Venezia è finito da tempo ma questo piccolo sguardo indietro è comunque originale.
Per la quarta puntata della sua rubrica, infatti, il giovanissimo Enrico ci parla di 3 opere d'animazione viste alla Biennale.
Articolo agile e interessantissimo, a voi la lettura
A Venezia si va per i grandi film in Concorso, degli affermati maestri del Cinema, come per le chicche internazionali di quelli che verranno. Solo dopo qualche anno di frequentazione ho imparato ad apprezzare un lato meno noto del Festival: le proiezioni di corto/mediometraggi che nel circuito festivaliero sopperiscono ad una distribuzione che probabilmente non avverrà mai. Senza contare la pressione minore rispetto alle grandi produzioni, la freschezza di tanti esordienti che imparano il mestiere (e chissà che non li vedremo nei prossimi anni con il loro nuovo, acclamato lungometraggio).
Ho avuto il piacere di vedere Shako Mako, cortometraggio in lingua araba incredibilmente vivo e pieno di humor; Brigitte, documentario di una mezzoretta sulla fotografa omonima, mette in discussione ogni aspettativa che si potrebbe avere su di un ritratto di vita vera. È impetuoso, idiosincratico, girato in un bianco e nero sontuoso da Lynne Ramsay, la regista inglese di You were never really here e We need to talk about Kevin. Avendola in sala, le avrei fatto un’unica critica: non fa abbastanza film, considerato ciò che ci ha regalato finora.
Anche se è una puntata speciale non mi dilungherò oltre, qui si parla di animazione e non live action. A parte il film cinese No 7 Cherry Lane, che non ho visto, per trovarla sono dovuto andare, un po’ riluttante a dire il vero, alla sezione VR che sta al Lazzaretto Vecchio.
Dico la mia sulla Virtual Reality: credo che la ricerca di un “futuro” al cinema non debba passare attraverso nuove tecnologie, ma nuove storie e modi d’intendere quest’arte meravigliosa.
Il 3D si è sgonfiato come una qualsiasi moda passeggera ad appena un decennio da Avatar, e potrebbe essere anche il caso della realtà virtuale. Lo spero, perché rabbrividisco all’idea di voler rendere un film il supplemento di un videogioco, ma se già si discute dell’utilità della sala cinematografica, soppiantata dallo streaming casalingo, serve a poco fare il tradizionalista che nasconde la testa sotto la sabbia. Piuttosto, come dice il saggio, conosci il tuo nemico.
Mi sono riservato uno spazio per la selezione, che comunque prometteva qualche sorpresa; è pur sempre animazione, con la differenza che lo spettatore influenza il punto di vista. Quindi, evitando accuratamente l’interattività, che non mi compete, ho visto tre corti.
EX ANIMA
Titolo evocativo purtroppo fuorviante, per il corto peggiore del gruppo. Siamo nei panni di un cavallo (insomma, scordatevi l’anima e viaggi astrali col potere dell’animazione), per circa 13 minuti, a fare…niente di niente. So che il corto l’ho visto io e dovrei spiegarvi cosa succede per quasi un quarto d’ora, ma onestamente non lo so. Vedi qualche paesaggio molto carino, alle volte immerso nella nebbia, e ti lasci prendere grazie ad una colonna sonora abbastanza atmosferica. Poi rimani bloccato ad osservare sempre lo stesso spiazzo (il che toglie parecchio all’immersione nella realtà virtuale), dove girano gli equini. Qui succedono cose, nessuna davvero interessante o emozionante: sono perlopiù cavalli che girano all’aperto, al chiuso, stesi a terra divorati dai lupi. Ogni tanto appaiono degli uomini, che fanno cose ancora meno sensate, tipo recitare strambe preghiere. Abbiamo anche il nostro momento WTF quando conducono in mezzo alla nebbia verde (per fargli fare delle pose su delle pedane) dei quadrupedi che indossano maschere da guerra batteriologica. Sono serissimo.
Insomma, è quello che otterrebbe un animatore senza fantasia schiaffando della motion capture su dei cavalli e i loro ammaestratori, al grido di “ma sì, tanto non deve mica avere senso”. Bocciato sia come idee che come effetti.
WOLVES IN THE WALLS: IT’S ALL OVER
Questo era uno dei migliori incoraggiamenti nella selezione: l’adattamento di un libro per bambini di Neil Gaiman in un’avventura animata di 20 minuti. Purtroppo, le aspettative gigantesche sono state rispettate solo in parte, ma lo considero comunque un ottimo corto. Tanto per cominciare, la durata non si percepisce minimamente: sono scorsi via più facilmente quei minuti in piedi rispetto ai 13 passati seduto a guardare Ex Anima. Merito anche di un’animazione che non si risparmia: adoro il fatto che non tenti di essere realistica, quanto stilizzata. Gli ambienti sono colorati, ma angusti, le persone che li abitano sono allo stesso modo particolari ma dai tratti squadrati, quasi rozzi. Ricorda molto la Coraline in stop motion, e questo è anche un limite evidente. Parliamo di due storie per bambini a tinte macabre dello stesso autore (e con lo stesso illustratore, Dave McKean), e Wolves in the Walls perde inevitabilmente il confronto con l’adattamento di Henry Selick, uno dei migliori film d’animazione di tutti i tempi.
