OM DET OANDLIGA (about Endlessness)
di Roy Andersson
CONCORSO
Filippo Tassinari
Spiegare un film di Roy Andersson è impresa ardua: ci si potrebbe limitare a descrivere cosa accade sullo schermo, ma sarebbe limitante. Il regista disegna degli episodi, come se fossero dei piccoli ma bellissimi quadri in movimento. Dentro si possono trovare situazioni quotidiane, divertenti, grottesche, melanconiche, in cui riconoscersi e lasciarsi trasportare o rimanere annoiati e distanziarsene.
Voto: 7 e ½
Riccardo Simoncini
Roy Andersson è un uomo di 70 anni che, nonostante l’età, può contare una filmografia relativamente ridotta. Una quantità ingannevole, perché, dietro di essa, si nasconde un'acuta e profondissima riflessione sull'essenza dell'uomo. Pochi film, ma pregni di significato, che indagano su valori esistenziali e fondamentali per tutti gli esseri umani. Il suo surrealismo della solitudine, che nei pochi precedenti film veniva sfruttato per rappresentare in veri e propri quadri fiamminghi la vita priva di emozione di uomini semplici ed ordinari, viene qui portato all'estremo. E lo si può intendere fin dal titolo. About Endlessness. Sull'assenza di fine. Sull'infinito. Un tempo inarrestabile che non si deve intendere in senso dinamico e frenetico, ma come un infinito statico, dove nulla cambia o si evolve. Non c'è fine, perché non c'è cambiamento, non c'è alternanza di fasi o stagioni. Tutto è immutabile. Neanche i colori subiscono trasformazioni, rimanendo sempre freddi e grigi. Ma l'infinito del titolo lo si può estendere anche alla materia narrativa stessa, che qui diventa ancora più frammentaria rispetto al passato. Tante piccole (infinite) storie distinte e non interconnesse, come piccoli quadretti grotteschi, si susseguono pian piano per creare un'opera di appena 1 ora e 20 di durata. Nonostante infatti l'esiguo minutaggio, l'impressione finale è che siano tantissimi, infiniti i ritratti di esseri umani che si succedono, guidati da una voce narrante che ci concede l’accesso ad un'atmosfera onirica, ideale ed assimilabile ad un sogno. Questo va a riconferma del fatto che ciò che mette in scena Roy Andersson rappresenti in realtà una concezione universale e collettiva di essere umano, che non si estingue ma si rigenera continuamente. Come l’energia, che per le leggi fisiche della termodinamica non può essere distrutta, né creata, ma può solo trasformarsi nelle sue mille forme all’infinito. Le storie che si susseguono sono infatti diversissime, ambientate spesso in epoche totalmente diverse, ma tutto risulta comunque legato ed idealmente connesso, come se in fondo, con il passare del tempo, nulla fosse davvero cambiato. Andersson raffigura così i ritratti sfaccettati dell’intera evoluzione umana: dai bambini agli adulti, da personaggi e situazioni storicamente insignificanti (un compleanno, una giornata qualunque di pioggia, un ballo all’esterno di un caffé) ad eventi storici rilevanti (la presenza di Hitler, la sconfitta di un esercito). Ma tutti gli individui che compongono questi quadri senza tempo (e che anzi tendono proprio a scavalcarlo) soffrono di un’incomunicabilità estrema. Le domande e le risposte dell’uomo non si corrispondono e non trovando alcun punto di incontro, si ripetono incessantemente, sempre uguali a se stesse, come se in quel mondo, basato su frammenti di esistenza umana, essere stessero ancora cercando simbolicamente un interlocutore che sia in grado di parlare la loro stessa lingua. In una tale situazione sembra dunque difficile credere in qualcosa. Forse in Dio, ma forse pure la fede può vacillare. E allora a cosa affidarsi? Cosa ci rimane? La consapevolezza di essere vivi. Perennemente vivi. Staticamente ed infinitamente vivi.
Insomma, nelle diverse storie che si susseguono cambiano gli sfondi, i costumi, il linguaggio e il modo di muoversi, ma l'uomo è sempre quello. La sua esistenza è sempre quella. Come un caleidoscopio monocromatico che frammenta la realtà in mille forme geometriche e simmetriche, che apparentemente variano nel tempo, ma che in fondo dipendono sempre dalla costruzione dello stesso piccolo oggetto.
L'uomo è lì, sopravvive alla storia, sopravvive al tempo, sopravvive all'infinito. Ma solo in pochi casi si può dire lo stesso delle opere prodotte da quello stesso uomo e Roy Andersson è forse uno di quei pochi casi.
GUEST OF HONOUR
di Atom Egoyan
CONCORSO
Filippo Tassinari
Alla morte del padre Jim, Veronica, giovane insegnante di musica al liceo, colloquia con il parroco che officierà le esequie. Dal dialogo scaturisce il passato del rapporto tra padre e figlia, in un intreccio di segreti e ricordi nascosti o dimenticati.
Egoyan, dopo Remember di 4 anni fa, torna al Lido con un film dove la memoria è nuovamente la protagonista: un dosaggio eccessivo dell'intreccio rende a tratti troppo nodoso l'intreccio di una pellicola tuttavia più che discreta.
Voto: 6 e ½
BLANCO EN BLANCO (white on white)
di Théo Court
ORIZZONTI
Filippo Tassinari
Un fotografo arriva nella innevata Terra del Fuoco, convocato da un potente propietario terriero, per scattare le foto del proprio matrimonio. Si ritroverà invece a documentare il massacro del popolo indigeno.
