibili per l’animo interiore. In All of Us Strangers Adam guardava fuori dalle imponenti vetrate di una Londra qualunque, in un’alba che era anche tramonto, un tempo che era inizio e fine nello stesso riparo, nella stessa galera chiamata casa. Qui invece si esce in strada, si cammina tanto a sfiorarsi in un unico respiro, con quella frenesia ansiogena che ad ogni angolo ti chiama e ti trascina via per una nuova avventura o sogno. Ma poi di fatto ti rimane ben poco.
Storie perse ed erranti, liquefatte in quella tempesta di immagini che ogni palazzo, cartello o ponte possono portare. Kota/Koda - come la chiamano (perché anche i nomi nella velocità di una corsa di tram sono contratti come le esistenze) - vive l’incertezza di cosa fare della sua vita, sincopata, frammentata, interrotta e mai finita. Tra autunno, inverno, primavera, estate, cambia tutto come dopo un pasto, neanche molto abbondante, si cambiano le posate. In mezzo alle amicizie scalfite dalla ruggine metropolitana, le sue treccine fluttuano nell’aria come la giostra dei calcinculo nell’ennesimo luna park. “Io con questo non c’entro nulla” dice la stessa “bambina carina e pungente” che molti anni prima era felice e spensierata nella Repubblica Dominicana.
Con la sua ipnotica opera prima Haley Elizabeth Anderson recupera la tradizione del cinema più indipendente americano, Larry Clark, Andrea Arnold ma soprattutto il Tangerine di Sean Baker, di quelle sex workers trans che vagano per una Los Angeles natalizia ma senza neve alla ricerca di un pappone-fidanzato traditore. Non esistono schemi, mappe, geografie esistenziali. Infinite dita di scrolling di distanza fino a poter vedere il planisfero intero. Un’America iperreale come dice Baudrillard. Una versione cresciuta e sbriciolata di Aftersun, di poesie in movimento inarrestabile, di archivi visivi a cui attingere moltiplicati, parole da leggere infinitesimali. Il racconto di una New York spaesante e disorientante è inframezzato da inserti di video-diario. Ma il tempo passa e ricicla tutto. Così le nostre immagini svaniranno prima ancora di noi stessi.
Ci siamo conosciuti come amanti, e dopo 5, 6, 10 anni non sapremo neanche di esserci incontrati. Quei video-diari sono invecchiati nell’esatto momento in cui si è finito di registrarli, i ricordi di una tappezzeria strappata di cui Brooklyn è perennemente affollata.
La macchina di Anderson esaspera nervosamente movimenti, distorsioni, percezioni, non sa dove posarsi in quel turbinio di dettagli. È la città stessa che fornisce il primo appunto sperimentale di un vagare senza forma, di sospensione anti-narrativa: la vita avviene senza direzione, senza eroi e risoluzioni. I nostri claustrofobici e compatti appartamenti su cui ci siamo permessi con arroganza di appiccicare il nostro nome saranno presto demoliti per diventare altissimi condomini e centri commerciali.
Maledetto caos, benedetta armonia.


FRANCO CAPPUCCIO

LÀZARO AT NIGHT di Nicolás Pereda


Lázaro at Night di Nicolas Pereda sonda i parametri della creazione artistica. Questa non è una linea d’indagine completamente nuova per il regista messicano-canadese (il suo film del 2020 Fauna è una divertente decostruzione dei cliché della cultura pop relativi al narcotraffico), tuttavia Lázaro si erge per i suoi innovativi - seppur ancora più scivolosi - strati di autoriflessività. Di nuovo alle prese con un budget stringatissimo con la sua troupe di attori abituali, Pereda inizia nella Città del Messico contemporanea, dove numerosi fili vengono attraversati e le identità mescolate. Dove inizia e finisce un personaggio (o una performance)? Che autonomia abbiamo, se ne abbiamo, sulle nostre identità? Le questioni esistenziali sono trattate con umorismo asciutto e pause imbarazzanti tipiche del recente lavoro del regista, e i suoi attori espandono delle messinscene apparentemente semplici attraverso un linguaggio corporeo espressivo. Per Pereda, ci sono echi di altri lavori ed identità contenute nei gesti più essenziali - sorseggiare, mangiare, lavare i piatti - che il suo cinema di déjà vu e sogni lucidi ci permette di comprendere.


