17.4.15

Recensione: "The Hunter" - In Their Eyes, lo Sguardo Animale - 3 - di Giovanni Manizzi


Torna con la sua rubrica Giovanni de La Confidenza Lenta (trovate le altre puntate nell'etichetta).
Ancora una volta, partendo da un film, Giovanni cerca di trattare materie molto importanti e a lui care legate all'ambiente e agli animali.
Con il suo solito stile sia umano che meticolosamente scientifico.
Buona lettura.


Un mercenario viene inviato dall'Europa nel deserto della Tasmania da una misteriosa società biotech, per cercare l'ultimo superstite della tigre della Tasmania. Il mercenario si chiama Martin. Il mercenario ha dubbi, ha un’etica, ha emozioni. Tutto questo lo porterà a svolgere in ogni caso la sua missione – una missione mortale, dove la morte si allarga a cerchi concentrici, come l’onda di una piena, o l’incendio di una foresta - ma lasciando quasi alcun superstite.
Il mercenario Martin vive in una realtà che solo occasionalmente e in modo strumentale si interseca con le realtà esperite dalle persone ‘altre’, quelle che secondo il senso comune della maggior parte delle persone, vengono assimilati alla normalità: boscaioli, scienziati, naturalisti, ecologisti-ambientalisti (anche se poi, tra di loro, queste ‘categorie’ hanno rapporti non sempre pacifici, anzi – e proprio perché tutte quante reclamano per sé il controllo e la tutela e il rispetto per ‘la Natura’).
La realtà del mercenario è difficilmente immaginabile o concepibile da uno qualunque degli altri ‘normali’, e – suggerisce il film, anche per sostenere l’impianto del plot avventuroso – si avvicina a quella della spia, dell’agente segreto: perché ha contatti con committenti potenti, non visibili e dotati di grandi risorse; che equiparano lo stesso mercenario a una risorsa su cui investire per ottenere profitti maggiori nell’immediato futuro (e, oltretutto, una risorsa da tenere sotto controllo, eventualmente con l’aiuto di un osservatore-eliminatore e vari complici locali, ingaggiati per avvisare).

Siamo dunque del tutto all’interno di una struttura che esercita il controllo, e porta avanti istanze di biopolitica e biopotere: quelle politiche e quei poteri, cioè, che livellano le manifestazioni vitali allo status di merce: le cercano, le catturano, le osservano, le studiano, le misurano, le rendono assoggettate e riproducibili nelle loro manifestazioni ed espressioni, in modo virtualmente infinito.
La trama, essenziale, riassunta all’inizio, non potrebbe essere più esemplificativa: fino allo schematismo, a volte, che potrebbe nuocere agli elementi di questo thriller, girato nel 2011. Trattasi comunque di thriller sui generis, anche visivamente – e pian piano ci avviciniamo così a uno dei punti focali e centrali sia del film che di queste righe.  Intanto perché ci sono scorci di wilderness non comuni, a mia memoria, in questo genere di pellicole (cioè il thriller di tendenza spionistica a sfondo industriale-bellico): panoramiche da ‘signore degli anelli’ sui paesaggi della Tasmania attraversati da un Willem Dafoe come sempre magnetico e intenso (l’altro motivo per cui ho deciso di guardare questo film), o dettagli di torrenti, alberi, rocce, acquitrini. Poi perché ci sono scene di vita wilderness che non nascondono crudezza e crudeltà: la preparazione delle trappole (tagliole, cappi, archetti, pali, reti, esche),  la caccia, lo stramazzar dell’animale -corpo ucciso dal proiettile all’improvviso (mi chiedo: scene ricostruite in CGI? Me lo auguro: sarebbe fattibile, salvo che non si consideri ‘più economico’  limitarsi a uccidere un ‘semplice’ animale – nei titoli di coda una frase farebbe ben sperare le anime ansiose di maggior pace per gli altri-animali (come la mia), ma il dubbio rimane).
Sui generis, sempre per un thriller, è poi anche la recitazione – a parer mio sempre sospesa-sorpresa – dei personaggi principali, Dafoe in testa, che punta molto sugli sguardi, le attenzioni, i silenzi, i rapporti del corpo coi corpi; e anche Frances O’Connor e i due bambini, Morgana Davies e Finn Woodlock. Ma è una recitazione che rientra molto bene nel discorso che sorregge la visione della storia: il valore dei corpi - con tutta l’ambiguità semantica della parola ‘valore’, che ha un peso enorme.

Il cinema è occhio: il cinema è replicazione meccanica-tecnologica senza fine-(in)finita o (s)finita della visione oculare, che non è mai semplice e neutra visione della realtà esterna così come è, oggettiva. Ogni cinema, ogni visione registica – anche la meno autoriale, anche la più mestierante, che non va da intendersi come dispregiativo – è per forza di cose parziale, ha un punto di vista selettivo, da un certo angolo – e non altri; quindi, in primis, il punto di vista è spaziale. Il punto di vista, poi, è anche temporale: ha un inizio e un termine (fatto salvo che, entro questi due punti cronologici, poi, sarà riproducibile all’infinito, diventando paradossalmente a-temporale); non c’era prima dell’inizio, smetterà dopo il termine: quella realtà visionata e filmata tornerà nello stato effimero di tutte le realtà – quando sono osservate da occhi altrettanto effimeri, in quanto occhi biologici; ne resterà solamente quella parte racchiusa tra le parentesi narrative spaziotemporali dell’occhio-visione artificiale, l’occhio tecnologico della ‘macchina’ da presa – occhio insonne, che può anche rendere insonni noi a nostra volta; fino al punto in cui quella filmata diventerà tutta la realtà riguardante ‘quella’ realtà che si era scelto di filmare, di ‘immortalare’: perché quella realtà effimera sarà svanita, si sarà trasformata e cambiata in qualcosa d’altro – e di lei resterà reale solo il frammento scelto – casualmente (?) – per rappresentarla, per raccontarla.