Siamo l’amico immaginario di Lucy, una bambina molto dolce e molto sola, e dobbiamo aiutarla a dimostrare alla sua famiglia che ci sono i Lupi nei Muri, prima che sia “all over” e mamma, papà e fratello scoprano da soli le conseguenze. È impossibile non pensare alla bambina annoiata e coraggiosa che tutti chiamavano Caroline, che parlava con gatti e bambole, con dei genitori forse assenti, ma che valeva la pena salvare dal Male, nascosto aldilà del muro.
A suo credito, pur adattando un materiale di partenza abbastanza simile, il regista/sceneggiatore Pete Billington si butta sul lato avventuroso: ci sono foto dei Lupi da prendere, muri da segnare, confetture da proteggere dai golosi spiritelli che si preparano ad uscire. La stanza dove la madre di Lucy prepara quest’ultime è una vera meraviglia: una cucina inizio Novecento piena di tubi, pignatte, macchinari strani, un miscuglio di passato e steampunk che ricorda vagamente quella di John Silver, de Il Pianeta del Tesoro Disney. Ci si lascia conquistare da questi begli sfondi e dai personaggi bizzarri: la mamma, il padre musicista, il fratello appassionato di videogiochi in VR (molto meta), che ci offre anche l’unico momento veramente interattivo del corto, un combattimento a colpi di spada contro i Lupi che vedrei benissimo in una vera avventura videoludica. Poi però arriva il finale, piuttosto bruscamente anche. Per tutto il tempo ci è stato ripetuto scherzosamente che “quando i Lupi escono dai muri, è finita”, finché succede davvero, come immaginava Lucy. È tutto abbastanza confuso: la grafica moderna si trasforma in pannelli semi-statici disegnati in bianco e nero, la famiglia fugge fuori dalla casa infestata dai lupi, si scopre che potremmo essere o meno l’incarnazione del porcellino di peluche di Lucy, diventato suo amico immaginario…è strano, ma gradevole, esattamente come libri e fumetti di quel geniaccio di Neil Gaiman. Quindi si potrebbe tranquillamente concludere “missione compiuta, it’all over”.
GHOST IN THE SHELL: GHOST CHASER
Arriviamo finalmente al cuore della rubrica, il lato anime, manco a dirlo il mio preferito di questa esperienza. Metto subito sul piatto ciò che non mi è piaciuto: il doppiaggio. Questo corto è giapponese, ma parlato in inglese. Lo so che tanti (compreso il sottoscritto) non conoscono la lingua, e l’utilizzo stesso della realtà virtuale renderebbe stranianti i sottotitoli; non c’è immersione, se sei costretto a guardare dove ci sono le scritte, o peggio, queste ti seguono fastidiosamente ovunque fai vagare lo sguardo. È un problema di base della VR, che ti costringe a sorbire il solito, monocorde vociare che gli americani riservano sempre all’animazione giapponese.
Inoltre la grafica dei personaggi, dopo aver visto Wolves in the Walls, non risulta poi così curata, ma quello era basato unicamente su storia e personaggi, questo è quasi solo azione pura. Infatti la trama è riassumibile in: un ministro deve arrivare ad un incontro sano e salvo, ma il percorso è minacciato da una sarabanda di terroristi ed ostacoli vari. Semplice ed efficace, con un minuto introduttivo conosci la missione e chi dovrà portarla a termine, ovvero la solita Sezione 9, l’unità antiterrorismo del Maggiore Motoko Kusanagi, con compagni annessi e Logicoma, il droide da combattimento; i restanti 7 sono un gigantesco inseguimento, ed è qui che Ghost Chaser esplode. Il regista Hiroaki Higashi ha chiaramente capito che questo Giappone cyberpunk è un mondo irreale, dove la stessa anima (il ghost) può essere corrotta come un computer infettato da un virus, e sfrutta l’animazione per trasporre questo concetto in numerosi voli informatici che portano la nostra prospettiva da un personaggio all’altro. Questa irrealtà ricreabile solo con l’animazione ci trasporta in sequenze adrenaliniche, tra elicotteri che incalzano, ponti minati, robot assassini; passiamo dall’occhio di un cecchino che abbatte gli attentatori, a quello elettronico di Batou mentre crivella un blindato, alla bomba che Logicoma prova a disattivare dall’interno. Le immagini più spettacolari però le abbiamo dal punto di vista del Maggiore sulla sua moto: più di una volta possiamo ammirare frammenti esplosi volarle a centimetri dal viso con rallentamenti ben piazzati, balzi da un veicolo all’altro, ma anche tratti di relativa calma, dove lo spettatore può girarsi a 360° e ammirare una Neo Tokyo meravigliosa. La grafica si sforza al massimo per darci paesaggi mozzafiato, il ponte in mezzo alla natura, i grattacieli contro il tramonto dall’alto e le strade invase di scritte e maxischermi, dal basso; poi quel mega quartiere abbandonato, un dedalo di rovine e arterie stradali interrotte sul vuoto, dove si svolge il climax finale. Dopo uno teatrale volo tra i palazzi aggrappati ai rampini di Logicoma, la missione è compiuta, ma c’è un’ultima sorpresa che eleva questi 8 minuti da puro divertissement ad effettiva comprensione di cos’è davvero Ghost in the Shell, qual è la sua filosofia. Senza spoilerare, ancora una volta la Sezione 9 si rivela per quello che è: un James Bond fatto gruppo, pedina sacrificabile di un governo senza scrupoli, e di cui loro fanno parte, consapevolmente, mettendo comunque la giustizia al primo posto.
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