7.12.18

Di malattie che non se ne vanno più, di voglia di poesia, di abbandoni e di quadretti appesi al muro

Risultati immagini per camera spoglia

Sull'onda emotiva del post aspergeriano de ieri ho pensato di "rendere post" anche un'alta cosa che un amico-lettore mi scrisse, stavolta non su chat ma come commento ad un mio post, questo qua per chi interessa (altra esperienza vita).
Trovai questo commento talmente bello, delicato, struggente e vero (e benissimo scritto) che non sono più riuscito a dimenticarlo.
In questo caso avete anche nome e cognome, Alex Cavani (ieri per ovvi motivi era meglio di no).
Questo ragazzo, musicista, scrive anche spesso di cinema altrove (e l'ha fatto anche qua nel buio).
Ma adesso non ce interessa, adesso ce interessa altro

Da ormai undici anni lavoro nel mondo della disabilità nelle scuole e nei centri di recupero, ho fondato un'associazione per insegnare musica e teatro e ad oggi contiamo più di 50 ragazzi, da mettere ogni anno sul palco di un teatro.
Un avventura, spesso un'impresa titanica.
Ma sempre, irrimediabilmente speciale.

Tra le tante esperienze che mi hanno fatto riflettere in questi anni e che mi hanno fatto giungere alla stessa conclusione che hai tratto tu (Sembra quasi che la cattiveria sia il pezzo mancante, che per essere uomini pieni di vizi, egoismi, cattiverie e sovrastrutture si necessiti di un cervello completo), ce n'è una che non potrò mai dimenticare:

un ragazzo di questo mio gruppo, poco più piccolo di me, ha questa malattia degenerativa che ogni giorno lo paralizza sempre di più; è pieno di protesi, usa le stampelle e quant'altro, non può mai stare da solo.
Come se non bastasse soffre anche di dissociazione della personalità, in breve ha personalità multiple (ed è drammatico, mica Split e Split) e la più preponderante lo fa immedesimare in un cantante lirico, mi parla sempre delle sue cene con Al Bano, con il maestro Muti, le scappatelle con le soprane russe, il porno d'antan, le domande sul sesso che si sente di rivolgere solo a me; mi chiede di dargli un sol maggiore e inizia a fare i suoi vocalizzi, la nota non la becca mai, ma non importa; mi chiama il poeta, mi dice che se fossi vissuto all'epoca di Leopardi lui non sarebbe mai finito sui libri, ma io sì.
C'è un rapporto speciale, intimo e amichevole, libero da ogni preconcetto, mi viene da definirlo con una parola anacronistica: puro.
Poi a un certo punto inizia a non venire più alle prove e agli incontri, agli spettacoli neanche si presenta e la sua famiglia rimane nel proprio silenzio, non si sono mai neanche presentati con me.
Dalla scuola vengo a sapere che ultimamente le sue condizioni si sono aggravate, non riesce a camminare se non per pochi minuti e a 16 anni vivere la depressione è asfissiante.
Mi preoccupo, ma non ho modo di sapere nulla di più.
Un mercoledì viene alle prove accompagnato dallo zio, è triste, sconsolato, parliamo a malapena; prima di andare via una richiesta: "scrivimi una poesia, tu sei l'unico poeta che conosco e l'unica persona di cui mi interessa avere un ricordo".
In dieci minuti scrivo una poesia, non la ricorda neanche ad essere sincero, so che quelle parole sono totalmente rivolte a lui e uso delle figure retoriche e delle immagini che possano piacergli; non mi impegno un granchè, volevo essere svelto, doveva andare a casa.
La legge, me la fa firmare, si commuove e mi fa dei complimenti incredibili; poi mi abbraccia, mi saluta e se ne va.
Non sapevo che sarebbe stata l'ultima volta in cui l'avrei visto, l'avrei vissuta con molta più importanza.

Un giorno, pochi mesi fa, mi arriva un messaggio, da un numero che non conosco: contiene solo una foto, nient'altro. E in quella foto c'è una camera, forse da letto, completamente spoglia, se non per un particolare: c'è un piccolo quadretto, non si vede benissimo, ma è abbastanza; è la mia poesia, idealmente appesa sopra quella che un tempo doveva essere la testata di un letto.
Provo a chiamare il numero, non risponde nessuno, scrivo e non ottengo risposte.
Parlo con chi, da scuola, potrebbe darmi una spiegazione e l'unica che mi dice qualcosa è la preside, la mia preside, una donna con due palle grosse come carrarmati, una donna incredibile per fermezza e volontà.
Mi dice che lui, il ragazzo e i suoi familiari, si sono dovuti trasferire, lasciare la scuola e indebitarsi fino al collo per le cure mediche, hanno venduto qualsiasi cosa avessero in casa; la preside li ha aiutati con qualche soldo, di tasca sua, ma non è bastato. Ovviamente nessuno sapeva nulla.
Ora non sono più rintracciabili, non si sa dove vivano, il cognome non da risultati di alcun tipo e io ogni giorno penso a quel ragazzo, la mia mente non sa se sia vivo o no, il mio cuore pensa solamente a quella stanza vuota e a quel quadretto per molti senza significato, per me simbolo di un vuoto incolmabile.

Non so neanche se queste parole abbiano un senso e un ordine, le ho messe giù come un fiume in piena, ma il tuo post Giuseppe mi ha dato la possibilità di ritirare fuori questa storia e scriverne mi ha fatto stare meglio e ricordare dei bei momenti e in qualche modo esorcizzarne di brutti.
Non so se ci sia una morale in tutto questo, ma penso sempre che l'essenziale, come da sempre Il Piccolo Principe insegna a generazioni di uomini, sia da cogliere in ogni situazione, soprattutto dove non si vede o dove non si pensa che sia.

Grazie

2 commenti:

  1. Ricordo di averlo letto un anno fa’ , me ne son dimenticato .
    Mi spiace.
    Sicuramente allora come oggi mi ha commosso.
    Alex è solo da ammirare...chissà se ha avuto in questo ultimo periodo notizie di quel ragazzo...

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    Risposte
    1. no, credo non abbia saputo più niente...
      anche perchè ieri mi ha scritto su fb e, se così fosse stato, credo me l'avrebbe detto...

      forse informarsi mette anche un pochino paura

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