Stiamo parlando – eccoci al cuore, al motivo primo per la scelta di vedere questo film – della realtà del Tilacino.
Tutta la realtà del Tilacino è ormai fatta di fotogrammi in bianco e nero, di foto sbiadite, vecchie di quasi più di un secolo: questa sua realtà è sufficiente per far muovere la multinazionale sempre voracemente a caccia di nuove risorse da mercificare per fruttarne profitti. È diventata – dunque – una realtà di possesso, di mancanza di libertà. Se il Tilacino tornasse a occupare spazi in questa realtà, rivestendosi di ossa, muscoli, pelle e pelliccia e aculei velenosi, e coda, e artigli e denti – e grandi occhi scuri ormai gioco forza imperscrutabili; come sembra fare alla fine del film – questa volta, davvero, sembrerebbe in virtù della virtualità della grafica digitale computerizzata; se, dicevo, tornasse in vita, sarebbe solo per ri-morire (colpito da una pietosa pallottola – ma potevano esserci altre vie di fuga che non quella unilateralmente decisa dall’umano; oppure imprigionato e vivisezionato per trarre il suo veleno dagli aculei e poterne fare oggetto bellico ad uso esclusivo umano).

Lo vediamo, il Tilacino – la Tigre della Tasmania, il Thylacinus Cynocephalus (dunque, una specie di chimera della tassonomia poliglotta, un po’ tigre, un po’ cane) – camminare nervoso, smanioso, prigioniero in uno zoo, trofeo semovente, immortalato, zombizzato fotogramma di luce incorporea a inizio del XX secolo, in quel 1933 dove già si preparavano prosecuzioni di applicazioni pratiche su vasta scala di biopotere, e bioviolenza, da implementare nella guerra, per renderle poi di uso comune nella quotidianità della pace.  Immagini di profonda angoscia: per chi, questa angoscia, voglia saperla riconoscere, l’angoscia della perdita della libertà e dell’autonomia sul proprio corpo, sulla propria integrità e salvaguardia fisica prima ancora che mentale, spirituale, emotiva.
Doveva venire filmato, il Tilacino, per documentarne e provarne l’esistenza – che non finisse nel regno dei bestiari medievali, vasta contrada quanto irreale e incredibile-non credibile. Così è stato, perché la sua ultima caccia è avvenuta ai primordi dell’epoca del progresso tecnologico scopofilo misurativo umano: ogni vivente – dagli elefanti omicidi di cui si filmò l’esecuzione capitale – Topsy, nel 1903, per elettrocuzione e Big Mary, per impiccagione, nel 1916 – alla indigena negra Saartjie Baartman, la ‘venere ottentotta’ (un passo indietro, nel XIX secolo) e  ai freak nei circhi, dagli isterici negli ospedali ai criminali lombrosiani nelle carceri, dagli operai che escono dalla fabbrica al cavallo che corre nei primi passi del cinematografo. (Si può proseguire, volendo, con l’orsa Daniza e gli scatti di Diane Arbus, il giraffino Marius e le foto di Margaret Bourke-White o Leo Miller … etc, etc ).

Martin guarda sul suo portatile le poche immagini della vita captiva del Tilacino, a loop, come se questo interrogatorio potesse rivelargli se e dove è ancora vivo il Tilacino. Il Tilacino, dall’aldilà spaziotemporale eternizzato, lo/ci guarda (sconcertato? Disorientato?, ansioso? Impaurito? Arrabbiato? Curioso? Speranzoso (di essere lasciato di nuovo libero)?)  e poi sbadiglia e ansima. I suoi occhi sono profondissimi oscuri pozzi di imperscrutabile alterità. Imperscrutabili perché noi abbiamo voluto renderli tali.
La bio politica, la bioviolenza, che diventa – infine, e anche oggi e anche contro di noi, benché ne siamo inconsapevoli – tanato –politica (politica della morte) fondata sul controllo e sul dominio.

3 commenti:

  1. Quando si dice: visione consigliata in presenza di un adulto.
    Mi tocca rivederlo con uno sguardo diverso!

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  2. Lo avevi già visto, Santa? Come ti è sembrato?

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    1. Si. Amaramente ne ho condiviso il finale. A volte tocca fare delle scelte estreme per non piegarci alla "politica". La morte come forma salvifica. L'ho trovato un film interessante. Mi spiace per la risposta in ritardo e forse poco esaustiva, ma è un periodo in cui sono "assente". Magari torneremo sull'argomento. A presto :*

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