THE PAINTED BIRD
di Vaclav Marhoul
CONCORSO
Riccardo Simoncini
The Painted Bird. L’uccello dipinto. Un titolo che in tre parole già racchiude tutta l’essenza evocativa del film. Dipingersi (il corpo o il volto) come processo ingannevole per alterare il proprio aspetto, la propria maschera esteriore. Dipingersi, come potrebbe fare un soldato, per camuffarsi e nascondersi in modo da non essere notato. Ma questa mimetizzazione può portare anche al risultato opposto: essere percepito a tal punto diverso da non essere più riconosciuto dal gruppo, dagli amici, dai coetanei, persino da tutti gli esseri umani. Come un uccello che, quando dipinto, non è più integrato nello stormo, ma è isolato, denigrato e poi ucciso. Come tale possiamo dunque considerare anche il giovane bambino ebreo protagonista di questo film che, sul finire della Seconda Guerra Mondiale, sarà costretto ad un viaggio incessante ed estenuante di sopravvivenza nell’Europa dell’Est. Quel bambino è come quell’uccellino perseguitato per come è dipinto, che, per la sua condizione e la sua apparenza, è emarginato dal mondo. Quel bambino è un uccellino che deve volare in lungo e in largo in luoghi inospitali e pericolosi non per volontà, ma per costrizione. Quel bambino, apparentemente senza nome, vorrebbe cantare, d’amore, di gioia, ma quel canto diventerà presto un grido, un pianto, un lamento, fino a scomparire del tutto. Sì, perché il viaggio che intraprenderà lo condurrà a violenze efferate di ogni tipo e misura. Violenze senza giustificazione che giungono sullo schermo dirette e senza censura. Ma queste azioni moralmente condannabili non derivano solamente dalla crudeltà dell’uomo, ma dall’ostilità della natura intera, figlia di un contesto infausto e crudele come quello della Seconda Guerra Mondiale, capace di educare persino gli animali ad esseri cattivi. Quel momento storico così buio parla infatti attraverso il linguaggio della violenza in un’unica sporca voce che si scontra con decisione e forza contro il ragazzo protagonista. “The Painted Bird”, fotografato in un bianco e nero che richiama la tradizione e la lezione di Bela Tarr e Tarkovskij, diventa ben presto un racconto epico, di avventura, in cui l’esperienza cinematografica immersiva ne rappresenta il motore propulsivo. Sembra di rivivere “Il figlio di Saul” all’opposto, al suo contrario complementare, in senso narrativo e spaziale. Non c’è più infatti un padre a cercare il figlio (come nel capolavoro di Nemes), ma un figlio a cercare i genitori. Usciamo poi dai confini fisici e stretti dei campi di concentramento e veniamo catapultati nel mondo immenso, estesissimo, ma terribilmente desolato che li circonda, dove la violenza che permane è sempre la stessa. In quei luoghi così ampi non si può correre, ma solo scappare. Si può guardare l’orizzonte, ma difficilmente lo si cerca di raggiungere.Così quel bambino incontrerà persone su persone, tutte diverse nella loro storia e nelle loro abitudini, ma tutte accomunate da una pulsione violenta e primitiva innescata dalla guerra (e dalle sue conseguenze) che verrà ovviamente a ripercuotersi sulla sua vita.Ma per sopravvivere dovrà adattarsi, dipingersi, in questo senso, di un colore diverso ogni volta (per riprendere l’immagine dell’uccello dipinto del titolo). Dovrà anche lui abbandonare la sua purezza, per essere contaminato dal nero della guerra. È inevitabile, se si vuole sopravvivere. Ma quella guerra porterà poco per volta a perdere qualsiasi colore, qualsiasi maschera, qualsiasi filtro, e condurrà dunque ad una condizione di anestesia vitale, di morte dentro la vita. E forse sarebbe stato meglio meglio morire da vivi.Quello che è certo è che anche noi dovremmo avere gli occhi di quel bambino, ora forse con un nome, capace di vedere la luce in ciò che è tenebra.
METRI SHESHO NIM (Just 6.5)
di Saeed Roustaee
ORIZZONTI
Filippo Tassinari
Teheran pullula di tossicodipendenti, pressopiù tra i disperati. Samad, a capo di una squadra antinarcotici si mette alla caccia di un boss della droga, Nasser Khakzad. Risalendo la catena di comando dello spaccio, giungono all'arresto di Nasser e alle varie fasi del suo processo.
Nonostante la lunghezza, è un film che scorre piacevolmente non togliendo mai il piede dall'acceleratore, alternando azione frenetica e dialoghi serrati.
Voto: 7
PSYKOSIA
di Marie Grahtø
SETTIMANA DELLA CRITICA
Filippo Tassinari
Viktoria è una ricercatrice specializzata in suicidi. Viene convocata in un ospedale psichiatrico per seguire Jenny, una ragazza con queste tendenze.
Poco convincente, poco credibile ed ancor meno originale. Voto: 4
MOFFIE
di Oliver Hermanus
ORIZZONTI
Filippo Tassinari
1981, Sud Africa. La leva militare obbligatoria per i 16enni costringe Nicholas a lasciare casa per due anni: siamo nell'epoca dell'Apartheid e della conflitto con l'Angola, tra "pericolo nero" e minaccia comunista. Moffie è, in afrikaans, il termine dispregiativo con cui vengono appellati gli omosessuali, cui non viene riservato miglior trattamento che ai neri.
Mentre la prima parte è godevole, anche se il richiamo all'addestramento in Full Metal Jacket è fin troppo esplicito, la seconda perde di interesse diventando quasi stucchevole.
Voto: 5 e ½
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