MARCO MACCHINI

HUMANIST VAMPIRE SEEKING CONSENTING SUICIDAL PERSON di Ariane Louis-Seize


C’è qualcosa di terribilmente tenero in una vampira incapace di uccidere. Specialmente in giorni come questi dove il vampiro più chiacchierato è un tamarro palestrato, col baffo da hipster e una parlata fin troppo macchiettistica. Sasha è una giovane vampira, ma è troppo buona e sensibile per riuscire ad ammazzare qualcuno. Caratteristiche senza dubbio lodevoli, che diventano però problematica concreta quando la tua unica forma di nutrimento è rappresentata dal sangue umano. Sasha è motivo di preoccupazione per i suoi famigliari (tutti vampiri), costretti a sfamarla con sacche di sangue, dotate di apposita cannuccia, ricavate dalle loro vittime. Quando questi decidono di chiudere il rubinetto del sangue, Sasha si trova nei guai. La soluzione? Trasformare questo spiacevole impasse in una situazione win-win, trovando un aspirante suicida ben contento di farsi scannare. Sarà così che avverrà l’incontro con Paul, ragazzo solo, emarginato e con una torbida fascinazione per la morte. In un coinvolgente viaggio notturno, parecchio cool e sufficientemente dark, i due impareranno a scoprirsi e a conoscere meglio sé stessi e gli ostacoli della vita. Humanist Vampire Seeking Consenting Suicidal Person riesce a toccare molti nervi scoperti di giovani e meno giovani come la solitudine, il sentirsi perennemente inadeguati e l’incapacità di soddisfare le aspettative famigliari. Lo fa attraverso una narrazione guidata da uno sguardo sensibile e divertente, mai banale o troppo smielato. Insomma, tutto molto bello. Ma non ero troppo vecchio per i coming of age?


RICCARDO SIMONCINI

SISTER MIDNIGHT di Karan Kandhari


Un imbarazzante matrimonio combinato nei sobborghi di Mumbai. Un neo-marito inetto incapace di dire di no (nemmeno all’alcol), rifiutato da tutte le ragazze del paese, e una neo-moglie che ne è l’esatto opposto (e per questo considerata pazza dalla gente): forte, impavida, carica forse di tutto quello che un intero genere ha dovuto subire nel corso della Storia dell’umanità. Si contano i giorni passati senza che quel matrimonio viva del suo processo fisiologico, senza neanche conoscersi, senza che il marito si comporti come tale, tra le primissime esilaranti e silenziose scene di attese che sembrano appartenere alla migliore tradizione di cinema muto. “Non ho mai incontrato una donna così volgare” la rimprovera lui. Lei, dietro quel nervosismo aggressivo, vorrebbe una vita normale, paritaria e appagante, quella che il deludente matrimonio avrebbe dovuto garantire. Invece le cicatrici del passato si riverberano con urgenza in una rabbia viscerale ed esasperata, nell’irrequietezza facciale di un volto assetato di vendetta che non riesce a stare fermo, si corruga, si distende, con gli occhi spalancati si inferocisce imbarazzato ad ogni fotogramma. Così Radhika Apte, l’indimenticabile protagonista Uma, offre un’interpretazione mimica e mimetica vicinissima a Buster Keaton e Toshirō Mifune, un compendio di divertentissime espressioni disarticolate e impazienti.
In realtà questa è solo la premessa per un film che scombina tutte le carte e i generi, una squilibrata commedia punk - come recita la sinossi - che si reinventa più e più volte senza mai annoiare. Con continui colpi di scena, imprevisti, assurdità e improbabili rimedi Uma affronta il “suono della frustrazione” mutando e tramutando in una versione destrutturata e vitalistica del classico vampiro, alla ricerca di un sangue che la renda viva dall’interno, che la faccia sentire di nuovo reale. Un esordio indiano ma di produzione inglese che tanto infatti guarda ad Occidente nel ritmo e nello stile, dall’indimenticabile colonna sonora pop-rock fino ai jump cuts che in montaggio suddividono tutto in spassosissime vignette umoristiche. Ricorda tanto di quel modo ormai iconico di Wes Anderson (più ancora dei colori pastello e della geometria compositiva) di costruire l’ironia per situazioni e gesti esagerati ed enfatizzati, con movimenti di macchina in asse ed effetti speciali in stop motion, ma anche di quello humor disilluso alla Kaurismaki, semplice ma assurdamente esistenziale.
Sister Midnight lancia un grido di libertà al di fuori di ogni regola, convenzione, morale e contratto, nel cinema come nei personaggi, per sostituirlo con un linguaggio spregiudicato che non teme nulla e nessuno, tantomeno gli uomini.
Nel cielo notturno le nuvole hanno inghiottito le stelle. Ma ora è tornata la luna.
Sister Midnight è destinato a diventare un cult.


FRANCO CAPPUCCIO

BLUISH di Lilith Kraxner e Milena Czernovsky


L’opera seconda di finzione di Lilith Kraxner e Milena Czernovsky segue due giovani donne senza nome - una studentessa universitaria e un’artista - appena dopo gli anni della loro adolescenza, che sembrano imparare nuovamente i ritmi della connessione sociale e del vivere urbano, dopo una pausa che non è mai spiegata ma che evoca vividamente la pandemia. Il desiderio ribolle dietro il comportamento placido della studentessa mentre con cautela esplora le opportunità per il contatto che sono prevalenti negli spazi pubblici, dal fare gli occhi dolci ad un bambino in una sala d’attesa all’appoggiare la testa sulla spalla di uno sconosciuto su un bus. Persino il tocco clinico di un dottore viene incorniciato come qualcosa di prezioso. Più avanti, l’altra protagonista del film, una nuova arrivata a Vienna, zigzaga su un marciapiede, i suoi occhi incollati al telefono, la sua piccola danza facilmente riconoscibile come quella di un pedone che segue le direzioni su una mappa GPS. Per tutti gli effetti intorpidenti dell’uso perpetuo del cellulare, il nostro comportamento digitale è semplicemente troppo umano. bluish si interroga sulle possibilità per lo stare insieme in un’età in cui l’esistenza collettiva spesso viene sentita appena fuori portata.

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